Virginia Stephen nasce a Londra nel 1882 dal matrimonio di Leslie e Giulia Duckworth, entrambi vedovi con figli di primo letto cui se ne aggiunsero altri quattro, di cui lei penultima. Riceve un’educazione tipicamente vittoriana, fatta eccezione per quella religiosa trascurata, anzi omessa per volontà del padre: una ribellione non più sopita all’imperativo paterno di seguire la carriera ecclesiastica, abbandonata immediatamente alla scomparsa del genitore.
Nella casa londinese affollata di domestici, fratelli e amici, la piccola Virginia stenta a trovare oasi d’incontro con la madre, distante per le numerose incombenze e cure domestiche che, alla sua improvvisa scomparsa, saranno rovesciate dal padre sulle giovani spalle della figlia Stella e poi di Vanessa. La prima se ne libererà sposandosi, l’altra, ubbidiente, ma non vittima dell’autorità paterna come la sorella, ravvisando nel disegno e nella pittura il suo canale di espressione, sa ritagliarsi uno spazio per le sue corse in bicicletta verso l’Accademia.
Pur non subendo mai oneri di questo genere, ma disponendo ampiamente di tempo per le sue avide letture, cade nella sua prima crisi nervosa sia per la scomparsa della madre, elaborata nella morsa del conformismo borghese, ma ancor più per l’atteggiamento prevaricatore dei fratellastri. Di questi riesce a tacere gli ambigui approcci ma non domina il silenzio dell’impotenza, della rabbia e dei sensi di colpa. Per una tara di famiglia, più volte entrerà nel tunnel della pazzia cercando scampo con reiterati tentativi di suicidio.
La stima del padre che leggendo i suoi giornalini le preconizzò un futuro di scrittrice, le acerbe ansie di conoscenza, l’oppressione di orizzonti troppo attillati per una donna, la rendono insofferente di ogni stereotipo del pensiero e della parola. Cosciente della sua tensione si definisce “campo di battaglia di emozioni”, “rabbia, gioia, noia, esaltazione”.
La scomparsa del genitore le lascia il rimorso di non aver saputo trovare un alveo di scorrimento fino a lui, barricato nella solitudine della seconda vedovanza, ma è proprio nell’atmosfera di questo turbamento, dispiegato in solitarie passeggiate, che percepisce la sua vocazione di scrittrice.
Alla mancata istruzione universitaria, riservata ai fratelli, risponde aprendo il salotto ai loro giovani amici, orgogliosi della propria formazione culturale. Conversazioni “spregiudicate” che spaziano su tutto: politica, sesso, musica, religione e pittura. Fili che sa dipanare e maneggiare con abilità, la tela su cui lasciare una parte del proprio sentire, ricordare, desiderare, cercando di rendere visibile ciò che la percezione dello sguardo restituisce come tale.
In Rachel, la protagonista della sua prima opera Melymbrosia, divenuta poi La crociera, si ravvisa la denuncia degli oppressivi e ingiusti codici comportamentali da rispettare, specie per le donne del suo tempo. Il rammarico per le rachitiche radici della tradizione letteraria femminile è un altro tassello di sè che consegna ad un suo scritto Una stanza tutta per sè. O il ricordo del fratello Thoby, scomparso prematuramente, ne La camera di Giacobbe, e ancora l’addio mai del tutto definitivo alla madre Julia in Gita al faro.
Nonostante i numerosi corteggiatori, pensa poco al matrimonio, insofferente del “freno che esso rappresenta”, troppo intenta com’è a configurare la “visione” di sè come scrittrice. Non è insensibile però alle attenzioni, ricambiate, di Clive Bell, marito di sua sorella Vanessa, nè a particolari amicizie femminili, talvolta ispiratrici di alcuni personaggi delle sue opere, come in Mrs. Dalloway Sally Seton, lascia intravedere l’immagine dell’amica Madge.
A ventinove anni si lascia prendere dal timore di essere emarginata da quella società che osa sfidare continuamente ma da cui non sè non riuscirà a svincolarsi mai del tutto, come attestano le crisi di ansia all’uscita di ogni sua opera. Non la salvaguardano nè la ritrosia per i vincoli coniugali, nè l’indipendenza raggiunta rifiutando la faticosa convivenza con suo fratello Adrian.
Accondiscende così ad occupare l’unico ambito ritenuto onorevole per una donna: il matrimonio. Per aggirare l’ostacolo, tempo prima era giunta a promettersi al suo amico Lytton Strachey di tendenze omosessuali, ma ci ripensa immediatamente e nel 1912 sposa Leonard Woolf di cui ammira la vivace intelligenza critica e l’autonomia di pensiero nei confronti delle ferree regole sociali.
Un matrimonio basato sulla stima, la libertà e il rispetto reciproco dei diversi ambiti di appartenenza; un connubio della mente, il coinvolgimento fisico occuperà lo spazio di una piccola e irrilevante parentesi.
Leonard individua subito la traiettoria di vita di Virginia e, senza tralasciare interessi e attività personali, la solleva dalle incombenze del quotidiano, previene, sorveglia, e accetta le sue paure, le ansie e le debolezze umane: la rende signora della sua penna.
Un matrimonio senza conflitti, ingerenze reciproche, gare di rappresentatività: un matrimonio ben riuscito, si dice, dove l’uno si prende cura dell’altro, anzi uno dell’altra che…si lascia curare. Un marito da fare invidia, imperturbabile di fronte al giudizio di chi chiama opportunismo ciò che per altri è amore. Forse perchè consapevole che l’appartenenza al sociale si nutre anche di stereotipi, di culture e di pregiudizi risulta più interessato a interpretare che a trasgredire. Non occupa un ruolo subalterno nel rapporto di coppia: in realtà Virginia sceglie le sue scelte. E’ lui che la dissuade da un’eventuale gravidanza rischiosa per la sua salute e… il suo futuro di scrittrice, è ancora lui che sa regolare quell’impeto di frivolezza che talvolta la induce a sperperare il danaro, ormai abbondante per l’ampio consenso del pubblico. Ed è sempre lui che cerca di scongiurare un’altra pericolosa crisi d’ansia consentendole persino di trascorrere due giorni e due notti con Vita Sackville-West, una delle sue particolari amiche, andandole poi a trovare per orientare in modo diverso i giudizi della gente.
Lei sa leggere nell’animo del marito, ne apprezza il coraggio, l’equilibrio, la disponibilità, il livello culturale. Al suo vaglio critico affida il risultato di continui rimaneggiamenti, per Leonard un incessante ruminare, divorando energie alla ricerca di segni che restituiscono “la rarefazione”, “l’armonia”, “la speditezza”, “la flessibilità” del suo sentire.
La celebrità, i riconoscimenti accolti con ritrosia o rifiutati del tutto, come la laurea ad honorem, per non sentirsi legata ad accademie e al loro mondo, e neanche l’amore del marito la salvano dalla tempesta del suo antico spettro: la follia. Ne riconosce i segni e rivela, in una lettera a Leonard, la sua totale impotenza per il terrore di non poter più essere ciò che è: una scrittrice. Ha per lui parole di gratitudine per l’intesa e la bontà mostrata che tuttavia non le impediscono di trascinare con sè nelle acque dell’Ouse le “voci” che ha sempre fuggito e impone loro il definitivo silenzio.