Autos epha – latinizzato in Ipse dixit (lo ha detto lui) – era la formula rituale in uso nella scuola fondata da Pitagora a Crotone, in Calabria, tra il 532 e il 531 a. C., periodo in cui il filosofo originario di Samo intraprese un viaggio nella Magna Grecia. L’insegnamento di Pitagora, come testimonia la formula, non poteva essere messo in discussione, veniva appreso e trasmesso oralmente quasi fosse una rivelazione divina e su cui era necessario mantenere il segreto.
Le testimonianze in nostro possesso raccontano di un Pitagora estremamente affascinante, a metà tra il filosofo e il profeta, e di una scuola che era una comunità religiosa e politica – godeva a quanto pare dell’appoggio dei governi delle colonie italiche del tempo – aperta alla conoscenza intesa come purificazione e perfezione nella ricerca dell’armonia che regna su tutto l’universo e che i corpi celesti, muovendosi, riproducono in una musica sublime.
Pitagora credeva che l’origine di tutte le cose fosse il numero, per cui tutte le relazioni esistenti nel mondo sono esprimibili attraverso determinazioni numeriche, allo stesso modo in cui i rapporti armonici della musica sono il risultato di rapporti fra numeri. Il numero era la chiave d’accesso alla conoscenza della natura più profonda delle cose, non è solo l’origine, ma anche l’essenza di ogni cosa, uno strumento di catarsi per l’anima che rendeva elitaria una scuola aperta a tutti anche alle donne e agli stranieri, sia pure dopo un periodo di noviziato fatto di riti e dure prove purificatorie in cui fondamentale era la regola del silenzio: i noviziati – chiamati acusmatici dal verbo greco akouein che significa ascoltare – erano tenuti al silenzio e non erano ammessi alla presenza del maestro che parlava loro da dietro una tenda, in attesa che la loro anima divenisse pronta ad accogliere le verità più nascoste e per questo più essenziali.
Ecco che il numero assumeva una valenza mistica, diventava un ponte in cui progredire nella conoscenza del mondo e delle sue relazioni, attraverso lo scioglimento delle catene del corpo. Il corpo è, infatti, per l’anima una terra d’esilio a causa di una colpa originaria che la obbligherà a incarnarsi in molte vite, trasmigrando in corpi animali e umani, fino al raggiungimento della purificazione finale, la catarsi, in cui l’anima, per natura divina, si ricongiungerà all’Uno da cui proviene.
La filosofia pitagorica risente di numerosi influssi: Anassimandro – di cui forse Pitagora fu allievo -, le religioni orientali – che molto probabilmente conobbe nei suoi numerosi viaggi in Egitto e in Oriente – e l’orfismo, il più importante fenomeno religioso a carattere mistico che si diffonde nella Grecia del VI secolo a. C., legato al culto del dio Dioniso. L’orfismo credeva nella metempsicosi, ovvero nella trasmigrazione delle anime di vita in vita, di corpo in corpo, fino alla liberazione eterna dal corpo stesso.
Anche Pitagora credeva nella metempsicosi, ma la differenza sta nel valore dato alla conoscenza. L’anima si purifica attraverso un cammino di conoscenza, dove fondamentale è la scienza dei numeri. La conoscenza rende gli uomini migliori, li fa aristoi, nel senso in cui Platone utilizza questo termine, forse è così che dovremmo intendere la scuola pitagorica come aristocratica.
Una delle massime all’interno della scuola recitava:
“Chi è il più saggio? Il numero
Cosa c’è di più bello? L’armonia”
Ma vediamo nello specifico qual era la concezione di numero che avevano i pitagorici e cosa significa realmente affermare che l’archè di tutte le cose è il numero.
In effetti, seguendo le orme di Aristotele, dovremmo parlare più di pitagorici che di Pitagora, in quanto è difficile distinguere con certezza la filosofia originaria del filosofo di Samo dai pensieri elaborati successivamente dai suoli discepoli, come Filolao o Archita di Taranto, i quali contribuirono a diffondere, tra V e IV secolo, il pitagorismo in tutta la Grecia, non solo quella delle colonie ma anche quella continentale.
Il numero non è un’entità astratta, ma molto più concreta per i pitagorici di quello che a primo acchito potrebbe sembrare. I numeri sono grandezze che occupano uno spazio, quindi hanno un’estensione e una forma. A ogni numero superiore all’uno, infatti, corrisponde una figura geometrica costituita da un insieme di punti che all’interno della scuola erano soliti indicare con dei sassolini. L’uno, o forse dovremmo dire l’unità, è il punto geometrico, l’inizio e la fine di tutte le cose nello spazio e nel tempo. I numeri per i pitagorici sono così reali da scorgere in essi, più che nell’aria o nell’acqua, la radice ultima e più profonda dell’universo. “Tutto quel che si conosce – recita una massima di Filolao – ha un numero: senza il numero non sarebbe possibile né pensare, né conoscere alcunchè”.
Il numero non è una semplice quantità convenzionale che misura il tempo e lo spazio, il numero ha un legame intrinseco con le cose, i fenomeni e gli eventi della vita tale da definirne l’essenza stessa. Sono gli archetipi universali della conoscenza, per esempio l’uno è l’intelligenza immobile, identica a stessa; il due rappresenta il movimento, il pensiero che può prendere strade opposte; il quattro rappresenta l’equilibrio e la giustizia; il cinque il matrimonio, l’unione del primo pari con il primo dispari; il sette è il kairòs, l’occasione, il momento opportuno ma anche il tempo critico, in riferimento a certi periodi della vita umana; il dieci rappresenta l’armonia e la perfezione, contiene in sé tutti i numeri pari e dispari ed era rappresentato dalla tetractys, un triangolo equilatero avente quattro punti per ogni lato, su cui i pitagorici erano soliti giurare.
Ma le corrispondenze con il mondo naturale non finiscono perché dieci sono i corpi celesti come dieci sono le coppie di contrari che si originano dall’opposizione fondamentale, quella tra pari e dispari. Pari sono i numeri che possono essere divisi in due parti entrambe pari o entrambe dispari, dispari, invece, quei numeri che una volta divisi, se una parte è pari l’altra deve essere necessariamente dispari. Solo l’uno si sottrae a questa distinzione, in quanto comprende in sé sia la natura del pari che quella del dispari.
I pitagorici lo chiamavano parimpari perché se sommato al pari lo rende dispari e se sommato al dispari lo rende pari. Pari e dispari sono quindi la prima opposizione fondamentale da cui si generano tutte le altre coppie di contrari, ma se giriamo la medaglia il pari diventa l’illimitato e il dispari il limitato. Abbiamo detto che i numeri sono insiemi di punti geometrici, adesso disegniamoli, proprio come facevano i pitagorici, dividendoli in due parti, ci renderemo conto che nei numeri dispari resta sempre un’unità interposta fra queste due parti che pone un limite alla divisione e chiude quello che i greci definivano il cerchio della perfezione. Non così nei numeri pari, dove non vi è un limite e se non vi è un limite, nei numeri pari non può abitare la perfezione, ma solo il caos e il disordine. Sembra che Pitagora sia stato il primo a chiamare l’universo “cosmo” alludendo proprio all’ordine e alla razionalità che il termine greco significa e che trova, per i pitagorici, espressione nel numero che rende intelligibili e conoscibili tutte le cose.
Ordine che la scoperta dell’incommensurabile fatta dai pitagorici stessi poteva mettere a repentaglio e per questo non andava divulgata fuori le mura della scuola. La scoperta, infatti, di grandezze asymmtron non misurabili e per ciò stesso alogon irrazionali minava alla base la teoria del numero come principio e spiegazione di tutte le cose. Le testimonianze antiche raccontano che un discepolo Ippaso di Metaponto divulgò la notizia scandalosa determinando la sua cacciata dalla scuola se non forse la sua condanna.
Lo spettro dell’infinito e dei numeri irrazionali perseguitò i pitagorici così come il vento democratico che spirò nelle città greche dell’Italia meridionale spazzando via le scuole aristocratiche e costringendo i discepoli di Pitagora a fuggire . A uno di essi, Aristarco di Samo, vissuto nel III secolo a. C. si deve una prima formulazione della teoria eliocentrica per cui è la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa. Copernico stesso disse di essersi ispirato ai pitagorici, i quali immaginavano un universo in cui dieci corpi celesti di forma sferica ruotano attorno ad un fuoco centrale – inizialmente chiamato Hestia “focalare o altare dell’universo”, sarà Aristarco a sostituire il fuoco con il Sole – che ha la capacità di regolare il movimento degli astri in modo tale che ne scaturisca una perfetta e geometrica armonia. Tra questi corpi celesti vi è la Terra, non più al centro dell’universo, non più mondo governato da forze oscure, divine e incomprensibili, bensì ordine comprensibile al pensiero e alla conoscenza.