Il termine o applicato all’arte figurativa del sec. XIX richiede alcune precisazioni iniziali, in ordine al piano cronologico e a quello geografico.
Il periodo di diffusione può essere compreso tra la spedizione egiziana di Napoleone Bonaparte nel 1798, e l’istituzione di un protettorato inglese in Egitto nel 1914; i paesi che attrassero irresistibilmente gli artisti sono le regioni nordafricane, i territori dell’Impero turco (Turchia e Asia minore), l’Egitto, la Siria, la Terra Santa, il Libano e la Palestina. Paesi nei quali Inghilterra, Francia e Stati Uniti avevano interessi politici e commerciali, che ne favorirono in vari modi la conoscenza.
Gli orientalisti non costituirono mai una scuola, né un gruppo organizzato, anche se il genere ebbe una diffusione tale che nel 1893 Léonce Bénédite potè fondare la Société des Peintres Orientalistes Français; le loro vicende intersecano in vario modo le tendenze figurative europee nel corso dell’Ottocento, e i loro nomi sono fra i più noti della pittura dell’Ottocento: fra gli altri Eugène Delacroix, Alexandre Decamps, Eugène Fromentin, Jean-Léon Gérome, Gustave Guillaumet, William Holman Hunt, John Frederick Lewis, Alberto Pasini, Auguste Renoir.
Due artisti che non visitarono mai l’Oriente, ma che devono in qualche modo essere considerati dei precursori sono Gros e Ingres, poiché l’immagine di quei paesi che essi offrirono ai contemporanei condizionò le inclinazioni orientaliste degli artisti europei e, almeno in una prima fase, le loro interpretazioni.
Gros aveva ricevuto la commissione di illustrare la spedizione in Egitto di Napoleone, ma a causa del blocco navale britannico nel Mediterraneo non potè visitare personalmente i luoghi nei quali ambientare: La battaglia di Nazareth (1801: Nantes, mba), Gli appestati di Jaffa (1804: Parigi, Louvre), La battaglia di Abu Qir (1806: Versailles).
Egli ricostruì quindi un Oriente piuttosto fantastico, anche se basato in parte su racconti di testimoni oculari, fissando alcuni degli stereotipi che caratterizzeranno una prima fase delle pitture orientaliste: colori accesi, scene tumultuose, ambientazioni insolite.
Più complessa la mediazione da attribuire ad Ingres. L’interesse per il nudo femminile sfociava con naturalezza nell’iconografia dell’odalisca, un tema d’altro canto famigliare al gusto romantico per l’esotico, e che poteva giovarsi di rendiconti settecenteschi di viaggi e di repertori di miniature islamiche, noti anche agli artisti.
In epoca romantica l’Oriente poteva soddisfare il desiderio di attingere, attraverso la frequentazione di culture in qualche modo estranee alla civiltà classica, territori aperti all’immaginazione, finalmente libera dalle convenzioni della cultura occidentale. Se resta ambiguo l’inserimento della Grecia classica nell’immaginario orientalista, giocherà un ruolo importante il mito letterario della libertà greca, spenta dall’Impero Ottomano, presente nei poemi di Byron che costituirono la radice dell’interesse di Delacroix per quei paesi ancora prima del suo viaggio in Marocco: Le Combat du Giaour et du Pasha (di cui esistono ben sei versioni, scalate negli anni dal 1824 al 1856), opere vicine all’esotismo romantico più che vere e proprie testimonianze del genere, nei cui confronti occupano quasi la posizione di incunaboli.
L’Oriente era anche il luogo di un’insuperata fascinazione femminile, un tema di origine ancora una volta letteraria, diffuso attraverso le pagine fantastiche dei racconti di Théophile Gautier, e nei resoconti di viaggio di Gerard de Nerval: «Come è possibile non sognare l’avventura e il mistero – egli ricordava nel suo Voyage en Orient del 1851 – di fronte a quelle costruzioni basse, inaccessibili agli sguardi esterni, a quelle grate, attraverso le quali così spesso brilla lo sguardo interrogativo di giovani donne?»
L’attrazione esercitata sui viaggiatori dai quartieri femminili dei serragli custoditi dagli eunuchi, o, viceversa, dalle leggendarie danzatrici dette almah, si conservò inalterata, e nonostante la fortuna del realismo nella seconda metà del secolo, continuarono ad aver successo temi come l’harem, il bagno, la guardia al serraglio, le odalische. La Danse de l’almée di Gérome (1863: The Dayton Art Institute), e La Poste du Sérail: souvenir du Caire (1876: Parigi, coll. Pierre Bergé), furono accolte con entusiasmo di pubblico e critica e dettero l’avvio a un collezionismo molto vivace, che si sviluppò intorno alle rassegne annuali dei salons a Parigi e della Royal Academy a Londra, con episodi di grande rilievo quali le raccolte di John Walters a Baltimore, la collezione del marchese di Hertford, quella del duca d’Aumale, che aveva combattuto in Nordafrica, a Chantilly, e la collezione David a Nantes.
Per gli artisti che giungevano nei paesi islamici l’atmosfera dei villaggi arabi con le loro consuetudini di vita primitiva costituiva un elemento di attrazione, anche perché rispondeva
al desiderio di sfuggire al degrado spirituale della civiltà occidentale. Ma questo aspetto è stato recentemente interpretato come parte di un atteggiamento negativo, di imperialismo culturale, strettamente collegato agli interessi di dominazione politica e commerciale dell’Occidente.
La pittura, al pari della letteratura, sarebbe in tal caso inconsapevole sostegno a un progetto di sopraffazione, compiacendo e rafforzando nei popoli occidentali la consapevolezza della propria superiorità. In ogni caso, ogni interpretazione dovrebbe essere confrontata con lo svolgimento interno della pittura orientalista che registra, intorno al 1850, una partizione cronologica.
Altro è, in corrispondenza del romanticismo, la produzione di pittori quali Delacroix e Decamps, che intrattennero con l’Oriente un dialogo essenzialmente emotivo, e che filtravano la visione di quella civiltà attraverso la concezione di una sauvagerie comunque positiva, retaggio del mito settecentesco del «buon selvaggio»; altro, a contatto con le nuove esigenze del realismo, l’interesse per la documentazione obiettiva di un contesto diverso che prevalse negli artisti e favori lo sviluppo di modelli figurativi inediti, come la nuova pittura religiosa di William Holman Hunt, o la pittura «etnografica» di Gérome. L’artista inglese, insoddisfatto dei modelli di ambientazione biblica derivati dalla tradizione tardorinascimentale, rifiutata, come è noto, dal movimento dei preraffaelliti, si spinse in Terra Santa per raccogliere, con una attenta osservazione, materiali relativi a luoghi, architetture, fisionomie
e costumi, e comporne scene come Il ritrovamento di Gesù nel Tempio (1854-60: Birmingham, Museum andag), nelle quali la verità delle Sacre Scritture fosse esaltata da una rigorosa verosimiglianza di descrizione ambientale.
Diverso il senso delle descrizioni meticolose di Gérome. Durante il regime bonapartista del secondo impero egli fu il caposcuola di quel «realismo ufficiale» che, applicando a scene indifferentemente del passato o del presente la stessa lucida messa a fuoco, rispondeva in eguai misura ai principi didattici delle Accademie e alle istanze del nuovo positivismo scientifico. In tale ambito i pretesti esotici e pittoreschi dell’o romantico evolvevano verso il reportage e verso l’identificazione fisionomica dei vari gruppi etnici.
Nei confronti di questi artisti che rispecchiano l’influsso dell’Oriente soprattutto nei soggetti (accanto a Gérome possiamo ricordare Lewis e Bauernfeind), può valere in parte l’interpretazione negativa cui si accennava sopra, confermata d’altro canto dall’osservazione che manca nella pittura orientalista la testimonianza della difficile condizione quotidiana di quelle popolazioni.
Devono distinguersi gli artisti per i quali la visione concreta di una realtà fino ad allora solo immaginata costituì momento di verifica delle proprie convenzioni pittoriche, sollecitando ricerche e sperimentazioni. I pittori di paesaggio, a confronto con tenitori sconfinati e aridi, morfologicamente insoliti rispetto ai modelli compositivi ereditati dalla tradizione della pittura occidentale, dovevano affidarsi unicamente alla autenticità del loro temperamento: «Quale tradizione si può seguire là dove tradizione non esiste? – si chiedeva Théophile Gautier, recensendo il Salon del 1857. – Là dove non esistono modelli precostituiti per il soggetto da trattare, davvero deve emergere in primo piano l’individualità dell’autore». Uno degli artisti che più profittarono di questa sollecitazione fu Gustave-Achille Guillaumet (1840-87), che con Le Sahara (1867: Parigi, Louvre) offrì una prova di come, rinunciando ad ogni compromesso con gli usuali schemi di rappresentazione, era possibile ottenere risultati linguistici assolutamente inediti.
Un altro elemento del paesaggio orientale che costrinse i pittori a ridefinire in qualche modo le proprie consuetudini di rappresentazione fu la luce, poiché il biancore accecante del sole nel deserto anziché determinare gli squillanti accordi cromatici, associati per convenzione ad ogni tema orientale, dissecca i colori e immerge le forme in tonalità aspre e infiammate al tempo stesso. Fromentin trattò questo problema squisitamente pittorico, che tentò concretamente di affrontare in dipinti quali Coup de vent dans les plaines d’alfa (Sahara) (1864: Houston, Texas, coll. priv.): «prima d’ora nessuno, per quanto ne so, si era dovuto preoccupare di ingaggiare una battaglia con questo ostacolo tremendo, il sole, né avrebbe potuto immaginare che l’artista, con i mezzi limitati di cui dispone, avrebbe dovuto accettare e vincere la sfida dell’eccessiva luce solare, intensificata dallo spazio senza confini del deserto».