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La prima guerra mondiale, nota anche come “Grande Guerra”, è uno degli eventi che hanno cambiato radicalmente la storia dell’Europa e del mondo. Lo storico Eric Hobsbawm, nel suo celebre saggio dedicato alla storia del Novecento intitolato Il secolo breve, ha sottolineato come sia stato proprio questo conflitto a mettere la parola fine al XIX secolo, e indica nel 28 giugno del 1914, giorno dell’attentato di Sarajevo contro l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, una sorta di simbolica “data di nascita” del Novecento, secolo della modernità con tutte le sue possibilità e le sue contraddizioni.
L’importanza dalla Grande Guerra sul piano storico ha molte cause che, considerate nel loro insieme, consentono di comprendere perché questo conflitto sia universalmente ritenuto come uno spartiacque epocale nella storia dell’umanità. La prima di queste cause è quella legata alla mole degli uomini e dei mezzi coinvolti nel conflitto: mai prima, nella storia, una guerra aveva avuto portata veramente “mondiale”, arrivando a coinvolgere non solo tutto il Vecchio Continente (dove si svolsero la maggior parte delle battaglie) ma anche Stati Uniti e Giappone, tracimando quindi dai confini dell’Europa. Senza pari, inoltre, è stato anche il numero di soldati coinvolti attivamente nel conflitto: nella storia dell’umanità non era mai successo che eserciti tanto vasti si confrontassero per un periodo di tempo così prolungato, e disponendo di un potenziale distruttivo così elevato (potenziato anche dai grandissimi sviluppi tecnologici dei decenni precedenti il conflitto, che avevano conferito alle varie nazioni la capacità tecnica necessaria per realizzare armi molto più potenti e micidiali di quelle usate nelle guerre del passato). Conseguenza tragica di uno spiegamento di forze così vasto è stato l’enorme numero di caduti provocati dal conflitto: si calcola che la Grande Guerra abbia causato complessivamente circa dieci milioni di scomparsi, numero che supera quello delle vittime di tutti i conflitti europei dei due secoli precedenti.
Altro motivo che spiega la fondamentale importanza storica della prima guerra mondiale è quello relativo ai suoi esiti in ambito geopolitico: a seguito del conflitto, infatti, quattro degli imperi che nell’Ottocento avevano dominato l’Europa (quello russo, quello asburgico, quello tedesco e quello turco) sparirono per sempre dal continente, lasciando spazio alla nascita di nuovi stati nazionali. In un’ottica più ampia, inoltre, la guerra segnò il definitivo trionfo degli Stati Uniti, che sottrassero alla Gran Bretagna il suo tradizionale ruolo di superpotenza mondiale, e innescò una serie di movimenti di liberazione che, nel tempo, portarono vari stati coloniali a liberarsi dal controllo delle potenze europee.
A livello sociale, invece, l’importanza della prima guerra mondiale risiede sostanzialmente nella sua capacità di aprire definitivamente le porte all’avvento della società di massa, eliminando gli ultimi strascichi dei regimi precedenti e dando la spinta per una decisa modernizzazione anche delle aree europee che fino a quel momento erano più rimaste legate all’ancien régime.
Fasi del conflitto
Scoppio della guerra L’evento unanimemente riconosciuto come casus belli della prima guerra mondiale è l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono degli Asburgo, che il 28 giugno 1914 venne colpito da Gavrilo Princip (diciannovenne appartenente a un gruppo irredentista slavo) mentre si trovava in visita ufficiale a Sarajevo. Questo gesto venne considerato dal governo austro-ungarico come un’esplicita aggressione da parte della Serbia, e indusse l’Austria a lanciare un ultimatum contro i serbi, imponendo loro di far cessare ogni attività anti-austriaca sul loro territorio. Lo stato balcanico reagì a questa pretesa cercando di mediare con il governo di Vienna, ma l’impero asburgico pose fine a ogni ipotesi di trattativa il 28 luglio 1914, data in cui, con l’appoggio della Germania, dichiarò ufficialmente guerra alla Serbia. A seguito di questa dichiarazione di guerra, anche le altre potenze europee intervennero nel conflitto, ognuna determinata a difendere i propri interessi e le proprie alleanze e innescando una serie di reazioni a catena: la Russia, che era vicina alla Serbia per ragioni religiose e di controllo geopolitico dell’area slava, si schierò immediatamente al fianco dello stato balcanico. Questa reazione spinse la Germania ad assumere posizioni sempre più nette e aggressive: i tedeschi, infatti, imposero ai russi di ritirare immediatamente i propri eserciti e ai francesi di dichiarare la loro neutralità nel conflitto, avvertendoli che in caso contrario si sarebbero sentiti aggrediti e avrebbero reagito di conseguenza. Entrambe le nazioni risposero negativamente alle richieste tedesche, consentendo alla Germania di dichiarare guerra alla Russia (1 agosto 1914) e poi alla Francia (3 agosto 1914), procedendo poi a invadere il Belgio (4 agosto 1914), che si era invece dichiarato neutrale. A seguito di questi gesti aggressivi della Germania, anche la Gran Bretagna si trovò costretta a intervenire nel conflitto, schierandosi a fianco di Belgio e Francia. L’Italia, nonostante la sua appartenenza alla Triplice Alleanza la legasse ad Austria e Germania, dichiarò in un primo momento di voler restare neutrale, e si risolse ad entrare in guerra solo nel 1915, a fianco di Francia, Inghilterra e Russia (unite fin dal 1907 nella Triplice Intesa). In questa fare del conflitto, però, erano già stati smossi equilibri geopolitici molto più vasti, di portata decisamente planetaria: il 23 agosto 1914 il Giappone, determinato a cacciare i tedeschi dai loro domini coloniali in oriente, aveva infatti dichiarato guerra alla Germania e alla fine dell’ottobre dello stesso anno la Turchi, alleata dei tedeschi, aveva a sua volta attaccato la Russia aprendo un nuovo fronte del conflitto in Caucaso. Altri stati intervennero poi nel conflitto, che arrivò a coinvolgere praticamente tutti gli stati europei e che aumentò la sua portata extra-continentale quando entrarono a farvi parte anche gli Stati Uniti, che si schierarono nel 1917 a fianco delle forze dell’Intesa, rivelandosi decisivi per la loro definitiva vittoria.
Prime fasi degli scontri
I primi mesi di guerra furono caratterizzati dalla grande attività dell’esercito tedesco che, seguendo il cosiddetto “piano Schlieffen”, puntava ad aggredire molto velocemente sia la Francia che la Russia, cogliendole di sorpresa e impedendo alle nazioni alleate di intervenire in loro difesa. Questo piano, però, si rivelò irrealizzabile a causa della sostanziale parità del potenziale bellico di Germania e Francia e del fulmineo intervento della Gran Bretagna a fianco dei francesi. L’esercito tedesco, quindi, dopo aver invaso con grande rapidità il Belgio e aver portato avanti la sua avanzata verso occidente secondo i piani, dovette poi arrendersi alle forze anglo-francesi, che lo bloccano impedendogli di proseguire il suo cammino verso ovest. Nei mesi di settembre e ottobre del 1914 l’esercito francese e quello tedesco si impegnarono in una lunga serie di battaglie, anche molto sanguinose, che li portarono infine a fissare le loro rispettive linee lungo il corso del fiume Marna. Il conflitto, che secondo i piani dei tedeschi doveva essere fondato sull’aggressione fulminea ai francesi, si trasformò così in una lunga e logorante guerra di posizione. Sul fronte orientale la Germania si trovò ad affrontare una situazione del tutto simile: dopo aver ottenuto qualche successo iniziale contro il debole e impreparato esercito russo, infatti, i tedeschi si ritrovarono bloccati lungo il corso del fiume Nida, dove furono costretti a costruire una serie di sistemi di fortificazione e di trincee e a fermare la loro avanzata verso est.
La guerra di trincea
La trasformazione del conflitto da guerra di movimento a guerra di posizione ebbe conseguenze importantissime per tutte le nazioni che presero parte ai combattimenti, tanto che l’immagine della trincea è diventata, anche a livello di immaginario collettivo, il vero simbolo della Grande Guerra. Dopo i primi frenetici mesi di avanzata dell’esercito tedesco, infatti, le varie potenze combattenti si trovarono costrette a costruire lungo le diverse linee del fronte una fitta rete di fortificazioni e trincee in cui le truppe si asserragliarono, fronteggiandosi per mesi e impegnando poi le loro forze in una lunghissima serie di scontri locali il cui esito, spesso, era uno spostamento minimo della linea del fronte, che costava però gravi perdite. Le battaglie, infatti, in moltissimi casi erano estremamente cruente pur portando a risultati minimi, dato che nessuno degli eserciti coinvolti aveva la forza per conseguire una schiacciante vittoria sul campo contro i suoi avversari. Tra le battaglie più importanti della prima fase della Grande Guerra possiamo ricordare lo scontro tra Francia e Germania a Verdun, in cui nonostante l’uso di armi chimiche gettate dai tedeschi sulle trincee francesi le forze dell’Intesa riuscirono a resistere e a mantenere il controllo della città, nonché gli scontri tra forze italiane ed esercito austriaco lungo il fiume Isonzo, che si protrassero per buona parte del 1916. La trasformazione della guerra in una lunga ed estenuante battaglia di logoramento segnò profondamente non solo la situazione dei soldati – costretti a vivere in condizioni disumane e a rischiare la vita in scontri privi di reale valore militare e strategico – ma anche quella dell’intera popolazione delle nazioni coinvolte nella guerra: i civili, infatti, si trovarono costretti ad affrontare sforzi sociali ed economici del tutto inediti per poter sostenere, foraggiare, armare le loro truppe. Questo fece sì che la guerra si trasformasse in una vera e propria “guerra totale”, in cui non erano solo i soldati a combattere ma in cui anche i civili svolgevano un ruolo fondamentale: senza armi, munizioni e viveri, infatti, gli eserciti non avrebbero potuto mantenere le loro posizioni e sarebbero stati costretti ad arrendersi non tanto alle forze nemiche quanto alla fame e alle malattie. Agli scontri sul campo di battaglia faceva da contraltare, quindi, un continuo sforzo di ogni nazione coinvolta per sostenere il proprio apparato produttivo e per indebolire quello del nemico, portando allo stremo delle forze la componente civile della popolazione avversaria.
L’Italia in guerra
L’Italia, al momento dello scoppio della prima guerra mondiale, attraversava un momento di grande instabilità economica e politica: l’età giolittiana era definitivamente entrata in crisi e molte tensioni sociali che da tempo covavano sotto la cenere erano sul punto di esplodere. Tra la popolazione era diffuso un generale sentimento di insoddisfazione e malcontento, pronto a sfociare in reazioni imprevedibili che nessuna forza politica sembrava in grado di governare. Questa debolezza, dovuta a fattori di politica interna, si univa a una grande arretratezza tecnologica e di arsenale militare, che rendeva l’apparato economico-produttivo del paese del tutto inadeguato ad affrontare una guerra. Per tutte queste ragioni l’Italia, nel 1914, dichiarò di non essere in grado di intervenire direttamente nel conflitto, nonostante la sua adesione (a partire dal 1882) alla Triplice Alleanza con Austria e Germania. La situazione in cui si trovava l’Italia era, evidentemente, molto instabile e precaria: da un lato gli accordi internazionali presi con gli imperi dell’Europa centrale le avrebbero imposto di schierarsi al loro fianco, dall’altro la situazione contingente del paese rendeva impossibile una scelta diversa da quella della neutralità. Nel corso dei primi mesi del conflitto, però, la situazione cominciò lentamente a cambiare: vari esponenti e partiti politici cominciarono ad assumere posizioni interventiste, sostenendo che l’Italia doveva tenere una linea imperialista di prestigio e di potenza, e il ministro degli esteri italiano dell’epoca, Sidney Sonnino, cominciò quindi a entrare in contratto con entrambi i fronti belligeranti, per capire quale dei due avrebbe garantito migliori condizioni all’Italia se questa avesse deciso di schierarsi al suo fianco. Dato che le principali controversie territoriali che riguardavano l’Italia la contrapponevano all’Austria-Ungheria, questi contatti diplomatici segreti convinsero infine il governo italiano, guidato dall’esponente del partito liberale Antonio Salandra, ad aderire al Patto di Londra, accordo segreto firmato il 26 aprile 1915 con cui l’Italia si impegnava a entrare in guerra a fianco delle forze della Triplice Intesa, in cambio di cospicui compensi territoriali (Trentino, Sud Tirolo, Venezia Giulia, Istria, Dalmazia) a guerra finita. Questo accordo segreto – voluto solo dal governo italiano e dal suo ministro degli esteri, che agirono con l’approvazione del re, ma senza chiedere il consenso del parlamento – segnò il definitivo abbandono dei precedenti impegni presi dall’Italia nei confronti degli imperi dell’Europa centrale, nonché il definitivo scioglimento della Triplice Alleanza, che venne ufficialmente dichiarata estinta il 3 maggio 1915. Il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarò quindi guerra all’Austria-Ungheria. I piani di guerra prevedevano che le truppe italiane sarebbero state schierate in regime di difesa in Trentino e avrebbero invece attaccato a est, aggredendo l’esercito nemico già trincerato lungo il fiume Isonzo. Questo piano dovette però essere immediatamente rivisto, dato che nell’estate e nell’autunno del 1915, nonostante la superiorità numerica e un altissimo numero di sanguinosissimi attacchi alle trincee nemiche, le truppe italiane non riuscirono a sfondare la linea del fronte austro-ungarico. Gli eserciti furono quindi costretti a impegnarsi in una logorante guerra di posizione, senza riuscire ad avanzare che di pochi metri alla volta in territorio nemico. A questa prima fase del conflitto ne seguì un’altra, ugualmente sanguinosa, segnata dalla Strafexpedition (spedizione punitiva) condotta nella primavera del 1916 dalle truppe austro-ungariche, che attaccarono le posizioni italiane sull’altipiano di Asiago. Questa serie di battaglie (particolarmente famose sono quelle combattute sul Monte Ortigara e sul Pasubio) si rivelò particolarmente cruenta e provocò oltre 200.000 vittime in entrambi gli schieramenti, senza modificare in modo significativo la situazione dei due eserciti, che al termine dello scontro si trovarono nuovamente bloccati su linee avanzate solo di pochi chilometri rispetto alla situazione iniziale. Se l’esito militare della Strafexpedition fu quasi nullo, essa dimostrò però quanto le truppe italiane fossero deboli e impreparate, incapaci di conseguire vittorie significative anche quando agivano in condizioni di superiorità numerica. Questa impreparazione si rivelò, in tutta la sua tragica evidenza, nell’ottobre dell’anno successivo, in occasione della disfatta subita dall’esercito italiano a Caporetto: in questa circostanza, infatti, l’esercito italiano non venne solo pesantemente aggredito dalle truppe austro-ungariche, ma l’impreparazione dei più alti gradi militari trasformò la sconfitta in una ritirata disordinata, al termine della quale gli austriaci avevano preso il controllo di tutto il Friuli, costringendo gli italiani a ripiegare fino al Piave. Questa sconfitta rovinosa portò alla destituzione di Luigi Cadorna, generale che fino a quel momento aveva guidato le truppe italiane, che venne sostituito da Armando Diaz. Questa scelta fu fondamentale per rovesciare le sorti della guerra: Diaz, infatti, riuscì a guidare l’esercito in modo più accorto di quanto era stato fatto fino a quel momento, e contemporaneamente un cospicuo numero di soldati francesi e inglesi venne inviato sul fronte italiano, a sostegno delle truppe locali, che poterono godere in questo modo di forze fresche e degli aiuti economici degli Stati Uniti. Queste circostanze, unite alla decisione dei tedeschi di ritirare parte delle loro forze in modo da poter lanciare l’ultimo attacco sulla linea della Marna, furono fondamentali nell’agevolare la reazione dell’esercito italiano, che nell’ottobre del 1918 conseguì una definitiva vittoria contro l’Austria nella battaglia di Vittorio Veneto.
Il ritiro della Russia dal conflitto
La storia della partecipazione della Russia alla prima guerra mondiale è segnata dall’esplodere, nel 1917, della Rivoluzione d’Ottobre, evento che trasformò per sempre la storia dell’enorme impero sovietico e che costrinse il paese ad abbandonare il conflitto prima della sua conclusione. La Russia, come abbiamo visto, era stata aggredita già nel maggio del 1914 dalla Germania, ed era quindi stata costretta a prendere parte da subito al conflitto, nonostante la sua debolezza bellica e i molti problemi interni che attanagliavano il paese e lo rendevano debole. A inizio Novecento, infatti, la Russia, era uno stato arretrato sia a livello industriale che sociale: pochissime zone del paese avevano modernizzato i loro impianti produttivi, mentre la gran parte della popolazione viveva ancora assoggettata a un regime di tipo quasi feudale, in cui una ristretta cerchia di grandi proprietari deteneva un potere quasi assoluto e in cui le minoranze erano discriminate e tenute in condizioni di semi-schiavitù. L’esplodere del conflitto contribuì a mettere a nudo tutte le contraddizioni della società russa, aggravandone i problemi e spingendo la situazione al punto di rottura. L’aggressione tedesca, infatti, colse le truppe russe sostanzialmente impreparate, facendo emergere subito l’arretratezza del loro armamento e la scarsa competenza dei loro Stati Maggiori: questo portò i russi a perdere le prime battaglie con gli eserciti invasori e a ritirarsi nel loro territorio, lasciando ai tedeschi il controllo di gran parte della Polonia. Una guerra di logoramento e di posizione, inoltre, era particolarmente pericolosa per uno stato arretrato e povero come la Russia, che faticava a equipaggiare e nutrire il suo esercito e che doveva inoltre affrontare la crisi alimentare dovuta alla chiamata alle armi della parte più giovane e attiva della popolazione contadina, circostanza che causò un calo di circa un terzo della produzione agricola. Tutti questi fattori contribuirono ad aumentare il malcontento popolare, a cui Nicola II non seppe reagire: lo zar, anzi, rifiutò categoricamente di accettare almeno alcune delle richieste che provenivano dalle masse popolari, finendo per restare totalmente isolato. Questa situazione degenerò definitivamente nel 1917, quando uno sciopero generale si trasformò in una vera e propria rivoluzione, che portò all’abdicazione dello zar e alla creazione di un soviet che amministrasse il potere. Questa complessa situazione interna rendeva impossibile continuare a combattere una guerra come quella in corso – che richiedeva un impiego ingente di uomini e di risorse – e quando il controllo della rivoluzione passò nelle mani di Lenin una delle sue prime preoccupazioni fu quella di trovare una strategia per far uscire quanto prima la Russia dal conflitto, in modo da poter concentrare le sue forze nella gestione dei problemi interni. Nel dicembre del 1917 venne quindi concluso un armistizio immediato con Austria e Germania, con cui poi vennero intavolate lunghe e complesse trattative, dato che le condizioni di pace imposte alla Russia si presentavano durissime: la Russia fu infine costretta ad accettare quanto le imponevano gli stati vincitori e a rinunciare al controllo su Polonia, Finlandia, repubbliche baltiche, Ucraina e su parte della Bielorussia e della Russia stessa, perdendo proprio le zone più progredite di quello che era stato l’impero zarista. Queste condizioni furono ufficialmente sancite dalla firma del trattato di Brest-Litovsk, del 3 marzo 1918, che segnava la fine dei combattimenti sul fronte orientale.
La conclusione della guerra
Il lento logoramento delle forze coinvolte nel conflitto culminò, tra il marzo e il luglio del 1918, in una serie di attacchi particolarmente cruenti portati avanti dall’esercito tedesco contro quello francese: la Germania, infatti, dopo quattro anni di guerra combattuta su più fronti si trovava ormai ridotta praticamente alla fame, e sapeva di essere arrivata al limite delle sue possibilità di resistenza. Come estremo tentativo di far pendere le sorti del conflitto a proprio favore, i tedeschi provarono quindi a sferrare un ultimo attacco, concentrando tutte le loro forze sul fronte occidentale, sperando di riuscire così a dilagare in territorio francese e a prendere definitivamente il controllo del paese. L’attacco ebbe successo e consentì ai tedeschi di sfondare in più punti le linee nemiche, ma non di arrivare a prendere Parigi: quest’ultimo sforzo, infatti, esaurì le risorse dell’esercito tedesco, rendendolo incapace di resistere alla resistenza delle truppe francesi, che riuscirono a reagire anche grazie all’aiuto degli americani, appena intervenuti attivamente nel conflitto (la guerra tra USA e Germania era stata formalmente dichiarata già nell’aprile del 1917, ma ci volle oltre un anno perché le truppe statunitensi potessero essere addestrate e inviate fisicamente in Europa). I tedeschi furono quindi risospinti indietro, oltre la linea della Marna, e nell’agosto del 1918 subirono una pesantissima sconfitta nella battaglia di Amiens, nel nord della Francia. La battaglia non si concluse con una piena vittoria dei francesi, ma fu determinante perché, in quell’occasione, le forze alleate riuscirono a far agire in modo coordinato fanteria, aviazione e artiglieria, utilizzando per la prima volta in modo massiccio anche i carri armati e dimostrando la loro superiorità anche tecnologica. La sconfitta subita dai tedeschi in quell’occasione fu grave e, sommata a una serie di altre vittorie conseguite delle forze dell’Intesa in diversi punti della linea del fronte, indusse prima la Bulgaria (29 settembre 1918), poi la Turchia (30 ottobre 1918), poi l’Austria (4 novembre 1918) e infine anche la Germania (7 novembre 1918) a chiedere l’armistizio. Tutte le nazioni che si contrapponevano alle forze dell’Intesa si erano dunque arrese, e alle ore 11.00 dell’11 novembre la guerra venne dichiarata ufficialmente conclusa.
I trattati di pace
Alla fine del conflitto, le nazioni vincitrici si riunirono a Parigi per ridisegnare l’assetto dell’Europa e per stabilire le condizioni di pace da imporre alle nazioni sconfitte (a cui i trattati di pace vennero imposti senza possibilità di discussione). La situazione si dimostrò subito molto tesa, perché gli interessi delle nazioni vincitrici erano a volte in contrasto tra loro e perché la guerra aveva portato al crollo di imperi che da secoli governavano l’Europa, segnando parallelamente l’ascesa di nuove potenze capaci di sostituirli a livello geopolitico: nessuno sapeva esattamente quali sarebbero stati gli esiti di questi cambiamenti, che si andavano a sommare a tensioni sociali che erano intensissime ovunque, e che imponevano ai diversi governi di prestare particolare attenzione a non scontentare l’opinione pubblica dei rispettivi stati. Il risultato di queste complesse tensioni fu una pace che si rivelò molto punitiva nei confronti dei vinti, fondata su un temporaneo compromesso tra le nazioni vincitrici (tutte animate da desideri espansionistici e imperialistici), che si rivelò incapace di porre le basi per una pace duratura in Europa. Il principale trattato di pace fu firmato a Versailles il 28 giugno 1919, e le condizioni che imponeva erano particolarmente dure soprattutto nei confronti della Germania: le veniva infatti imposto di cedere Alsazia e Lorena alla Francia, Schleswig del Nord alla Danimarca, Posnania, Alta Slesia e Pomerania alla Polonia. Danzica fu dichiarata “città libera” sotto il controllo della Polonia, a cui era collegata da un “corridoio” che separava di fatto la Prussia Orientale dal resto della Germania. Francia e Inghilterra si divisero le colonie che avevano fatto parte dell’impero tedesco, che venne privato di fatto anche della flotta e dell’esercito (alla Germania fu permesso di conservare solo 6 navi da guerra e un esercito di non più di 100.000 soldati). Infine, la Germania dovette versare un’ingentissima cifra (132 miliardi di marchi) alle nazioni vincitrici, come riparazione per i danni causati dalla guerra, e dovette assumersi l’intera responsabilità del conflitto, riconoscendo «che lei e i suoi alleati sono responsabili, per averli causati, di tutti i danni subiti dai governi alleati e associati e dai loro cittadini a seguito della guerra, che a loro è stata imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati», come recita l’articolo 231 del trattato. Anche le altre nazioni sconfitte furono duramente penalizzate dai trattati di pace: l’Austria, che durante il conflitto aveva di fatto visto dissolversi il suo impero, dovette cedere all’Italia il Trentino, il Sud Tirolo, Trieste e l’Istria, mentre l’Ungheria dovette cedere la Transilvania alla Romania e la Slovacchia alla Repubblica Ceca. La Bulgaria perse la Tracia (annessa alla Grecia), e la Macedonia, che si unì a Serbia, Bosnia, Montenegro, Croazia e Slovenia formando un nuovo stato, la Jugoslavia, mentre la Turchia perse gran parte di quello che era stato l’impero ottomano, rimanendo di fatto limitata all’Anatolia e alla città di Istanbul. Il resto dei suoi domini venne spartito tra Italia (che prese l’isola di Rodi e il Dodecaneso), Grecia (che prese Smirne e le isole dell’Egeo), Inghilterra (che prese l’isola di Cipro e assunse la tutela di Palestina e Iraq) e Francia (che assunse la tutela di Libano e Siria). Queste scelte, che di fatto tracciavano confini arbitrari che rispettavano solo in minima parte le volontà dei vari popoli, furono sostanzialmente frutto di un compromesso tra i desideri imperialistici di Francia e Inghilterra, solo parzialmente moderati dagli interventi degli Stati Uniti, che non approvarono gli esiti a cui giunsero le trattative e che finirono per non ratificare il trattato di Versailles, preferendo negoziare in seguito una propria pace separata con la Germania (le cui condizioni furono fissate dal trattato di Berlino del 1921). Gli storici concordano nell’affermare che il trattato fu di fatto fallimentare, dal momento che non solo non fu in grado di costruire un nuovo ordine europeo, ma finì per creare nuovi motivi di antagonismo tra le nazioni, generando in particolare nei tedeschi un sentimento di umiliazione e un desiderio di rivincita che furono facilmente strumentalizzati dalle forze più estremiste e che resero debole la neonata repubblica tedesca. In molti ritengono che l’ascesa al potere di Hitler sia stata favorita e agevolata proprio dalla durezza delle condizioni di pace imposte alla Germania, che causarono un aumento dell’inflazione, della povertà e del desiderio di rivincita contro le nazioni vincitrici.
Responsabilità e cause del conflitto
A guerra conclusa, in occasione della stipula del Trattato di Versailles, le potenze europee si interrogarono sulle reali responsabilità del conflitto, che travalicano ovviamente la figura di Gavrilo Princip e il suo gesto aggressivo nei confronti dell’Arciduca di Asburgo. Le nazioni unanimemente ritenute più responsabili del degenerare della situazione sono ovviamente l’Austria e – soprattutto – la Germania, che nei mesi successivi all’attentato di Sarajevo si schierò al fianco degli Asburgo e si impegnò in ogni modo per neutralizzare tutti i tentativi di risoluzione pacifica della controversia. I due imperi dell’Europa centrale cercarono da subito di imporre in modo autoritario la loro volontà alla Serbia e alla Russia, che però, dal canto loro, si dimostrarono altrettanto rigide nelle loro posizioni. Tra le grandi potenze coinvolte nel conflitto solo la Gran Bretagna tentò seriamente di percorrere la via del negoziato, ma l’intransigenza delle altre nazioni belligeranti fece naufragare tutti i suoi tentativi diplomatici. Questo intrecciarsi di volontà aggressive da parte di tutti gli stati dipendeva da molte ragioni di politica interna ed estera: a livello generale, ogni stato europeo temeva l’aumentare della potenza degli altri, ed era quindi pronto a interpretare ogni gesto compiuto da una delle forze in campo come una potenziale minaccia per sé. Questa situazione favoriva, ovviamente, l’innescarsi di spirali di tensione, accentuate dalla presenza di due blocchi di alleanze (Triplice Alleanza e Triplice Intesa) sempre più chiusi e agguerriti: in questo modo si venne a creare una situazione in cui ogni vantaggio per una delle parti in causa comportava uno svantaggio per l’altra, cosa che rendeva minimi i margini di mediazione diplomatica. A questa situazione geopolitica generale, si sommavano una serie di tensioni interne ai vari stati, che avevano interessi differenti e in conflitto tra loro: in Francia, ad esempio, c’era un fortissimo desiderio di rivincita nei confronti della Germania, eredità della guerra franco-prussiana del 1870; l’Austria voleva ad ogni costo salvaguardare la sua integrità territoriale, consapevole com’era delle molte tensioni indipendentiste dei popoli che facevano parte del suo impero, mentre la Russia voleva consolidare le sue posizioni in Europa ed espandersi in particolare nella zona dei Balcani e della Turchia, a scapito dell’impero ottomano. Tutti questi desideri nazionalistici vennero rafforzati dallo scoppio del conflitto, e contribuirono a farlo esplodere e a fargli assumere portata mondiale, andando a sommarsi ad altre cause, come ad esempio la corsa agli armamenti in cui tutti gli stati europei si erano fatti coinvolgere e i molti problemi sociali interni ai vari paesi. Tutti questi fattori contribuirono a far esplodere il conflitto, e solo considerandoli nel loro insieme si può avere un quadro realistico di quanto successe in Europa nel 1914. Dato questo stato di cose, risulta chiaro come sia stato pretestuoso il tentativo, compiuto a guerra finita, di addossare tutte le colpe del conflitto alla Germania: non è infatti possibile individuare una sola nazione da ritenere responsabile della guerra. Ogni stato coinvolto era animato da fortissimi sentimenti nazionalistici di potenza, che lo mettevano inevitabilmente in conflitto con le altre nazioni.
Conseguenze del conflitto
La Grande Guerra segnò una svolta epocale in molti settori della vita sociale, economica e politica dell’Europa e del mondo, modificando per sempre equilibri secolari e portando innovazioni e cambiamenti capaci di sconvolgere per sempre la vita di tutte le popolazioni coinvolte. A livello strettamente bellico, l’andamento della guerra aveva dimostrato come ormai il progresso tecnologico fosse una componente irrinunciabile del successo degli eserciti. La guerra si era infatti fossilizzata per il sostanziale equilibrio delle forze in campo, e la situazione era stata sbloccata solo dall’intervento dell’esercito americano, dotato di mezzi tecnologicamente più avanzati (come i carri armati, che fecero il loro ingresso sulla scena militare mondiale proprio durante la Grande Guerra e furono poi fondamentali nel corso del secondo conflitto mondiale). A livello tecnologico, la guerra portò a una vera e propria rivoluzione dei sistemi di produzione industriale: per sostenere gli eserciti, infatti, l’apparato produttivo dei diversi paesi belligeranti fu sottoposto a pressioni mai affrontate prima. Per sopportare un simile sforzo, la macchina industriale dovette essere modernizzata, le industrie furono costrette a organizzare il loro lavoro in maniera più produttiva e ad aumentare il numero dei loro addetti, cosa che contribuì a portare definitivamente a compimento il processo di industrializzazione anche negli stati che all’inizio del conflitto erano meno progrediti tecnologicamente, come l’Italia. Le fabbriche più piccole e meno efficienti si trovarono tagliate fuori dal mercato, e ciò comportò una serie di cambiamenti anche a livello economico: i vari stati accentuarono il loro controllo sull’economia – perché il conflitto impose razionamenti e confische – e le grandi industrie prosperarono, sostenute dai rispettivi stati nazionali, a danno delle imprese minori. Ad essere totalmente rivoluzionato dal conflitto, invece, fu il settore della finanza, che diventò centrale come mai era stato prima: per sostenere l’industria bellica, infatti, i vari stati si trovarono costretti ad attivare un complesso sistema di prestiti internazionali per cui, alla fine del conflitto, i paesi più deboli si trovarono pesantemente indebitati con quelli più forti, mentre gli Stati Uniti vantavano crediti nei confronti di praticamente tutti gli stati che avevano aderito all’Intesa. Questo esito fu particolarmente rivoluzionario a livello geopolitico, dato che per la prima volta nella storia l’Europa aveva perso la sua plurisecolare supremazia, a vantaggio del Nuovo Mondo. La guerra e il conseguente intervento degli stati nazionali in vari settori dell’economia portò, inoltre, grandi cambiamenti a livello politico: la burocrazia aumentò moltissimo, dato che la macchina statale diventava sempre più complessa e decentrata. Parallelamente, i parlamenti nazionali persero parte della loro autorità mentre aumentava il potere dei governi e delle gerarchie militari, chiamati a decidere autonomamente in nome dello stato di emergenza imposto dalla guerra. Queste evoluzioni ebbero esiti particolarmente gravi nel tempo, dato che gettarono le basi per l’instaurarsi di meccanismi di tipo autoritario (ad esempio l’istituzione di sistemi di censura e controllo della stampa, nonché di uffici specificamente dedicati alla propaganda) che si svilupparono poi, tragicamente, nei decenni seguenti. Queste evoluzioni toccarono da vicino la società nel suo insieme, determinando cambiamenti profondissimi a livello sociale: lo sforzo bellico imponeva infatti ai vari stati di cercare l’appoggio delle masse popolari, che non dovevano più limitarsi a sostenere da lontano una minoranza di combattenti – come era stato tipico di tutti i conflitti fino a quel momento – ma svolgevano un ruolo importante tanto quanto quello degli eserciti. Gli stati nazionali dovettero, quindi, mescolare repressione e ricerca del consenso per riuscire a gestire società che si rivelavano, per la prima volta della storia, società realmente “di massa”: ciò portò, ad esempio, all’istituzione di enti statali o privati, laici o religiosi, che si occupavano di assistenza alle vedove, agli orfani, ai mutilati, ai reduci. Tali istituzioni avevano da un lato una pesante funzione di controllo della società, ma dall’altra costituirono il nucleo di quello che sarebbe diventato il sistema di welfare dei rispettivi stati. Il conflitto modificò anche, profondamente, il ruolo delle donne nella società: la mancanza di operai maschi spinse infatti le industrie ad assumere in massa manodopera femminile, contribuendo in questo modo a portare a compimento percorsi di emancipazione che si erano già timidamente avviati a fine Ottocento.