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La retorica nasce nell’ambito della sofistica, cioè in un movimento di filosofi che si interrogano su questioni teoriche legate alla vita sociale del V secolo. Aristotele teorizza aspetti legati alla prassi giudiziaria, legge scritta non scritta e naturale, temi che si ritrovano nell’Antigone di Sofocle.
La parola italiana retorica è diversa da retorikè e rhetorica, viene assunto solo un significato: la radice contiene un’idea di comunicazione e formulazione, ha in sé l’italiano retorica e oratoria che hanno entrambe quest’idea: oratoria = discorso davanti a un pubblico o scritto per un pubblico con fine persuasivo, retorica = arte che specula sulle potenzialità di un discorso oratorio; il greco usa per entrambi retorikè (nasce prima l’oratoria poi ci si riflette). Definizioni di retorikè sono date dai siciliani Corace e Tisia, per entrambi la retorikè persuade, è oratoria, e l’arte cercherà di dare una tecnica insegnabile a scuola per comporre discorsi persuasivi e scoprirne la natura. Quasi tutti gli ambiti della comunicazione hanno finalità persuasive, ne è esclusa la scienza che punta alla verità mentre la retorica ha a che fare con la verosimiglianza; per la scienza si usa molto più lo strumento dialettico e logico che quello retorico. Persuasione è impronta sull’altro del pensiero, nell’arte figurativa e poetica l’artista vuole persuadere il fruitore attraverso lo strumento poetico, che ha un legame inscindibile con quello retorico; quello poetico cattura all’istante (anonimo del sublime), quello retorico è un processo più lento e richiede una maggiore elaborazione. Secondo Corace e Tisia suo allievo la rhetorikè è potere o artefice della persuasione; entrambi vivono in Sicilia nel periodo di passaggio tra tirannide e democrazia.
La persuasione
Cosa significa essere persuaso? quando si riesce a persuadere qualcuno? nell’atto di persuadere ed essere persuasi c’è spazio per la libertà dell’altro? I sofisti antichi e Platone si sono accorti da subito del problema, etico nell’ultimo caso. La retorica è vox media, dipende dall’etica di chi la utilizza, ma in parte è una tecnica indipendente dal contenuto, dunque può persuadere sia di un messaggio vero sia di uno falso; Platone si scaglia contro retori e sofisti che insegnavano retorica perché è arte ambigua; oratoria è meccanismo psicologico di cui non siamo consapevoli sempre, se lo siamo non subiamo le conseguenze di atti oratori. Come prassi la retorica è ineliminabile, solo il fatto di affermare che ci siamo è un atto persuasivo; come teoria è stata discussa, cerca di astrarre i principi che vengono applicati nella realtà e di venderli, così già dall’antichità; siccome non ne siamo consapevoli, la retorica serve a comprendere questi principi così connaturati a noi, e già nel V secolo qualcuno pensa di insegnarli ed emerge il problema etico: lo strumento che viene messo a disposizione è efficace e ci si chiede se debba essere insegnata a persone moralmente corrette; chi non conosce i principi subisce soltanto la retorica, questa smaschera la fragilità della nostra condizione umana, il problema etico è a monte: difficile dire di insegnarla ai moralmente corretti, tutti la usano senza saperlo.
Una riflessione sul potere della parola e sull’idea del peìthein, cioè la valenza della persuasione, è già presente in Omero: si afferma il potere divino della parola nonostante la persuasione non sia una divinità (od VIII), il capace uso della parola dà l’impressione che chi parla sia un dio nella testimonianza di Odisseo: una persona può essere diversa da quella che sembra d’aspetto, e già si afferma che se manca il pensiero la parola è impoverita, non c’è la capacità di comunicazione; è un nesso che rimane fondamentale nella Retorica aristotelica e in autori successivi; avere grazia di parola è in questo passo anche fonte di un prestigio sociale non garantito dall’aspetto, principio democratico. Inoltre alcune formule dell’Iliade fanno pensare alla persuasione come stoltezza del cuore (Il. XVI 840), persuasione più facile per chi è stolto, e al contrario il saggio non si lascia persuadere (vedi Bellerofonte che non si lascia sedurre dalla moglie di Preto). Nei poemi di Omero è frequente il nesso persuasione-obbedienza, espresso in greco dallo stesso verbo all’attivo e al medio con questa differenza: peìtho = persuado, peìthomai = sono persuaso quindi obbedisco; nella sua origine l’azione del persuadere mira ad un’obbedienza, un assenso della mente cui consegue un atto. La persuasione implica un cambio di direzione nelle azioni, che avviene se ci si lascia persuadere. Il verbo epipeìthomai è usato spesso per Patroclo con Achille, nell’Odissea questo verbo esprime l’obbedienza del figlio Telemaco al caro padre; queste formule sono frequenti anche in altri contesti, prima di un passaggio significativo della narrazione. Da quest’aspetto dell’obbedienza scaturisce la domanda sul rispetto della libertà: essa può essere un subire un’autorità o esserne convinto, e l’uso dello stesso verbo in greco mostra che nell’etica greca nel concetto di obbedienza è implicita la convinzione, l’assenso della mente (al padre, a un’autorità che riconosciamo e che ci convince), diverso è obbedire ad un’autorità che non convince (a cui si abbandona il cuore stolto, pensa all’epoca nazista quando si deportavano gli Ebrei eseguendo ordini). La persuasione che implica assenso della mente è un atto di fiducia verso chi consideriamo l’autorità, il riconoscimento di quest’autorità. Conclusione: noi siamo liberi quando tutte le componenti della nostra complessa psiche danno assenso, non una che sovrasta le altre, cosa che perlopiù non avviene, non riusciamo ad essere noi stessi in modo completo ma viviamo a sezioni di noi stessi; subiamo la retorica quando non siamo del tutto padroni di noi stessi, ed è anche questo compito che affidiamo ad essa: aiutarci a conoscere meglio noi stessi.
L’encomio di Elena e le immagini della persuasione
Gorgia ha scritto l’encomio di Elena, è un personaggio chiave per la storia della retorica; siciliano di Lentini vissuto nel V sec a. C. ebbe contatti con Empedocle, la scuola pitagorica, in un momento cruciale come il passaggio alla democrazia e ci si trovava di fronte a problemi giuridici per cui era necessario enucleare i principi dell’arte della comunicazione efficace; in un trattato dimostra cosa è per lui l’arte della persuasione nella pratica, provando l’innocenza della donna più condannata di tutte. La sua difesa è sviluppata attorno al potere della parola, che anche qui ha poteri divini. Già nel suono per gli antichi dava una sensazione immediata, cambia gli stati d’animo come una musica, favorito anche dall’accento musicale delle lingue antiche (Gorgia stesso guariva le malattie con suoni); per Gorgia un suono non dà scampo, un suono acuto provoca gioia e non si può sfuggire alle sensazioni che provoca, non ne può suscitare di diverse, e così per lui riproducono questo potere da cui non abbiamo difesa la poesia e la prosa, Elena stessa era stregata dal discorso del suo amante e quindi non può essere ritenuta colpevole, non c’era libertà da parte sua. Nel Filebo di Platone Protagora racconta di aver sentito Gorgia dire che l’arte della persuasione rende ogni cosa schiava in modo consenziente e non con la violenza; per Gorgia allora possiamo dire di sì senza subire un atto di violenza ma restare comunque schiavi, ed è questa la forza subdola della retorica capace di far dire sì in modo consenziente.
Per Esiodo Peithò, la Persuasione, è una divinità sorella delle grazie, astrazione personificata della persuasione. Nella teogonia fa parte delle Oceanine, divinità delle acque correnti, dunque è fluida e filtra dappertutto come acqua. Nelle Opere Peithò orna la donna ad imitazione della divinità, Pandora ovvero una bellezza fittizia fatta per ingannare, di corone d’oro; Shapiro richiama il mito di Erifile, che si fa corrompere da una collana quindi l’ornamento fa capire la forza dei gioielli che attraggono in modo irrazionale, e a cui la persuasione appartiene. Nella mitologia e nell’iconografia Peithò è associata ad Afrodite Pandemos e ad Eros; Pausania dice che furono gli Ateniesi ad istituire il culto di Afrodite e Peithò, e il loro tempio sarebbe stato eretto da Teseo, dunque già in epoca arcaica le due divinità erano associate. Prassitele fece una statua di Afrodite e Peithò nel tempio di Megara (sempre secondo Pausania). In questi ed altri esempi la persuasione non ha connotati precisi all’apparenza, non si fa riconoscere ed è dappertutto. Nel mondo antico i messaggi iconici più importanti passavano attraverso oggetti di uso quotidiano come vasi e monete; abbiamo numerosi vasi attici del V secolo e della Magna Grecia del IV, e Peithò compare in un oggetto usato come ginocchiera per le donne che filavano, in legno e dalla forma di un cilindro cavo, dove era rappresentata una scena mitica o di vita quotidiana femminile: in un caso Persuasione partecipa alle nozze di Armonia, è in piedi e si guarda a uno specchio ed ha di fronte Armonia che conversa con Core. La scena prelude al matrimonio, per Shapiro la dea ha terminato il compito di persuadere la vergine alle nozze ed ora può badare a se stessa. La dea è spesso associata ad Afrodite ed Eros perché essi hanno già in sé una persuasività; ma Peithò è anche soprannome di Artemide. La dimensione sacrale è presente in Eschilo e Sofocle e viene razionalmente superata da Euripide: non esiste altro tempio di Peithò se non il logos, e il suo altare è nella natura dell’uomo.
Passaggi dello sviluppo della retorica
Le città chiave della Sicilia del V secolo dove nasce la retorikè sono Siracusa con Gelone e discendenti, Agrigento con passaggio da tirannide a democrazia contemporaneo alla presenza di Empedocle, e Lentini patria di Gorgia. La retorica forse aveva avuto in epoche preistoriche uno sviluppo da Oriente ad Occidente, ma in epoca storica passa da Occidente Sicilia ad Oriente centro di potere Atene; ci sarà poi il ritorno all’Occidente al tempo dell’impero romano. Diodoro Siculo descrive precisamente la capacità persuasiva di Gelone, che derivava da sapiente uso delle parole e sagace comprensione della psicologia dell’uditorio, che conquista con atteggiamenti inaspettati. Era in grado di far parlare prima delle parole la propria postura e il proprio abbigliamento, si poneva nel modo conveniente al pubblico e alla situazione; non esistono regole rigide sul linguaggio non verbale per essere persuasivi. Seppe dimostrare forza carismatica ed agire su elementi irrazionali ed emotivi: correva il rischio di una rivolta militare, ma si presenta disarmato ad un’assemblea di uomini armati suscitando stupore ed ammirazione. Parla non di verità oggettive ma di utilità che aveva dato ai Siracusani guadagnando progressivo assenso tanto che il potere invece che tolto gli fu confermato. I suoi successori Ierone e Trasibulo avevano carattere violento e non seppero accattivarsi il favore dei Siracusani, perciò erano costretti ad esercitare il potere con la violenza. Un aspetto importante per conquistarsi un pubblico è infatti l’èthos, l’immagine morale che si dà di sé. Dopo Trasibulo che fu costretto a ritirarsi a Locri si instaurò un regime democratico che durò dal 465 a. C. alla tirannide di Dionisio del 406 a. C. Dopo la caduta delle tirannidi si pose il problema della ridistribuzione dei territori assegnati ai mercenari ai quali fu permesso di allontanarsi da Siracusa, e da qui nascono questioni di diritto privato, perché persone cui era stato confiscato il terreno combatterono perché con l’avvento della democrazia fosse loro restituito. Diodoro scive sul significato del passaggio dalla tirannide su base militare alla democrazia, e dà un parere anche Cicerone, attribuendo la nascita dei precetti retorici a questo passaggio, per reclamare i terreni privati. I processi per queste proprietà furono l’inizio di una vita attiva dei tribunali perché non era possibile accontentare tutte le parti senza ricorrere ai processi, non era più possibile far valere i propri diritti con mezzi naturali e buonsenso. Cicerone parla dei Siculi come popolo acuto ed amante delle controversie, abituato ad argomentare in modo accurato e ben disposto: l’ordine degli argomenti può essere determinante sulla risposta e sulla persuasione dell’altro. In Rolan Bart, La retorica antica, si legge un’interpretazione particolare della retorica antica: vede una causa concreta e pratica all’origine della retorica (brutale necessità di autodifesa), conflitto sociale alla base dell’abbozzo di una parola finta, diversa da quella di finzione che era quella poetica (la poesia era molto più avanti della prosa, aveva dato molti capolavori mentre la prosa era legata alla vita di tutti i giorni; Empedocle e Parmenide scrivono opere filosofiche in versi, la poesia è il normale modo di esprimersi); grazie alla retorica la prosa diventerà genere letterario. La retorica è arte che insegna ad affrontare in modo sottile questioni politiche e giudiziarie.
Un esempio del dilemma è quello tra Corace e Tisia maestro ed allievo sui denari da pagare; il maestro ha la meglio perché esisteva un patto, che per Aristotele è una prova non tecnica che non dipende dall’abilità dell’oratore, dal punto di vista formale se Tisia ha imparato la retorica deve pagare il maestro. Ma questo dilemma mostra la possibilità di usare un medesimo ragionamento per ottenere una cosa e il suo opposto; il punto debole è il patto, Tisia sembra averlo dimenticato ed entrambi con lo stesso ragionamento vogliono ottenere ciascuno il proprio utile; la bontà dello strumento dipende dall’intenzione etica di chi la usa, è un’arte e come tale non ha in sé connotazione morale. Per Aristotele Empedocle scoprì o mise in moto la retorica, accenno problematico ma da non trascurare: più corretto pensare ad una messa in moto che ad un’invenzione, l’agrigentino agisce parallelamente a Corace e Tisia in condizioni storiche simili e quasi nello stesso periodo. Empedocle indaga i principi ultimi della natura e considera la realtà con sguardo che non coglie solo le apparenze, staccandosi da Parmenide e Zenone. Per Parmenide quello che vediamo è un mondo di apparenze, retorica e dialettica sono inscindibili: non si comprende il fenomeno complesso della retorica senza considerare la ricerca della verità, Empedocle la mette in moto perché inquadra la verosimiglianza e la sua differenza con la verità. Elea e la Sicilia sono i luoghi d’origine di questa differenza e qui nasce la retorica come forma di dominio gnoseologico, di connessione tra pensiero e parola, sulla realtà; non è solo uno strumento per soddisfare necessità pratiche. La tradizione racconta dei contatti di Empedocle con il pitagorismo e delle sue pratiche magiche. La retorica di Corace e Tisia era una raccolta di casi pratici, insegnavano a pagamento nella loro scuola usando metodi orali; non c’è testimonianza di arte retorica in astratto prima di Aristotele. In Grecia per difendersi si ricorreva ai logografi e ciascuno leggeva o recitava in tribunale il discorso scritto dal logografo; bisognava imparare nelle prime scuole siracusane a ricordare e a convincere dando un ragionamento fatto da un altro, anche con capacità di presentarlo al pubblico. I cinque principi non sono sistematizzati ma già l’insegnamento li porta a galla nella pratica. Empedocle riconoscerà i principi materiali della realtà in aria acqua terra fuoco, ma i principi ultimi sono amore (filìa) e guerra. Empedocle è politico attivo in un momento di passaggio e di colpi di stato, e si trova a fare dei discorsi e ad affrontare il problema di come esprimersi, la scrittura in prosa richiede la riflessione su una lingua non più poetica, è un’urgenza. Diverso da Siracusa dove la retorica sembra nascere per gravi necessità. Un commentario di età imperiale riporta informazioni su ciò che dice Timeo sulla Sicilia: in parte esse sono realmente storiche e concordano con quelle di Diodoro, passaggio alla democrazia con momento chiave per la nascita della retorica; riferisce poi che durante la tirannide i siracusani non potevano parlare e impararono perciò ad esprimersi con tutto il corpo dando origine alla danza (aneddoto fittizio ma significativo), si tratta di una primigenia forma di comunicazione, fatto sta che in Sicilia si usa ancora oggi la gestualità più che altrove. Quest’aspetto non si perderà mai nei successivi sviluppi della retorica, non sarà solo il logos a fare il buon oratore ma anche la presenza fisica ed il movimento del corpo, che sappiano comunicare le nostre intenzioni. Il logos regola il popolo disordinato, è la parola studiata e governata da ragionamento, e dà la possibilità a chi sa parlare di indirizzare o dissuadere chi ascolta, in vista di ciò che è conveniente, termine chiave per ogni questione di natura politica: conveniente è ciò che muove alle decisioni politiche, nel caso della democrazia greca è il giusto per chi è rappresentato. Corace secondo questa testimonianza comprese la necessità di dividere il discorso in sezioni, la prima delle quali è il proemio che è discorso gentile e adulatore, l’oratore deve accattivarsi il pubblico, mettersi in contatto con esso e valorizzare la sua capacità di ascolto, calmarlo ed ottenere il silenzio. Seguono i fatti, espone come in una narrazione i fatti su cui bisognava decidere e con tutta probabilità propone anche i suoi consigli ed una soluzione; nell’epilogo ricapitola quanto detto nei punti principali e cerca di rendere visive e chiare le idee agli ascoltatori. Il corpo centrale del discorso è chiamato agone, dunque non contiene solo l’esposizione dei fatti ma anche la confutazione o meglio distruzione delle tesi diverse. L’epilogo oltre al riassunto contiene un’esortazione, se è vero che il discorso vuole spingere a fare o non fare qualcosa. Ricorda Retorica 2 24, dove Aristotele affronta le possibilità di ragionamento sbagliato, e mette in guardia dai discorsi ingannevoli che Corace poteva insegnare. Una falsa argomentazione si basa su qualcosa di inverosimile in assoluto ma verosimile in particolare (contrario al sillogismo aristotelico); secondo lui gli errori e gli inganni sono dovuti al fatto che la premessa maggiore è verosimile solo in particolare. Nel mondo della verosimiglianza è possibile anche l’inverosimile, ma è un caso eccezionale, che avviene in certe condizioni e non assoluto, e Aristotele vede questo inganno nei discorsi in tribunale di Corace; è però vero che certe regole non erano state teorizzate. Quest’errore eristico è a monte e ancora oggi è presente: in ogni situazione di verosimiglianza esistono condizioni: la circostanza, il rapporto e la modalità di qualcosa, e vanno tutte specificate. La realtà con cui ha a che fare la retorica non ha una verità assoluta indipendentemente dalle circostanze che non fanno verificare le condizioni presenti nella premessa valida in astratto. La funzione del logos retorico è quella di fare un po’ di chiarezza nella realtà così piena di ambiguità. Anche il Fedro di Platone presenta il criterio della verosimiglianza: Fedro afferma che per essere un buon oratore si deve parlare di ciò che può sembrare giusto e buono a chi giudicherà il discorso. Platone vede nella retorica una volontà di inganno e vuole mostrare la priorità della filosofia. Il filosofo indaga la realtà ontologica, mentre esiste anche l’aspetto gnoseologico, quello che siamo in grado di conoscere di questa verità: è chiaro che non possiamo conoscere tutta la verità e siamo in balia dell’incertezza e della verosimiglianza, perché la capacità dell’uomo di conoscere la verità è limitata (questo però non mette in dubbio l’esistenza di un’unica verità assoluta). Protagora scrive che “non è in grado di dire se gli dei esistono”, e per questo fu cacciato come empio; egli però non affermò che gli dei non esistessero, ma l’impossibilità di conoscerli. In questo senso la retorica opera a livello gnoseologico, quello che importa al retore è la realtà pragmatica dei tribunali, si occupa di quella verità che può comunicare, non si occupa di cose vere ma dell’ambiguità del verosimile, ma per Aristotele è naturale tendenza umana quella alla verità, ha un’opinione ottimista. Fedro era testimone di oratori che davano più importanza a ciò che si fa credere all’uditorio; è difficile trovare persone che non vogliano difendere interessi di parte, l’oratore spinge il pubblico a fare o non fare ciò che potrebbe anche credere sia una causa giusta, ma per la sua parte. La risposta di Fedro sembra presupporre che l’oratore sia anche filosofo, conosca ciò che è giusto e se inganna lo faccia per una mala intenzione, il problema sarebbe in lui e non nella realtà stessa. Qualsiasi premessa retorica è valida perlopiù per la natura della realtà di cui si occupa. la cosa fondamentale è partire da una buona premessa che faccia dire di sì al pubblico, perché i ragionamenti successivi sono una catena di necessità, e il pubblico li segue senza difficoltà se sono formalmente corretti, sempre che l’oratore abbia l’intuito di non farsi confutare nella premessa da cui parte.
Ma è importantissima anche l’immagine che l’oratore dà di sé, che condiziona buona parte dell’accoglienza o non accoglienza dei contenuti. Da individuare per il retore quella premessa che risponde ai bisogni di chi ascolta, che può persuadere anche persone di spessore intellettuale, perché non siamo solo razionalità ma anche emotività. Ulteriore possibilità di inganno è saltare dei passaggi logici: magari la premessa denunciata non è quella vera, ne nasconde un’altra sulla quale si potrebbe discutere; chiediti sempre perché dici di sì a una premessa e se quella è effettivamente la premessa che vuole porre l’oratore.
Personaggi prearistotelici precursori della retorica
Alla fine del VI secolo visse Laso di Ermione che attuò riforme musicali e diede vita a concorsi ditirambici, ma fu anche creatore di discorsi eristici pur non essendo retore né sofista. Aneddoto da Ateneo VIII 338 b, i deipnosofisti, colloqui di sapienti a pranzo: egli gioca sull’omonimia di optòs, cotto e visibile, e sosteneva per scherzo che il pesce crudo visto che si può vedere è optòs. La scoperta di queste proprietà del linguaggio è più antica dell’invenzione delle figure retoriche. Il linguaggio può creare possibilità e ambiguità tali per cui ogni tanto non ce ne accorgiamo.
Protagora fu allievo di Democrito, filosofo atomista che interpreta la realtà come fatta di elementi invisibili ma che rappresentano la verità. Protagora fu sofista itinerante, fu amico di Pericle che lo incaricò di scrivere un corpo di leggi per Turi, colonia panellenica fondata al posto dell’antica Sibari, Platone gli dedicò un dialogo con Socrate. Plutarco racconta nella vita di Pericle un aneddoto su Protagora, la questione giudiziaria cioè stabilire ciò che è giusto si cerca di valutarla razionalmente; è un ragionamento che riguarda un atleta che colpisce un uomo con il giavellotto, e i due devono stabilire se la colpa sia del giavellotto, di chi lo aveva lanciato o degli addetti alla sicurezza. Protagora si occupò di problemi grammaticali e di comunicazione: il genere è determinato da una convenzione o dalla natura dell’oggetto che esprime? Ira secondo lui deve essere di genere maschile perché è un sentimento più maschile che femminile, questo ci fa capire la connessione tra grammatica e forme del pensiero, come già si era accorto Laso di Ermione. I sofisti iniziano a ragionare sulla lingua di Omero e nasce da qui la prima critica letteraria omerica, Protagora trae l’esempio dell’ira da Omero sostenendo che Menis dovrebbe essere maschile. Protagora si pone anche il problema di coordinazione tra genere del nome e aggettivo, non sempre essa è facile e capita di trovare errori nel linguaggio: quella regola della coordinazione o concordanza di genere e numero, una volta fissata, se viene infranta retoricamente significa che si vuole ottenere un effetto, se si dominano le categorie della lingua; l’eccezione o è errore o è artificio retorico, e il discrimine sta nella capacità poetica di chi scrive, la possibilità di far capire l’idea in più espressa dall’eccezione; se essa non è funzionale e stona è un errore. Riflette Protagora anche sui modi verbali sempre studiando Omero, si chiede che idea esprimano i diversi modi, quali differenze ci siano tra frase affermativa e negativa di intonazione della voce e significato; si cerca cioè di distinguere l’intenzione sintattica attraverso il modo verbale, senza l’uso di segni diacritici come punteggiatura. Fondamentali la grammatica e la sintassi per dominare il linguaggio, dominio di queste categorie è dominio dei pensieri; inoltre è stretta la connessione tra actio ed elocutio, il logos nella mente e nella voce dell’oratore è lo stesso, il pensiero non è un’idea ma ha corpo e appare già con le frasi costruite, se è chiaro a chi lo esprime. Platone distingue nel Protagora la macrologia e la brachilogia, discorso lungo o breve che può essere usato per esprimere la stessa idea, ma l’abilità sta nel distinguere quando usare una macrologia e quando una brachilogia; l’esposizione orale non permette sempre di cogliere i passaggi logici, quindi è capace l’oratore che riesce a dare un’immagine limpida del messaggio, le potenzialità del discorso scritto sono altre. L’uso della macrologia può avere l’effetto di gettare ombra su un pensiero, e chi si sa esprimere con poche parole essenziali ha un pensiero più forte; usare la macrologia richiede molta arte, perché o le parole non comunicano molto o fa acquistare al pensiero colori e sfumature, la retorica insegna a controllare il proprio stile brachilogico o macrologico. Affermazione di Protagora è “l’uomo è misura di tutte le cose”, ripetuta e criticata come negativa; Protagora osserva che ogni individuo ha percezioni differenti, e la quotidianità è fatta di percezioni legate alle esperienze di ciascuno, e in questo senso ogni individuo è misura delle cose. Protagora sembra inventore dell’antilogia, capacità di contrapporre discorsi di uguale verosimiglianza senza che nessuno sia più vero dell’altro, chi ha più potere riesce a ottenere l’assenso per la sua soluzione; la maggior parte delle nostre esperienze è caratterizzata da questa relatività, e Protagora è considerato padre del relativismo negativo: lui ha scoperto questa negatività, e ha indagato i limiti della conoscenza umana, e questo è merito di Protagora. Protagora non afferma che la verità assoluta non esiste, ma afferma che è impossibile conoscerla per la limitazione dell’essere umano. I contemporanei non capirono le sue affermazioni ed egli fu condannato così come i suoi libri che furono bruciati. Protagora fu il primo ad insegnare discorsi eristici, nelle esercitazioni con gli studenti mostra come sia possibile manipolare una comunicazione, e fu giudicato negativamente da Aristotele per la sua capacità di rendere forte un argomento debole, attraverso lo strumento della parola che manipola il pensiero. Protagora fu anche il primo a tenere discorsi pubblici a pagamento. Protagora però, con la scrittura delle leggi per Turi, dimostra che esistono leggi al di sopra di questa relatività e della libertà individuale, che da una parte è base del principio democratico, dall’altra indica la presenza di un’intenzione etica al di sopra della relatività.
Gorgia da Leontini nacque intorno al 480 a. C. e andò ambasciatore ad Atene nel 427 con buon successo della sua oratoria; l’ambasceria era in parallelo con quella di Tisia che chiedeva l’aiuto di Atene per conto dei siracusani. Gorgia scrisse opere di tre generi, epidittico giudiziario suasorio, i tre scopi ed ambiti d’azione dell’oratoria. Il genere giudiziario è di discussione per decidere cosa è giusto; il discorso politico è di deliberazione in assemblea; l’epidittico richiama a valori che hanno come obiettivo quello di tenere unita una comunità. Merito di Gorgia è aver cominciato a trattare il genere epidittico in prosa, trovandosi ad affrontare il problema della lingua che prima era sempre stata quella poetica. Abbiamo come titoli un encomio agli Elei ed un Epitafio pronunciato ad Atene per i caduti della guerra del Peloponneso. Gorgia scrisse anche discorsi di genere epidittico-politico, si danno insieme valori comuni e decisioni di tipo politico. Alcuni classificano come politico altri come epidittico un discorso (Aristotele / Filostrato). Gorgia sentiva che il pericolo persiano era in agguato e vuole incitare i Greci a non farsi guerra e unire le forze all’interno, tra chi parla la lingua greca in un dialetto differente, ponendo come premio il territorio barbaro. Gorgia interviene anche su questioni ontologiche e dialettiche, ci è arrivata per tradizione indiretta l’opera sul non essere o sulla natura, da due fonti non sempre coincidenti (Aristotele Sesto Empirico). Altre opere sono didattiche di tipo epidittico-giudiziario, Palamede ed Elena, le uniche arrivate per tradizione manoscritta; ci fanno capire come Gorgia intendeva la retorica per exemplum, come Corace e Tisia. Difende Palamede ed Elena dalle rispettive accuse, forse contemporanea è l’Elena di Euripide in cui si parla di un fantasma e non di una donna che tradì il marito. Figure come Gorgia e Protagora furono attaccate non da Platone ma dalla scuola platonica che per contro voleva mettere in luce il valore del filosofo Socrate o Platone. Sul problema della lingua egli cerca di elevare a livello di letterarietà la lingua quotidiana prendendo a modello caratteristiche della poesia; lo stile è paratattico e frequente è l’uso di isocolia, crea assonanze e utilizza le figure retoriche, nozione non teoreticamente elaborata ma già esistente e nell’uso (chiasmo, climax, poliptoti). Già i pitagorici sapevano che c’era correlazione tra suono e comportamento umano, o meglio reazioni fisiologiche degli uomini. Gorgia fu pitagorico come Empedocle, era a conoscenza di questi studi sul potere terapeutico dei suoni; egli li trasferì al piano del linguaggio parlato in prosa. Il tono, il volume e il ritmo sono significanti e comunicano lo stato d’animo di chi parla, e Gorgia fece propri questi aspetti anche per la sua cultura musicale recepita alla scuola pitagorica. Fa largo uso di ossimori per creare sorpresa, e sceglie di volta in volta i suoni più appropriati. Teorizzò il potere psicagogico della parola (Elena par 8), per lui poesia poìesis è un discorso con metro: egli vede nel ritmo dato dal metro il potere della musica. È presente nello stesso paragrafo il principio della catarsi, potere della parola di far sentire emozioni non proprie ma che purificano dalle “malattie” delle emozioni, esse devono essere modificate per non lasciare traccia di dolore; soffrire per un dolore di altri toglie dolore alle proprie sofferenze (Aristotele, Poetica). La parola poetica trascina e affascina, quindi persuade, e da questa fascinazione sono nate le arti poesia e prosa, che possono essere anche errori dell’animo o inganni della mente: il fascino non è di contenuto di verità, ma è dato dall’effetto fonico delle parole, la poesia per sua natura è un mondo finto. Anche Gorgia come Protagora si accorge della sua incapacità di conoscere la verità e la distingue dall’opinione degli uomini, parla solo di verosimiglianza. Gorgia toglie presunzione di verità ai discorsi umani che sono al massimo buone opinioni. La persuasione ha il potere dell’ineluttabilità, lo schiavo consenziente, e un discorso può persuadere a credere ed agire; Elena fu vittima delle parole persuasive dell’amante e perciò non è colpevole. Essere persuasi significa ricevere un’impronta dell’altro; il logos attraverso i discorsi scientifici, i dibattiti oratori giudiziari e le discussioni filosofiche punta alla persuasione, nessuna delle letture della realtà è più vera dell’altra. Gorgia paragona i discorsi a farmaci che hanno proprietà diverse, produrre dolore o gioia, cura o veleno; Elena fu dunque non colpevole ma sventurata. Quella di Gorgia non è come è stato creduto un’apologia della parola ingannevole, ma vuole dare consapevolezza del potere della parola di ingannare e se non ci si difende non si ha scampo, perché egli rappresenta la stessa Elena come ingannata dalle parole. Riconoscere il problema gnoseologico e il suo essere distinto dall’ontologia è alla base della nascita della democrazia ed è una difesa da ogni ideologia tirannica: ogni interpretazione umana della realtà è parziale. Gorgia non parla di inferiorità intellettuale di Elena, non vede possibilità di autodifesa perché la persuasione di cui dice non è razionale ma è prodotta dalla parola che emoziona e incanta; è chi ha persuaso ad essere colpevole perché ha esercitato una costrizione, e la responsabilità di chi attua una persuasione perversa è anche etica. Non è sufficiente aver commesso il reato per essere condannati, se dietro ad esso non c’è un atto volontario e consapevole non si è colpevoli, ed anche questo è argomento per difendere Elena.
L’altra opera didattica di Gorgia è il discorso di autodifesa in tribunale di Palamede, eroe valente in guerra, astuto e a cui sono attribuite molte invenzioni (lettere doppie, faro ecc.). Egli per aver smascherato la falsa pazzia di Ulisse fu vittima della successiva vendetta: Ulisse fece portare nella sua tenda una somma di denaro e una falsa lettera di Priamo che ringraziava per alcune informazioni, e denunciò poi il tradimento all’assemblea dei Greci che condannò Palamede alla lapidazione. La tesi della sua ultima orazione è che è impossibile dimostrare ciò che non è accaduto; Gorgia utilizza il metodo della dimostrazione per assurdo, Palamede si prova innocente ipotizzando che sia accaduto e dimostrando l’assurdità delle conseguenze.
Il metodo di dimostrazione per assurdo o apagogico è forse stato preso a modello in parte da Mussolini, unitamente all’uso di antitesi. L’impressione ékplexis può avere forte potere di persuasione e rendere difficile trovare un’argomentazione valida in risposta. Sono sullo stesso piano alètheia e anàgke: quest’ultima è una forza cogente, la forza del vero e non del verosimile; Gorgia però riconosce di doversi servire di maestri più rischiosi che utili, di dover stare nell’orizzonte della verosimiglianza. Per prima cosa Palamede vuole dimostrare che non è in grado di commettere azioni del genere, e lo fa ammettendo che ciò sia vero, denunciando il suo metodo apagogico. Se avesse tradito avrebbe dovuto esserci accordo verbale col nemico, ma non è possibile perché per parlare con quelli dell’armata opposta era necessario un intermediario, che non c’è stato; concede poi la possibilità che ha negato, se anche ci fosse stato quell’incontro tra un greco e un barbaro la comunicazione sarebbe stata impossibile per la diversità delle lingue. Ipotizza un interprete, ma esso sarebbe stato testimone di fatti che dovevano essere segreti. Continua allora la dimostrazione, avrebbe dovuto esserci garanzia con lo scambio di ostaggi, cosa che se fosse avvenuta sarebbe nota a tutti. L’aspetto più interessante è proprio questo continuare ad ammettere ciò che ha dimostrato essere impossibile, e alla fine dimostra l’impossibilità di tutto, se anche avesse voluto non avrebbe potuto farlo; poi con lo stesso procedimento dimostra la mancanza di una volontà.
L’inizio della speculazione razionale sull’arte retorica
La discussione sull’arte della persuasione ha fatto uso di ragionamenti fin dai primi esempi di atti oratori, ma senza che ci fosse alla base una speculazione logico-dialettica, che ci sarà solo con Aristotele e dopo le opere di discussione sul cosmo e sulla natura. Gli studiosi sono unanimi nel ritenere che l’invenzione della dimostrazione per assurdo sia nata nella scuola di Elea, ed il principale divulgatore fu Zenone, forse allievo di Parmenide, dopo l’opera sulla natura del maestro. Platone fa una sorta di apologia del pensiero di Parmenide, che applicava il principio di non contraddizione “se l’essere è non può non essere”, mentre non si può costruire scienza sulla mutevolezza del divenire che è pura apparenza. Zenone inventa la dialettica per difendere questo pensiero, sposta l’attenzione dagli opposti essere-non essere a quelli uno-molti. Aristotele riferisce l’episodio paradossale di Achille e la tartaruga, secondo cui il più veloce non può raggiungere il più lento se questo aveva un vantaggio in partenza (aporia); a livello dialettico la realtà è semplificata rispetto all’esperienza, la nozione di spazio si incrocia con quella di tempo. Zenone vuole dimostrare la falsità del divenire, lo fa mettendo in evidenza la contraddizione tra l’apparenza e il ragionamento logico. Forme di dimostrazione, Aristotele, Retorica, 2, 23. Stesicoro, per persuadere ad una deliberazione di tipo politico, racconta una favola (2, 20). Aristotele sostiene che se si procede induttivamente si devono trovare molti esempi simili, uno solo non è sufficiente. Dimostrazione di Corace (corax), Aristotele 2 24, il dilemma, è basata sul ruolo comune della verosimiglianza; si può usare questo concetto per una dimostrazione, ponendo come premessa la verosimiglianza o no di un evento; partendo dalle stesse premesse si può arrivare a conclusioni opposte (dilemma), ma solo una è realmente verosimile, l’altra lo è solo in circostanze speciali, come eccezione. La premessa può essere valida necessariamente sempre, perlopiù o eccezionalmente, e dobbiamo sempre chiederci da quale di queste tre categorie partano le premesse delle comunicazioni che ci arrivano. Altra dimostrazione prearistotelica è la petizione di principio, che è quella usata da Gorgia nell’encomio di Elena: egli tralascia la questione più importante, la possibilità che lei volesse seguire l’amante, e dimostra l’infondatezza delle altre tesi che analizza credendo così di aver dato una dimostrazione.
Nel Cratilo Platone affronta il rapporto tra significante e significato, nel Gorgia si chiede se la retorica possa essere considerata arte (techne), e lo fa negare a Socrate perché sembra non avere un oggetto definito, convinzione radicata nel tempo e connaturata al concetto di techne; esemplifica con il fratello di Gorgia medico e meno capace del sofista di persuadere i malati a prendere certe medicine. Punto di arrivo di questa discussione è l’inizio della Retorica, Aristotele la definisce come scienza utilizzabile in tutti gli ambiti e si fa pace con questa nozione, è un fluido che penetra ovunque; Platone non riusciva ad accettare la sua mancanza di un preciso ambito di applicazione, e la sua ostilità nei confronti di quest’arte era favorita dal comportamento di certi sofisti che facevano soldi e difendevano cause anche poco etiche.
Il caso di Fedro che chiede a Lisia di prestargli il rotolo per imparare il suo discorso è il primo caso di allontanamento del libro dall’autore, e lo stesso Socrate affronta il problema e afferma che un testo diventa in questo modo chiuso, definitivo, non più trasformabile e con cui rischia di non esserci più un dialogo. Dopo aver criticato il panorama contemporaneo di oratori e sofisti tra cui Lisia che non sostanziano di verità i loro discorsi, ipotizza una possibilità per la retorica, un’alleanza con la filosofia, e vede in Isocrate la soluzione, colui che incarna quella speranza, che può dare dignità alla retorica. Isocrate teorizza la necessità di scrivere i discorsi contrariamente a Socrate, ed avrà un ruolo centrale come politico e maestro di politici; i suoi discorsi sono quasi tutti scritti di scuola. Isocrate è per Platone “retore filosofo capace di usare la dialettica”. Aristotele partendo da questo finale del Fedro dimostra a Platone che la dialettica ha lo stesso valore della retorica, la stessa capacità di entrare negli anfratti delle questioni, anche in un orizzonte di verosimiglianza si può non perdere il rapporto con la verità, principio che informa la retorica.
Vita di Aristotele
Aristotele nasce nel 384 a Stagira nella Calcidica da padre medico personale del re macedone Aminta III; rimasto orfano si trasferisce con un parente alla corte macedone che diventerà la più importante del mondo conosciuto, ma studia ad Atene nell’accademia platonica dal 367 al 347, fino alla scomparsa di Platone, dopo la quale la guida della scuola passa a Speusippo. Egli lascia Atene per le sue relazioni politiche con la Macedonia contro la quale era nato un partito; accetta l’invito di Ermia e torna in Ionia, si stabilisce ad Asso nella Troade e conosce il suo futuro successore Teofrasto, e compie ricerche in campo botanico e zoologico, lui è l’iniziatore di queste scienze. Nel 343-42 Filippo di Macedonia lo chiama come precettore di Alessandro, vicino a Pella, istruì Alessandro su Omero e i tragici e compose per lui una Monarchia e I Colonizzatori, Forse l’incarico finì nel 340 quando Alessandro diventa co-reggente con il padre. Nel 335 Aristotele torna ad Atene perché vi era nato un partito filomacedone, e fondò lì la sua scuola chiamandola Liceo perché aveva sede in un ginnasio vicino al santuario di Apollo Lukeìos. Per la scuola ebbe aiuto materiale dal luogotenente di Alessandro Antipatro. Nel 327 Callistene, legato familiarmente ad Aristotele, si rifiuta di praticare la proskùnesis e Alessandro lo fa eliminare, ma egli non perde l’appoggio di Antipatro che nominerà custode testamentario. Dopo la scomparsa di Alessandro Aristotele, accusato di empietà ad Atene, si rifugia in Eubea e lascia nella scuola l’allievo Teofrasto; morirà un anno dopo all’età di 62 anni. Le sue opere spaziano in tutti gli ambiti dello scibile del suo tempo, è l’iniziatore delle scienze moderne. Il sistema è di sguardo globale sulla realtà che allo stesso tempo è studiata nei particolari. La retorica, non rifinita e per questo in alcuni punti ellittica, ci è giunta in tre libri di cui il terzo è il più antico; forse il suo contenuto non è molto di più rispetto a quello che lo aveva preceduto. Figure dei secoli precedenti che influenzarono Aristotele riguardo alla retorica furono Laso di Ermione, Ippia e Trasimaco. Laso ebbe un ruolo importante nella diffusione del ditirambo in cori ciclici, compose lui stesso ditirambi, fu musicologo della fine del VI secolo; tentò di scrivere un ditirambo senza il suono s considerato cacofonico e sgradevole nel canto corale; creò cori circolari, elaborò discorsi eristici, forme di ragionamento ingannevole, studiati nel II libro della Retorica di Aristotele. Insomma già nel VI secolo si avvertiva l’ambiguità delle parole e dalle scuole di retorica nasce l’esigenza di formalizzare la lingua, non esisteva né grammatica né sintassi. Vedi sopra aneddoti sugli scherzi dei pesci. Proprio per evitare questo tipo di inganno si rifletté a lungo in questi secoli sul significato preciso dei termini, perché dalle differenze e somiglianze tra campi semantici deriva la maggior parte degli inganni.
Trasimaco di Calcedonia è un sofista che si occupa dell’aspetto patetico della comunicazione, è personaggio noto a suo tempo tanto da essere citato da Platone. Aristotele parla di Trasimaco nel III libro della retorica riguardo alla recitazione del discorso; qualcuno come Glaucone di Peo si era occupato della recitazione dei tragici, ma di recitazione oratoria parla lui per primo e il suo allievo Teofrasto scriverà un’arte della recitazione oratoria. Anche gli studi sull’elocuzione sono iniziati tardi, egli è consapevole che la scelta delle parole determina i sentimenti di chi ascolta; non ritiene che sia giusto curarsene ma necessario, perché la retorica si muove in questo ambito e la psicologia umana lo impone. Lo stile, quando preso in considerazione, ottiene lo stesso effetto della recitazione, cioè ha gli stessi effetti di suoni acuti o gravi o un ritmo veloce o lento; questo potere delle parole di creare emozioni è stato studiato da Trasimaco nella sua opera sulle emozioni. Se la capacità di ben recitare può essere naturale, lo stile è qualcosa che deve essere studiato e considerato. Un attore come un buon oratore deve conoscere bene il testo che dovrà recitare e capirne l’intenzione oltre a conoscere la sintassi del testo.
Il sofista Ippia è protagonista di alcuni dialoghi platonici ed è citato nel Protagora di Platone, vive in un periodo in cui stanno per essere scritte le costituzioni (inizi del V secolo). Da lui la legge è sentita come convenzione, di contro a Protagora che sosteneva che le parole avessero un genere naturale. Sostiene che la legge agisce in modo tirannico contro natura, esprime la teoria di uno stile medio tra l’asciuttezza di Socrate e i fiumi di parole di Protagora. In questo possibile discorso riscritto da Platone egli sostiene poi che non ci sia bisogno di un arbitro per decidere come vadano fatti i discorsi. Nel mondo antico il discorso giudiziario aveva bisogno di modalità espressive diverse da oggi, perché il diritto antico non si basava su un corpus di leggi così definito come quello occidentale derivato dal diritto romano e non contemplava tutti gli aspetti della realtà.
La Retorica ad Alessandro
La Retorica ad Alessandro ci è stata consegnata dai manoscritti medievali sotto il nome di Aristotele ma manca in essa la parte sull’argomentazione, quindi la percepiamo come precedente ad Aristotele anche se è circa contemporanea alla Retorica aristotelica, forse è opera di Anassimene di Lampsaco retore storico che produsse vari falsi. Questo testo ha un prologo nel quale sembra parlare Aristotele che dedica l’opera ad Alessandro suo allievo, e recupera le tèchnai precedenti. L’opera non può essere di Aristotele come dimostrato dai critici e filologi moderni in quanto mancano concetti chiave presenti in tutte le sue opere anche a livello lessicale; il contenuto riguarda i tre tipi di discorso che vengono caratterizzati.
La Retorica aristotelica
La Retorica aristotelica non fu scritta per la pubblicazione, non la stacca completamente da se stesso, la tiene per farla circolare all’interno della scuola; di conseguenza è ellittica, spesso si fanno connessioni difficili da comprendere o rimanda ad altre opere in cui tratta gli argomenti, ad esempio i concetti di deduzione ed induzione sono trattati in opere di logica e dialettica. La materia è suddivisa nei tre libri ma l’ordine non è rigoroso; il terzo che riguarda l’elocuzione è forse il più antico, è più simile ai contenuti della Retorica ad Alessandro o ad altri trattati precedenti, mentre il I e il II hanno idee più moderne elaborate in seguito agli studi di logica e dialettica, nella prospettiva di una vera arte retorica. La logica aristotelica descrive il pensiero puro, studia i concetti che di per sé costituiscono una dimostrazione o un ragionamento probante. Aristotele però non parla di logica, termine più recente inventato dalla scuola stoica, ma di analitica, infatti le sue opere logiche sono gli Analitici primi e gli Analitici secondi. La parola analisi anàlusis significa risoluzione: partendo da una data conclusione la si risolve a partire dagli elementi da cui deriva, cercando le premesse e gli elementi che hanno portato ad essa; partiamo quindi dallarealtà complessa di cui facciamo esperienza e ne diamo conto. Analitica è dottrina del sillogismo, Aristotele fu scopritore di deduzione e sillogismo. Il sillogismo retorico è l’entimema, e il procedimento deduttivo parte da premesse vere e necessarie: vero è ciò che non può essere confutato diversamente dal verosimile, necessario è ciò che non può non accadere; queste premesse sono anche universali. Negli analitici primi Aristotele studia la coerenza formale dei ragionamenti: il sillogismo ha una prima premessa vera necessaria universale, cioè è l’ambito generale in cui rientra ciò di cui voglio dare la dimostrazione; un motore della deduzione, parola che nella prima premessa è soggetto, nella seconda che è particolare è predicato, e si vede la correttezza formale anche dalle ripetizioni, ogni sillogismo deve avere almeno tre passaggi. Questa correttezza formale non ha alcun rapporto con la verità del contenuto, problema affrontato negli Analitici secondi. L’ambito dell’analitica è ristretto perché la partenza da premesse vere lo richiede, non sono molte quelle che possono essere chiamate verità nella nostra realtà; serve ad Aristotele per dare le caratteristiche della perfetta coerenza di forma del ragionamento. È importante per l’entimema che l’uditorio riconosca come vera una premessa che di per sé è soltanto verosimile, e l’abilità dell’oratore è nel farla accettare. Nelle opere di dialettica come le Confutazioni sofistiche Aristotele tratta di ragionamenti formalmente corretti e dunque forti che partono da premesse probabili o verosimili, e mostra la falsità di alcuni discorsi sofistici basati su questo principio; un sillogismo dialettico dovrà anch’esso esplicitare tutti i passaggi come quello logico, mentre in quello retorico ciò non è necessario, anzi nella comunicazione quotidiana se ne devono saltare alcuni, e da questo è data l’ambiguità della retorica. La deduzione retorica, l’entimema, parte da premesse probabili condivise dai più ed è importante che siano condivise dall’uditorio, la premessa deve apparire vera a chi ascolta, l’oratore deve cogliere la psicologia del suo pubblico e ciò non è sempre facile. La deduzione è una disambiguazione della realtà, serve ad esplicitare ciò che è implicito. Platone sembra considerare pressoché falso tutto ciò che è verosimile; Aristotele lo considera come qualcosa che assomiglia al vero, chi mira al probabile mira anche alla verità: la verosimiglianza può lasciare spazio alla manipolazione, ma egli riconosce nell’uomo una naturale tensione verso il vero o ciò che gli somiglia, dire verosimile è anche forma di onestà nel riconoscere i propri limiti nella conoscenza della verità.
La Retorica si apre in medias res, e dice che la retorica è antìstrofos rispetto alla dialettica, termine tecnico della lirica corale usato metaforicamente che dimostra come pur cambiando i contenuti la forma sia la stessa. Parte Aristotele da quell’alleanza tra retorica e dialettica della fine del Fedro platonico, entrambe possono essere applicate ad ogni ambito della conoscenza e dell’esperienza. I primi due libri sono dedicati alla costruzione di prove cioè argomentazioni, senza definirle ma applicandone i principi ai tre generi oratori; il III riguarda l’elocutio. Enuncia all’inizio il fatto che retorica e dialettica entrano nella vita quotidiana di tutti gli uomini; per qualcuno ben parlare è naturale e diventa dote se viene applicata questa capacità e potenziata dall’abitudine, ma fino a quel momento quasi tutti l’avevano fatto senza un metodo. Apologia della possibilità della retorica di essere tèchne, è un fatto che a quel tempo andava dimostrato: c’è un metodo dietro questa capacità sia di chi lo fa spontaneamente sia di chi lo fa per familiarità acquisita, scoperta aristotelica, dunque insegnare il metodo è compito della tèchne. Nel cap XIV elenca le prove non tecniche al termine del discorso giudiziario, ad esempio leggi esistenti, patti, giuramenti, dati esterni che l’oratore può abilmente usare; egli considererà nel libro II dedicato allo studio degli entimemi l’aspetto dell’emotività, come suscitare emozioni nell’uditore, aspetto importante perché l’oratore deve adattarsi al carattere dell’uditorio, fare in modo che il pubblico recepisca un ethos che dia un’idea positiva del carattere dell’oratore, e considerare ogni aspetto dell’uditorio per creare empatia a livello emotivo (età, stati d’animo ecc.). Però Aristotele prende le distanze da quei sofisti che consideravano la retorica come capacità di muovere emozioni, per lui sta soprattutto nell’entimema; per !questo il ricorso alle leggi è una prova non tecnica. L’oratore può appellarsi a cinque elementi (leggi, testimonianze, giuramenti, patti, confessioni da tortura), che però non dipendono dalla tèchne posseduta dall’oratore. Suona strano per il nostro concetto di tecnico, pensa ad un diverso valore dell’aggettivo tecnico come parte della tèchne. Considera le giuste sfumature, Aristotele non afferma come si è detto che la componente emotiva non sia importante, ma che non coincida con la tèchne, polemizzando con i predecessori. Aristotele afferma la necessità di un corpus di leggi forte e che contempli tutti i casi, per lasciare meno discrezione possibile al giudice che emette le sentenze sul momento e non è detto che sia assennato; invece ciò che è scritto in una costituzione deriva da una lunga riflessione, e per questo è giudizio che non può essere oltrepassato da una sentenza momentanea. Il giudice può anche essere oscurato da interessi privati, amicizia o altri sentimenti. È necessario lasciare alla discrezione del giudice i fattori che il giudice non può prevedere, cioè se un fatto particolare sia o non sia avvenuto, sia o non sia rilevante per sostenere un’accusa. In quell’epoca erano sentite le differenze tra città e città e tra legge scritta e non scritta; quand’anche la legge scritta muti spesso e non si attenga sempre all’equità, quella non scritta non lo fa. Per un oratore è possibile riferirsi tanto al valore della costituzione quanto a quello della legge non scritta che va oltre, e ciò rende complessa l’oratoria giudiziaria. Secondo Aristotele l’uomo ha una tendenza naturale al vero e se non si riferisce ad una legge lo fa in nome di un bene, come Antigone. Anche la divisione delle parti di un discorso è estranea al soggetto che lui sta trattando, quella che per lui è retorica. Denuncia poi il fatto che chi ha scritto di arte retorica in funzione di emozioni da muovere, l’ha fatto soprattutto riguardo ai discorsi giudiziari che mettono in campo interessi privati, mentre poco ci si è occupati di discorsi deliberativi che riguardano interessi comuni. Vede una debolezza della figura del giudice rispetto all’oratore, il primo cede ai contendenti invece di giudicare a causa dell’arte volta a muovere emozioni. Chi è in grado di manovrare i sillogismi dialettici sarà abile ad utilizzare gli entimemi, se conosce il soggetto dell’entimema e le differenze tra questo e il sillogismo logico. Argomentazione è dimostrazione, dimostrazione è entimema, entimema è una specie di sillogismo; per essere buoni retori bisogna conoscere logica e dialettica, la prima per il sillogismo la seconda per l’entimema nella loro forma e struttura. Una dimostrazione non è mai astratta ma riguarda realtà precise, è necessaria una conoscenza del soggetto di cui si parla e di tutto ciò che lo riguarda, e qui introduce la nozione di topos: ogni situazione ha particolarità che l’oratore deve conoscere. Qui c’è l’enunciazione che la verosimiglianza non è manipolazione della verità ma tendenza al vero, pur ammettendo nella realtà particolare l’inganno Aristotele ha un ottimismo antropologico, si riferisce alla natura umana; ritiene che la capacità di fare il male abbia come scopi l’utilità e l’interesse. Per natura l’uomo tende anche al piacere, e l’infinito dà un senso di instabilità psicologica, lo dice senza dimostrarlo ma convinto che il lettore lo condivida. Per lui la giustizia è forte,quindi se chi è nella ragione non riesce a persuadere l’uditorio è per un suo difetto di tecnica. La retorica chiede un linguaggio di normalità e non uno tecnico, non serve una preparazione accurata dal punto di vista scientifico. È in queste righe che afferma che insegnerà anche i discorsi ingannevoli, perché ci si possa difendere da chi vuole ingannare; egli confida sempre in un uso etico della retorica, è l’etica che muove l’azione anche in tribunale e, poiché la parola è mezzo proprio dell’uomo, usarla con fini ingiusti produce danno quanto usarla con fini giusti produce bene. La funzione della retorica è individuare in ogni caso i mezzi di persuasione, è il discorso che tende alla persuasione, che ci si riesca è affidato all’abilità dell’oratore. Dialettica e retorica puntano ad esprimere tesi opposte: tutto si può dimostrare attraverso l’argomentazione, e l’oggetto vero e giusto ha in sé una forza in più rispetto agli strumenti della retorica. Anche in Aristotele l’uso della parola è ciò che caratterizza l’uomo come tale (la parola è però il lògos). La retorica può produrre vantaggio o danno a seconda dell’intenzione (proaìresis); Per laretorica non si può giudicare la disciplina dal suo risultato, che deve essere la capacità oratoria: è una disciplina astratta ed epistemologica, che enuclea i principi da applicare in ogni situazione, l’oratoria è la capacità di persuasione nei singoli casi; alla tèchne retorikè non importa il risultato pratico, del quale si occupa l’arte oratoria. Rientra nella tecnica il saper distinguere tra ciò che è persuasivo e ciò che è apparentemente persuasivo, come la dialettica deve distinguere tra sillogismo vero e apparente. La capacità di inganno (sofistikè) non è una facoltà ma un’intenzione, dipende dalla proaìresis, la scelta che muove un’azione anche di tipo oratorio, intenzione morale e non dùnamis cioè facoltà, capacità; in retorica il retore è tale tanto perché sa costruire un discorso persuasivo quanto per la sua intenzione, sia facoltà sia intenzione di tipo pratico che è sempre presente, compito di un retore è sempre spingere in una direzione con le idee e le azioni; la dialettica è più speculativa, Aristotele distingue l’intenzione di tipo sofistico e la capacità, la facoltà dialettica, il dialettico sa costruire bene un discorso e diventa sofista quando entra in gioco il contenuto, l’intenzione. Definendo nuovamente la retorica usa la parola dùnamis, la facoltà di scoprire il mezzo giusto di persuasione per ciascun oggetto (ripresa dei concetti precedenti). Si ribadisce il muoversi in ogni ambito dell’arte retorica che non ha un oggetto determinato, già presente nel Gorgia platonico; si apre la possibilità che tèchne si applichi ad un metodo che non dipende da un ambito specifico. Quanto a prove tecniche e non tecniche, deì toùton (l’oratore) toìs mèn chrèsasthai, tà dè ehureìn.
Capitolo 2, tre elementi dell’atto persuasivo, carattere dell’oratore, modo di porre il discorso e discorso stesso, tipico di qualsiasi atto comunicativo. Anche il suscitare emozioni nel pubblico è fatto che entra in gioco nell’atto persuasivo, che si realizza solo quando anche sentimenti partecipano, un giudizio non si emetterà allo stesso modo se si è influenzati da questo o quel sentimento. Alla fine del capitolo Aristotele tratta induzione e deduzione: induzione in dialettica è esempio in retorica, dimostrare una tesi universale attraverso il confronto tra casi simili; deduzione o sillogismo dialettico, dall’universale al particolare. Per lui entrambe sono efficaci e persuasive, l’entimema è più applaudito, quindi egli ha una preferenza per la deduzione; sull’induzione egli basa la conoscenza scientifica, il sillogismo è un meccanismo espositivo, serve a descrivere ma non si interessa della verità delle premesse, mentre l’induzione è il meccanismo con cui dimostrare una premessa osservando un alto numero di casi simili. Le parti riferite ai tre elementi essenziali (carattere, rapporto con l’ascoltatore, lògos) sono riprese nei primi capitoli del II libro; 17 capitoli di esso sono dedicati alle psicologie e alle emozioni, di cui l’oratore deve avere conoscenza: Aristotele spiega le differenze tra le emozioni e i diversi gradi delle emozioni (collera / ira, amicizia / inimicizia), cercando di chiarirci razionalmente cosa sia ciascuna o ciascuno. Aristotele approfondisce cosa sia l’ethos nella Poetica, esso si deduce da azioni, pensieri e parole; l’oratore sa percepire quali sono le attese del pubblico a livello di ethos e in base ai suoi comportamenti dà l’idea che desidera del suo carattere. Per Aristotele l’essenza della retorica è il terzo punto, il discorso stesso; egli invita ad un controllo razionale delle emozioni, quella oratoria non è operazione puramente psicagogica e in questo si stacca dai predecessori che scrivevano discorsi emotivamente forti. La retorica è ramificazione della dialettica perché consente un dominio razionale anche delle realtà come la psiche umana; per lui fare politica significa agire secondo un certo ethos, e lo sguardo etico non è individuale ma abbraccia la comunità, la pòlis; la retorica non porta ad azioni al servizio dell’individuo ma della comunità. Dunque chi fa il retore o si atteggia a tale fa politica. La retorica come la dialettica è una facoltà di fornire ragionamenti anche sulle realtà sottili delle emozioni, che vengono tolte dalla sfera di magia in cui erano collocate prima di lui. Aristotele nella sua Etica contempla la possibilità che l’ira sia anche positiva se contro qualcosa di sbagliato, a differenza delle successive scuole stoica ed epicurea che la considereranno sempre negativa. Aristotele vede la possibilità dimostrativa tramite induzione (esempio), deduzione (entimema), deduzione apparente (entimema apparente, che sembra funzionare ma contiene un errore o un inganno). Entimema è sillogismo retorico, esempio è induzione retorica; l’aspetto dialettico della retorica è sempre riconducibile all’uno o all’altro, altrimenti non è un ragionamento funzionante.
Il capitolo 20 del libro II è collegato con il primo, è dedicato agli esempi di Stesicoro ed Esopo; si parla di forme di argomentazione o tòpoi comuni a tutti i generi di discorsi. È un caso simile a quello delle parole, alcune sono termini tecnici che cambiano significato a seconda del contesto d’uso, altre che non lo cambiano mai. Per Aristotele questi luoghi comuni sono l’essere/non essere, essere/non essere possibile, più/meno, che valgono allo stesso modo in tutti gli ambiti dell’agire umano. Parlare per massime secondo Aristotele è parte dell’entimema, gli esempi sono argomentazioni comuni. L’esempio può essere un fatto storico con cause e conseguenze, che possono servire a dimostrare fatti presenti; altro sono massime o favole del repertorio sapienziale, come quelle di Stesicoro o Esopo. Sia le favole sia le massime socratiche sono nell’ambito della comparazione, e richiedono abilità nel cogliere le analogie corrette tra gli avvenimenti; Aristotele sostiene che una buona educazione a questo siano gli studi filosofici. Sia entimemi sia esempi sono efficaci, ma si devono usare esempi se non si dispone di entimemi, in caso contrario si devono usare come testimonianze a conclusione dell’argomentazione. Ponendo un esempio solo come premessa di un entimema, si crea una falsa deduzione perché la premessa deve sempre essere generale; l’alternativa è portare molti esempi. Se invece alla fine di una deduzione si pone anche solo un esempio, esso ha il peso della testimonianza. Le premesse devono avere una categoria ampia che le condivide, un insieme vasto che contiene elementi particolari, in cui è inserita la conclusione; la premessa deve sembrare credibile all’uditorio. In genere il pubblico di un discorso retorico non possiede requisiti tecnici e non sarebbe in grado di seguire un lungo ragionamento, quindi non è possibile esplicitare tutti i passaggi. La retorica non interviene laddove le cose vadano per necessità, come il moto della Terra, essa entra in gioco dove ci sono due o più alternative, in questo caso è possibile una deliberazione. Le premesse per essere credibili partono a volte da una precedente deduzione, sono qualcosa che è già stato dimostrato; è quindi necessario che si accerti che anche per l’uditorio sia già dimostrato o acquisito; è il punto in cui è più facile l’inganno, perché si può non dare o dare in modo sbagliato la dimostrazione del punto di partenza. Il probabile è tò eikòs, qualcosa che accade nella maggior parte dei casi, e le premesse hanno perlopiù questa caratteristica, riferite ad un insieme grande, generale. Spesso la premessa deve avere dei segni, tà semeìa: alcuni di tipo generale, altri di tipo particolare a seconda dei rapporti tra essi, il segno può riguardare il singolo caso o l’insieme ampio. Il segno necessario sichiama tekmèrion, quello non necessario non ha nome: il segno necessario si collega a qualcosa di necessità, distinguere i segni necessari da quelli probabili è difficile, i segni necessari per l’umanità sono pochi, bisogna sempre chiarire all’interno di quale insieme si ha necessità (vedi cartelli stradali, collegati sempre alle stesse cose per una convenzione del nostro sistema). Si può attribuire valore di prova al segno quando si pensa di non poter essere confutati, negli entimemi si può dare valore di prova a qualcosa che non lo è. Invertire l’ordine di premessa generale e particolare non è un sillogismo, per quanto entrambe siano vere.