L’oratoria è in senso generale, l’arte del dire, l’eloquenza, che può esercitarsi in diversi campi e risponde a finalità persuasive; più specificamente, l’insieme di tecniche, schemi e tópoi (in latino ars oratoria) che regola tale arte nella sua espressione anche scritta (in questa accezione l’o. può essere considerata parte della retorica).
L’ORATORIA IN GRECIA
Nella letteratura greca, le prime testimonianze di eloquenza risalgono a Omero; i numerosi discorsi contenuti nei poemi omerici attestano il peso e la considerazione che l’abilità oratoria aveva presso la cultura greca arcaica. Ma solo a partire dal sec. V si può parlare di veri esempi di discorsi e allocuzioni: gli storici Erodoto e Tucidide li intercalano nel racconto degli avvenimenti, a fini artistici il primo e prevalentemente politici il secondo. L’eloquenza divenne allora un’arma decisiva nelle mani dei politici: tuttavia personalità come Temistocle e Pericle, considerati oratori abilissimi, non pubblicarono i propri discorsi (i tre discorsi che Tucidide fa pronunziare a Pericle nelle sue Storie non possono essere considerati autentici).
La grande svolta nella storia dell’o. è rappresentata dall’affermarsi della retorica siciliana, che per la prima volta sviluppa una teoria dell’eloquenza. In seguito alla caduta della tirannide, in Sicilia, il moltiplicarsi delle cause private aveva contribuito al sorgere di una vera tecnica del convincere, che fu introdotta ad Atene da Gorgia di Lentini, uno dei maggiori tra i sofisti. A Gorgia risale la grande lezione sull’architettura del discorso, sulla rispondenza delle frasi e delle parti di frasi, sul gioco degli effetti, sugli schemi e sui modelli di pensiero e di forma.
Riconosciuta come una vera e propria téchnè, ossia come un’arte autonoma dotata di proprie leggi, l’o. ricevette una sistemazione destinata a durare nella pratica e nella didattica sino alla fine del mondo antico: le trattazioni più importanti saranno in Grecia la Retorica di Aristotele e quella attribuita ad Anassimene di Lampsaco, a Roma la Rhetorica ad Herennium e numerosi scritti di Cicerone.
L’arte del persuadere e del ben esprimersi si articolò in tre generi: deliberativo, giudiziario, d’apparato, a seconda che si trattassero problemi politici o processuali o temi celebrativi; capiscuola in questi campi furono rispettivamente Demostene, Lisia, Isocrate. L’o. forense, a uso soprattutto di professionisti, i logografi, che stendevano le arringhe per altri, si attenne quasi sempre a uno schema rigido: a un proemio introduttivo sul merito della causa, accompagnato sovente da accattivanti appelli alla giuria, seguivano la narrazione dei fatti, la dimostrazione delle proprie tesi e la confutazione di quelle avversarie, e infine la perorazione, che riassumeva gli elementi emersi, rimettendosi al verdetto (e alla clemenza) dei giudici.
L’o. politica e quella d’apparato erano più flessibili nella struttura, ma attingevano largamente a un repertorio di figure e motivi formali, di esemplificazioni stereotipe e luoghi comuni (tópoi). Tra il 428 e il 322 a.C. in Atene operarono non meno di ottanta brillanti oratori: fra essi dieci vennero prescelti a modello (il cosiddetto canone) probabilmente già in età alessandrina. All’epoca della dominazione macedone la stagione dell’eloquenza si avviava già al tramonto.
Nel periodo ellenistico e romano, l’o. passò dalla piazza alla scuola, divenne esercizio a tavolino, declamazione dal banco, lezione dalla cattedra. Da un insegnamento pedante nasceva un purismo anacronistico, che non a caso si rifaceva all’atticismo. Retori come Dione Crisostomo, Erode Attico, Elio Aristide (sec. II d.C.) si fecero banditori e fedeli difensori (con animo antiromano) di un grande passato letterario, così come due secoli più tardi si erigeranno a custodi dell’alto patrimonio culturale pagano Temistio, Imerio e Libanio, nel tentativo di un’impossibile restaurazione.
L’ORATORIA A ROMA
I più antichi oratori romani invece, quali Appio Claudio Cieco e Catone il Vecchio, non avevano nulla a che vedere con l’esperienza attica; ma nel vivo delle lotte repubblicane l’esercizio della parola si trasformò in vera e propria ars, ricollegandosi al grande precedente greco. Si sviluppò una dura polemica tra i rhetores latini, ligi a dettami «nazionalistici» (rappresentati da Catone), e i seguaci dell’impostazione ellenica (rappresentati dagli Scipioni). I conservatori riuscirono a cacciare da Roma i retori greci (161 a.C.), i quali però successivamente seppero riacquistare il predominio: nel 92 a.C. vennero chiuse le scuole dei retori latini. Riconosciuta ormai la superiorità dei modelli greci, la produzione del sec. I a.C. è animata dal contrasto fra le due correnti che si rifacevano (senza tuttavia delimitazioni troppo rigide) all’asianesimo e all’atticismo.
L’asianesimo, prezioso e magniloquente, poteva sconfinare, come segnala Cicerone, nel gioco grazioso e vacuo o nell’abbondanza di ornati, nel troppo impeto e nella foga eccessiva. Tra i cultori dell’asianesimo figurano, già nel sec. II Tiberio e Gaio Gracco, e nel sec. I L. Licinio Crasso, autore del bando contro i retori latini, e Q. Ortensio Ortalo. In grammatica gli ariani erano anomalisti, opponevano cioè la consuetudine alla norma.
L’atticismo proclamava, contro Isocrate, il ritorno al vero Lisia, cioè a una prosa secca e vigorosa, sobria ed elegante, aliena da ogni orpello, preziosismo, neologismo. Tra i suoi rappresentanti più accreditati figurano Cesare e M. Giunio Bruto. In grammatica gli atticisti erano per l’analogia, per l’ossequio cioè alle forme consacrate. Una posizione a sé è quella di Cicerone: dapprima seguace dell’asianesimo, prese poi equilibrate distanze da entrambe le scuole, abbracciando l’ideale «rodio», secondo cui l’oratore era tenuto ad adeguare il tono al contenuto e all’occasione dei discorsi.
Con l’avvento dell’impero cessò a Roma l’o. politica: il mutamento istituzionale in senso autocratico poneva termine agli scontri tribunizi. L’universalità del diritto romano e la vastità dell’apparato amministrativo imperiale consentirono invece la sopravvivenza dell’o. giudiziaria: l’Apologia di Apuleio ne è un prezioso e brillante documento. I prodotti didattici e d’occasione, dall’antologia di Controversie e Suasorie di Seneca il Vecchio all’Istituzione oratoria di Quintiliano, al Panegirico a Traiano di Plinio il Giovane, non sono opere di grande rilievo. La fine della grande eloquenza è collegabile, come sostiene l’autore del Dialogus de oratoribus (probabilmente Tacito), con la perdita delle libertà fondamentali del cittadino. Questo vuoto spiega, almeno in parte, il perdurare nelle scuole, anche in età cristiana, del predominio ciceroniano.
L’ORATORIA MEDIEVALE E UMANISTICA
Quasi esclusivamente religiosa fu l’o. medievale, che raggiunse le espressioni più elevate nella predicazione francescana e domenicana: predicatori insigni del sec. XIV furono Giordano da Pisa e, soprattutto, I. Passavanti, che raccolse i suoi quaresimali, ravvivati da aneddoti e novellette, nello Specchio di vera penitenza. Le due tendenze, quella realistica e conversevole e quella drammatico-apocalittica, toccarono il culmine nel Quattrocento, rispettivamente nelle prediche di san Bernardino da Siena e di Gerolamo Savonarola. Nel medesimo periodo si diffondevano i sermoni «mescidati» (misti cioè di latino e di volgare), i quali, per gli esiti involontariamente comici, si possono annoverare fra i precedenti della letteratura maccheronica; popolarissimo esponente di questo genere «sacro» fu Gabriele Barletta.
Con l’umanesimo rifiorì anche l’o. civile, in latino e in italiano, applicata sia all’attività politica (E.S. Piccolo-mini) sia alle polemiche letterarie e filologiche (C. Salutati, A. Loschi, P. Bracciolini, L. Valla ecc.). Capolavoro dell’eloquenza cinquecentesca è considerata l’Apologia (1539) di Lorenzino de’ Medici; ma non meno famosi furono i discorsi politici, classicamente atteggiati, di G. Della Casa, G. Guidiccioni, S. Speroni, B. Cavalcanti, I. Nardi, P. Paruta. Contro gli eccessi plateali dell’o. religiosa si pronunciò il v concilio lateranense (1516), e norme ancora più severe stabili il concilio di Trento (1545-63), raccomandando ai predicatori austerità e rigore dottrinario. A questi principi si attennero i gesuiti e gli oratoriani di san Filippo Neri.
DALL’ORATORIA BAROCCA ALL’ORATORIA MODERNA
Nel sec. XVII nasceva in Spagna l’o. barocca, con Giovanni di Avila, Luis de Granada, Luis Ponce de León, da cui gli italiani E. Orchi, L. Giuglaris, G. Lubrano ripresero lo stile ridondante e l’uso dei «concetti predicabili», ossia la spiegazione dei concetti teologici mediante artifici teatrali e similitudini bislacche di stampo marinistico. A questo indirizzo reagirono P. Segneri e D. Bartoli, fautori di un’eloquenza razionalmente lucida e composta. Ma la più splendida o. del Seicento fu quella francese, sorretta da profonde istanze morali e affinatasi nelle lotte contro il protestantesimo e il quietismo: sintassi solenne ed empito lirico-drammatico si congiungono nelle Orazioni funebri (1656-87) di J.-B. Bossuet, mentre più disinvolto e piacevole appare l’eloquio di L. Bourdaloue e di J.-B. Massillon. All’esempio di questi ultimi s’ispirarono, nell’Italia del Settecento, il cappuccino A. Turchi e, con maggiore indulgenza alle sdolcinature sentimentali, il gesuita G. Tornielli («il Metastasio del pulpito») e sant’Alfonso de’ Liguori.
Ancora in Francia, durante la rivoluzione, con i grandi oratori dell’assemblea costituente (H.-G. Mirabeau, L.-A.-L. Saint-Just, G.-J. Danton, M. Robespierre) nacque l’o. politica e parlamentare moderna, la cui tradizione fu continuata nella stessa Francia da Ch. Montalembert, A. Thiers, F.-P.-G. Guizot, L. Gambetta; in Inghilterra da W. Pitt, W.E. Gladstone, B. Disraeli; in Italia da G. Mazzini, D. Guerrazzi, C. Cavour, F. Crispi ecc. A parte vanno considerati i Discorsi alla nazione tedesca (1808-09) di J.G. Fichte e i discorsi foscoliani, monumenti di un’eloquenza romantica ispirata a ideali nazionalistici e libertari. Intanto l’o. letteraria passava dalla forma aulica dell’«elogio» (coltivata magistralmente da P. Giordani) a quella della moderna conferenza.