Conclusi gli studi a Cambridge e completato nello stesso anno Ultramarina, Lowry ottenne dal padre, grazie anche a un’appassionata perorazione di Conrad Aiken, un sussidio mensile per la sua carriera di letterato. Fu così che il romanziere, figlio di metodisti benpensanti e rigorosamente astemi, potè permettersi di indulgere nelle quattro attività per cui già si era segnalato a Cambridge: scrivere, bere, viaggiare e suonare l’ukulele. Solo cinque anni dopo, quando era in Messico e la dantesca “diritta via” sembrava smarrita, si impegnò nella stesura di Sotto il vulcano, il romanzo che gli doveva dare una fama mondiale, e nello stesso tempo concluse una lettera, fra un bicchiere e l’altro, con un gioco di parole degno di Joyce: I am on this last tooloose-Lowrytrek dove, a parte il riferimento a Toulouse-Lautrec, egli indicava il viaggio, allora davvero obliquo e dispersivo – wry e loose – che stava per intraprendere). Lowry, revisore instancabile dei propri testi, anche di quelli già pubblicati, anche di quelli già pubblicati, andava raccogliendo materiali eterogenei che poi inserì con abili incastri nelle sue maggiori opere in prosa: impressioni estemporanee, notizie prese dai giornali, insegne di locali, conversazioni udite… Apparentemente, agli occhi di Lowry – abbandonato dalla moglie, impegnato in una serie di bevute memorabili, e alle prese con lo spagnolo, una lingua che non conobbe mai bene – il Messico non poteva che assumere i lineamenti di un paesaggio apocalittico, e il romanziere non poteva che imprestare le proprie debolezze al Console, il personaggio centrale del romanzo. In realtà, Lowry, rimasto senza sussidio paterno a causa delle vicende belliche, ma confortato dall’affetto della seconda moglie, per ben cinque anni lavorò assiduamente e in tutta lucidità alle nuove stesure del romanzo ( se ne contano quattro) e, come egli stesso ebbe occasione di chiarire, “imprestò” parti di sé un po’ a tutti i personaggi. Difendendo pacatamente la propria opera egli la definì, fra l’altro, “una profezia, un monito politico, un criptogramma”: in altre parole, l’autoannientamento e l’impossibilità di relazione fra uomo e donna si profilano come conseguenze di un’alienazione più profonda e radicale, che coinvolge il lettore. Finita la guerra, giunto il successo, Lowry riprese a viaggiare, a bere, a scrivere e rivedere testi.
Il libro
Dal 1947, anno della prima edizione, la fama di Sotto il vulcano è andata crescendo, al punto che oggi viene universalmente giudicato uno dei massimi romanzi del nostro secolo. Scrittore denso e seducente, non a caso circondato da un’aura mitica, Lowry volle scrivere, per sua stessa ammissione, una Divina Commedia ubriaca. La definizione resta calzante, perché Sotto il vulcano se da una parte è la storia, ambientata in Messico, di un alcolizzato perseguitato da un oscuro complesso di colpa e incapace di ristabilire un rapporto con la moglie, dall’altra si configura, grazie anche a una fitta rete di riferimenti e paralleli culturali, come una grandiosa allegoria moderna della redenzione, o meglio come “un’opera faustiana” (Max-Pol Fouchet).
Il paesaggio messicano pare progressivamente deformato dall’effetto dell’alcol sulla psiche del Console (il protagonista), ma questi non combatte solo una disperata lotta contro la gelosia e contro l’alcol, bensì vive la disintegrazione di un mondo che si rivela sempre più minaccioso e assurdo: in questa prospettiva Sotto il vulcano costituisce anche una diagnosi, scritta subito prima della seconda guerra mondiale, di una crisi davvero storica e destinata a incombere a lungo sul “bel giardino” che in molte di queste pagine si scongiura di non lasciar distruggere. Lowry aveva sostenuto che Sotto il vulcano è “una profezia, un monito politico, un criptogramma”: sono tre livelli di interpretazione che coesistono perfettamente e che non cessano di coinvolgere il lettore, alle prese con un materiale narrativo e intellettuale ricchissimo.