Nel termine di scrittura visiva si comprendono tutte quelle forme di comunicazione artistica nelle quali si realizza la contaminazione tra mezzi espressivi propri della scrittura e mezzi espressivi tipici della visualità; in altri termini, sono opere di sv sia quelle che, nascendo come opere letterarie basate sulla parola, tendono anche a una ricezione visuale, sia quelle che, nascendo come opere pittoriche, esigono per una piena comprensione anche la lettura degli elementi verbali che esse contengono.
Il fenomeno della sv ha avuto, in Italia e nel mondo, il momento di massima diffusione e notorietà nella seconda metà del Novecento, nei decenni compresi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, all’interno dei movimenti delle avanguardie artistiche e letterarie, le cui teorie estetiche muovono dalla constatazione della crisi espressiva a livello sociale dei linguaggi
tradizionali e dalla situazione di empasse di fronte alla quale l’artista contemporaneo ha due sole possibilità: il sovvertimento delle regole comunicative consuete o il silenzio. Il ricorso alla contaminazione tra linguaggi verbali e linguaggi visivi diviene così lo strumento privilegiato attraverso il quale le avanguardie sperimentano nuovi modelli comunicativi.
Si tratta comunque di un fenomeno la cui ampiezza cronologica è di grande estensione e le cui radici risiedono nella natura stessa della scrittura, intesa come visualizzazione e fissazione grafica della facoltà di linguaggio, che fin dall’antichità ha stimolato la creatività estetica di coloro che la praticavano.
È però in seno alla letteratura poetica che si sviluppano gli esperienti piú organici di sv, proprio a causa della organizzazione spaziale tipica del messaggio poetico scritto che si fa carico, mediante la disposizione grafica, di rendere le cadenze ritmiche e metriche dell’oralità.
Per la contemporanea sv, l’antecedente riconosciuto dalla critica e il punto di riferimento deliberatamente assunto dagli autori è costituito dalla composizione poetica di Stéphane Mallarmé dal titolo Un coup de dès (1897) che, scompaginando la linea tipografica ed esaltando il corpo e l’isolamento delle parole e dei versi nello spazio della pagina, si pone come sintesi estrema della dialettica simbolista tra parola e silenzio e ad un tempo come superamento delle modalità poetiche e comunicative tradizionali.
Se è vero che le suggestioni del tardo simbolismo letterario francese costituiscono la via «alta» entro la quale si inseriscono le sperimentazioni delle avanguardie, non bisogna dimenticare però che proprio negli anni compresi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si sviluppa in Europa una nuova cultura visiva legata alla società industriale,
con il diffondersi del manifesto pubblicitario e della piccola pubblicità su quotidiani e periodici.
La pratica verbale-visiva del manifesto e della tipografia pubblicitaria ottiene inoltre un importante avallo in sede pittorica dai quadri e dai collages del cubismo e del futurismo, nei quali l’introduzione di materiali grafici come fogli di giornale o carta da musica fa scattare un corto circuito tra l’opera e la realtà esterna.
E proprio al futurismo va il merito di avere impresso con forza l’impulso alle sperimentazioni di sv tra le avanguardie artistiche del Novecento: tra il 1912 e il 1914, Filippo Tommaso Marinetti teorizza progressivamente nei suoi Manifesti letterari lo svincolamento della pagina poetica da qualsiasi norma sia di carattere linguistico che di carattere tipografico, indicando nelle tavole parolibere il nuovo modello di poesia moderna. Nel liberarsi dai consueti legami logici e spaziali che governano la scrittura tradizionale, nella tavola parolibera le parole possono fluttuare liberamente nello spazio della pagina, oppure obbedire a una organizzazione geometrica e/o astratta, per generare figurazioni diverse: resta ferma la «leggibilità» della tavola, che mediante gli accostamenti inconsueti, talora casuali, tra singole parole, è comunque portatrice di un significato verbale.
La prima celebre uscita in pubblico delle tavole parolibere futuriste si ha con Zang Tumb Tumb (1914), di Marinetti, dove le azioni belliche culminanti nel bombardamento di Adrianopoli sono descritte mediante la prosa giustappositiva e fortemente ellittica delle parole in libertà, intercalata da esempi di tavole parolibere.
Tutti i principali esponenti del movimento futurista si sono cimentati nell’arte di comporre tavole parolibere e dunque tale produzione è copiosa anche perché si è protratta nel corso
di decenni.
Le opere di sv si diffondono già nella prima metà del Novecento, oltre che in Italia, in tutta Europa e nel mondo: nell’Unione Sovietica grazie al futurismo russo e a Majakovskij, in Francia grazie ad Apollinaire; in Svizzera e in Germania a seguito del movimento Dada, che si propaga successivamente negli Stati Uniti.
A livello internazionale e intercontinentale si sviluppa, negli anni dell’immediato dopoguerra, una tendenza alla sv che, spogliatasi degli effetti impressionistici delle precedenti
avanguardie, adotta un uso neutro della tipografia per puntare a una nuova sintassi topologica e spaziale. Protagonista di questa nuova tendenza, nota con il nome di concretismo,
è la parola con le sue infinite pontenzialità di significato, come si afferma nel Piano pilota per la poesia concreta (1953) del gruppo brasiliano dei Noigandres, fondato da Augusto e Haroldo de Campos e Decio Pignatari. Sulla linea di una ricerca fondata sulla parola e sui suoi rapporti semantico-spaziali si muovono anche le «costellazioni» dello svizzero Gomringer e il tedesco Klaus Bremer, fondatore della rivista «Material». Piú attente all’aspetto materico e visuale della scrittura, fino a renderla semanticamente indecifrabile,
sono sperimentazioni come quella della «poesia di superficie» di Franz Mon, dei «decollages» di Adriano Spatola e delle «cancellature» di Emilio Isgrò. Nel 1959, la rivista «Ana etcetera» con, tra gli altri, Martino e Anna Oberto, Vincenzo Accame, Ugo Carrega, arricchisce la scrittura di elementi iconici e apre verso l’esperienza della poesia visiva.
Rivolta ad esplorare i rapporti che si stabiliscono all’interno di un unico spazio tra parola e immagine, la poesia visiva nasce nei primi anni Sessanta a opera di un gruppo di artisti
d’avanguardia, il Gruppo 70, che raccoglie poeti, pittori, musicisti e che si pone il problema del rapporto tra i nuovi linguaggi tecnologici (mezzi di comunicazione di massa, pubblicità) e i linguaggi estetici. Ne scaturisce la proposta di un nuovo tipo di poesia, la poesia visiva, appunto, che esce dal libro per essere fruita come un quadro e raggiunge il paradosso facendo interagire tra loro immagini usurate e stereotipi verbali; si ottiene così l’effetto di una forte carica polemica e demistificante nei confronti della società dei
consumi. Le prime opere di poesia visiva sono dovute agli artisti del Gruppo 70 e cioè a Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Lucia Marcucci, Luciano Ori, ma anche questa esperienza, come le altre qui accennate, ha una diffusione internazionale in artisti come Jean François Bory, Valoch, Paul de Vree e un seguito cronologico ininterrotto che arriva fino a oggi.