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Nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, il mondo intero si trovò ad affrontare un conflitto di tipo totalmente nuovo che è oggi noto con il nome di “guerra fredda” (espressione coniata dal giornalista americano Walter Lippmann). Questo conflitto contrapponeva due fazioni opposte, che si sfidavano sul piano ideologico, tecnologico, politico e militare: da una parte c’era il cosiddetto blocco occidentale – di cui facevano parte gli USA, i paesi della NATO e i loro alleati – dall’altra c’era il blocco sovietico (o blocco orientale) – di cui facevano parte l’URSS, i paesi aderenti al Patto di Varsavia e i loro alleati.
Questi due schieramenti si fronteggiarono per decenni, alternando fasi di tensione e di distensione, senza però mai arrivare a una vera e propria dichiarazione di guerra. L’espressione “guerra fredda” sottolinea proprio il carattere non-dichiarato del conflitto che contrapponeva blocco occidentale e blocco sovietico e che, pur non essendo mai degenerato in una vera guerra “sul campo” (che, se fosse scoppiata, avrebbe potuto distruggere l’intero pianeta, dato che entrambe le parti in causa disponevano di un cospicuo arsenale di armi atomiche), ha comunque segnato la storia del mondo contemporaneo, modificandolo per sempre nei suoi equilibri sociali e geopolitici.
Le cause della guerra fredda vanno ricercate nel desiderio delle due grandi nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale – USA e URSS – di affermare la superiorità del loro modello economico e politico e di diventare egemoni su tutto il pianeta. Le due superpotenze, infatti, rappresentavano modelli economici, politici e sociali radicalmente diversi, e le loro divergenze – che nel periodo del secondo conflitto mondiale erano passate in secondo piano, grazie al comune obiettivo di sconfiggere il nazismo – a guerra conclusa si fecero sentire con forza. Già nel febbraio del 1946 Stalin dichiarò pubblicamente, in un discorso tenuto al teatro Bolsoj di Mosca, che un conflitto tra mondo socialista e mondo capitalista era ormai inevitabile, e un mese dopo Winston Churchill dichiarò che l’Europa era ormai divisa da una “cortina di ferro”, necessaria per proteggere i paesi occidentali dai tentativi di espansione dell’URSS.
La tensione tra i due blocchi nasceva dal fatto che entrambe le superpotenze si sentivano reciprocamente minacciate: la Russia era consapevole della propria arretratezza tecnologica e della propria inferiorità strategica rispetto agli USA (unica nazione ad essersi servita “sul campo” delle armi atomiche nel corso della seconda guerra mondiale, dimostrando in maniera schiacciante la propria potenza), e reagiva a questo senso di debolezza mantenendo la mobilitazione di un altissimo numero di soldati, che in qualsiasi momento sarebbero stati pronti ad aggredire l’Europa Occidentale. Questa scelta serviva, ufficialmente, per garantire alla Russia una sorta di “zona di rispetto” attorno ai suoi confini, che le avrebbe permesso di difendersi in caso di attacchi esterni (come era stato quello delle truppe naziste, pochi anni prima). In realtà, però, questa politica aggressiva e militarista portò la Russia, in pochi anni, ad avere il controllo diretto su tutta l’Europa Orientale. Più tardi, poi, la scelta di aiutare i partiti comunisti di altri stati asiatici – come la Cina e la Corea – consentì all’URSS di espandere ulteriormente la sua sfera di influenza, che finì per coinvolgere anche paesi extra-URSS. Il consolidarsi del potere sovietico, ovviamente, preoccupava gli USA, che temevano che il comunismo finisse per prevalere a livello mondiale. Gli americani, per arginare il movimento espansivo dei russi, cercarono di assicurarsi la fedeltà dei paesi dell’Europa Occidentale e di consolidare la propria posizione di dominio sui paesi non comunisti, esasperando in questo modo il conflitto che, a questo punto, diventava inevitabile.
La prima fase della Guerra Fredda
L’evento che diede l’avvio “ufficiale” alla guerra fredda fu un discorso tenuto dal presidente americano Harry Truman il 12 marzo 1947 di fronte al Congresso degli Stati Uniti. In quella circostanza il presidente chiese di autorizzare un intervento finanziario a sostegno di Grecia e Turchia – stati in cui era in corso una guerra civile tra i governi monarchici regolari e i comunisti – ed enunciò quella che passò alla storia come “dottrina Truman”. Secondo questa dottrina, gli USA avevano il diritto di intervenire ovunque, nel mondo, per aiutare i popoli la cui libertà era a rischio, perché ogni aggressione subita da una nazione libera era di fatto un aggressione agli USA stessi. Con questa dichiarazione, Truman sancì di fatto la spaccatura nel mondo in due blocchi: da un lato c’erano i paesi “liberi”, dall’altro i paesi comunisti. Ogni tentativo di questi ultimi di far entrare nella propria sfera di influenza nuove nazioni, sarebbe stato interpretato come un atto che minacciava la libertà americana.
Come conseguenza della “dottrina Truman”, gli USA elaborarono anche un cospicuo piano di aiuti economici destinati dagli stati non comunisti dell’Europa occidentale, il cosiddetto “Piano Marshall”. Il denaro del piano Marshall doveva servire alle varie nazioni europee per riparare i danni prodotti dalla guerra e far ripartire il loro sistema industriale, ma in realtà funzionò anche come sanzione dell’adesione delle nazioni europee al blocco occidentale, anti-sovietico.
Nel 1948 il “blocco di Berlino” segnò un aumento dalla tensione tra i due blocchi, che arrivarono quasi allo scontro diretto. Berlino, dopo la fine della seconda guerra mondiale, era stata divisa in 4 parti (una assegnata agli USA, una alla Francia, una alla Gran Bretagna e una alla Russia). Nel febbraio del 1948 inglesi, francesi e americani crearono un governo unico per le loro tre parti di città, sottolineando in questo modo che la parte Ovest di Berlino era saldamente nelle mani del blocco occidentale, e alcuni mesi dopo attuarono una riforma monetaria nella loro zona, cominciando a far circolare moneta diversa da quella che si utilizzava nel resto della Germania.
Per reagire a questa provocazione, la notte tra il 23 e il 24 giugno Stalin diede l’ordine di isolare Berlino Ovest: tutte le vie di comunicazione con la parte occidentale della città vennero interrotte, così come i rifornimenti energetici e alimentari. Il “blocco” si protrasse per undici mesi, nel corso dei quali gli Stati Uniti rifornirono di viveri, medicinali e merci la parte occidentale della città servendosi di un ponte aereo; la tensione tra i due blocchi rimase molto alta fino a quando, nel maggio del 1949, il blocco fu infine revocato. Conseguenza di questa prova di forza fu, però, la divisione della Germania in due parti, che appariva ormai come una necessità inevitabile. Nacquero così la Repubblica democratica tedesca (detta anche “Germania Est”) e la Repubblica federale tedesca (“Germania Ovest”), testimonianza tangibile per tutti di quanto, in pochi mesi, la divisione tra i due blocchi fosse diventata radicale.
Nel 1949, a Washington, venne firmato il Patto Atlantico, trattato che sanciva la nascita della NATO. Le nazioni aderenti al Patto si impegnavano a intervenire a sostegno l’una dell’altra in caso di aggressione, secondo il principio per cui l’attacco a uno degli stati firmatari era di fatto un attacco alla coalizione nel suo complesso.
Nello stesso anno, intanto, l’Unione Sovietica cominciò i suoi esperimenti atomici, dando il via al cosiddetto “equilibrio del terrore”: ognuna delle due superpotenze, a questo punto, disponeva di un arsenale di ordigni nucleari e sarebbe stata quindi pronta a rispondere a un eventuale attacco atomico della parte nemica. La consapevolezza di questo stato di cose faceva sì che nessuna delle due parti osasse attaccare per prima, ma allo stesso tempo spingeva entrambe a continuare la propria corsa agli armamenti, dato che rimanere indietro rispetto all’avversario sarebbe stato fatale, a livello economico e geopolitico.
Nel 1955 venne stipulato il Patto di Varsavia, un trattato di cooperazione e reciproca assistenza tra otto nazioni appartenenti al blocco sovietico, che si impegnavano a riunire i loro eserciti in vista della difesa comune. La stipula del Patto – che ricalcava, di fatto, quello che era la NATO per i paesi del blocco occidentale – sancì definitivamente la spartizione del mondo in due parti, segnando in maniera inequivocabile i confini tra le due aree di influenza.
La guerra fredda, a partire da questo momento, si cristallizzò: alcune conferenze internazionali sancirono una sorta di temporanea stabilizzazione geopolitica del mondo, nota come periodo della “coesistenza pacifica” tra i due blocchi: dopo quasi un decennio in cui USA e URSS avevano lavorato per consolidare le loro zone di influenza, il mondo era ormai diviso in due parti nettamente separate, e ogni cambiamento poteva essere fatale per il mantenimento dell’equilibrio.
La coesistenza pacifica
L’equilibrio faticosamente raggiunto nel 1955, venne subito messo in crisi da una serie di eventi che fecero emergere le contraddizioni interne al blocco comunista: nel 1956 in Ungheria ci fu una rivolta popolare antisovietica, che venne repressa nel sangue, e nello stesso anno anche in Polonia ci furono sommosse e sollevazioni operaie gestite in modo autoritario dal governo di Mosca. Nonostante la gravità della situazione, però, gli USA si rifiutarono di intervenire a sostegno degli anti-comunisti ungheresi e polacchi: a livello mondiale, la divisione dell’Europa in due parti era ormai un dato accettato, necessario per il mantenimento dell’equilibro tra i due blocchi.
Nel 1957 l’URSS lanciò in orbita lo Sputnik, il primo satellite artificiale della terra, dando così inizio all’epoca dell’esplorazione spaziale. La conquista dello spazio si rivelò un nuovo terreno di confronto per le due superpotenze, per ragioni sia militari che di immagine: i sovietici furono i primi a inviare astronauti nello spazio (Yuri Gagarin, 1961), ma gli americani riuscirono a vincere la corsa alla conquista della Luna (Luis Armstrong, 1969).
La “coesistenza pacifica” tra USA e URSS, nel corso degli anni Sessanta, venne continuamente minacciata da una serie di crisi di carattere locale, che avrebbero potuto trasformarsi però in scuse per scatenare un conflitto di carattere generale: è il caso delle crisi di Berlino (1961) e di Cuba (1962). La crisi di Berlino iniziò con la decisione dell’URSS di rinunciare al controllo su Berlino Est, consegnando la città direttamente alla Germania Est. Questa scelta spaventò la Germania occidentale, che temeva che Berlino Ovest venisse di nuovo bloccata e isolata, e la spinse a chiedere l’intervento degli USA. Il presidente americano Kennedy si recò personalmente in città e pronunciò la celebre frase «Ich bin ein berliner», ma questo non bastò a scoraggiare i sovietici. Nel mese di agosto del 1961, infatti, l’URSS costruì un muro che tagliava in due la città, con il deliberato scopo di impedire il transito e la fuga dei cittadini di Berlino Est, che in massa avevano cominciato a trasferirsi nella parte Ovest della città.
La crisi di Cuba, invece, fu una conseguenza della rivoluzione che portò Fidel Castro al potere nell’isola. Gli USA erano molto preoccupati dalla presenza di un governo comunista forte e popolare stabilmente insediato a un passo dai loro confini, e nel 1961 decisero di risolvere la situazione inviando nell’isola un contingente di “volontari anticastristi”, che erano in realtà stati addestrati dai servizi segreti statunitensi. Il tentativo di “invadere” l’isola fallì, ma spinse Castro ad avvicinarsi ancora di più all’URSS, a cui concesse di installare sull’isola basi missilistiche. Gli USA non potevano accettare una minaccia così incombente e un così grave cambiamento degli equilibri geopolitici mondiali, e reagirono a questa scelta imponendo un blocco navale attorno a Cuba, per fermare le navi sovietiche cariche di forniture militari. Se le navi, già partite dalla Russia, avessero tentato di forzare il blocco, molto probabilmente la guerra fredda sarebbe degenerata in un conflitto aperto, ma alla fine prevalse la trattativa e la “crisi dei missili” fu risolta con la rinuncia, da parte dell’URSS alle basi cubane e con il riconoscimento da parte degli USA dell’indipendenza dell’isola.
Un altro fronte che vide contrapposti “a distanza” USA e URSS fu quello che si aprì, nel 1964, con l’intervento americano in Vietnam: per dieci anni l’esercito statunitense portò avanti una sanguinosissima guerra contro le forze ribelli comuniste vietnamite, senza riuscire a conseguire una decisiva vittoria sul campo e arrivando infine a firmare, nel 1973, una pace di compromesso con cui si impegnava a ritirare le truppe dal paese in cambio dell’impegno dei comunisti a garantire l’autodeterminazione del popolo vietnamita.
La Seconda Guerra Fredda e il crollo dell’URSS
Nel 1968 l’URSS rovesciò con la forza il governo cecoslovacco di Alexander Dubcek, ponendo fine in questo modo alla cosiddetta “Primavera di Praga”, un movimento riformista che stava diventando sempre più forte in Cecoslovacchia e che si opponeva al rigido controllo dell’URSS sul paese. La violenza dell’intervento russo testimoniava la sempre maggiore debolezza economica, tecnologica e militare dell’Unione Sovietica, in cui le diverse nazionalità cominciavano a essere insofferenti al controllo di Mosca e reclamavano autonomia e possibilità di autodeterminazione. L’URSS, consapevole della propria debolezza rispetto agli USA, rispondeva a queste richieste con interventi sempre più autoritari e repressivi, che diedero avvio a una nuova fase di tensione nota come “seconda guerra fredda”.
Negli anni Settanta, le due superpotenze continuarono a intervenire in modo indiretto in varie parti del pianeta, con lo scopo di frenare l’eventuale avanzata delle forze avversarie in nuovi territori. Per questo gli americani sostennero, nel 1970, il golpe di Augusto Pinochet, che rovesciò il governo socialista democraticamente eletto di Salvador Allende e prese il potere con la forza in Cile, scatenando una repressione sanguinosissima che costò la vita a migliaia di oppositori politici cileni. Nel 1979, invece, fu l’URSS a invadere l’Afghanistan, dove c’era un governo considerato filo-americano: l’aggressione si rivelò una disfatta per i russi, che dopo nove anni di combattimenti dovettero lasciare il paese senza aver ottenuto alcun risultato se non quello di aver scatenato una guerra civile interna, i cui strascichi si prolungarono poi per decenni.
Negli anni Settanta, in molti paesi del blocco comunista cominciarono a diffondersi sentimenti anti-russi: dopo la Cecoslovacchia, anche in Polonia presero forza movimenti clandestini di opposizione e dissenso nei confronti del governo di Mosca, poi confluiti nel movimento Solidarnosc.
In Occidente, invece, era sempre più forte la spinta verso politiche liberiste che tenevano poco conto della difesa dello stato sociale, incarnate dalle figure di Ronald Reagan (presidente USA) e Margaret Tatcher (capo del governo britannico); inoltre, le crisi petrolifere dei primi anni Settanta avevano dimostrato che lo sviluppo economico occidentale non era così solido come tutti credevano, ma nascondeva inaspettati punti di debolezza.
Negli anni Ottanta, come conseguenza di queste nuove tensioni interne ai due blocchi, gli USA lanciarono una nuova corsa agli armamenti, nel tentativo di dimostrare la loro schiacciante superiorità nei confronti dei sovietici. L’URSS cercò di tenere il ritmo del riarmo americano, ma la sua economia era nettamente più debole di quella statunitense, e continuare a investire risorse in quella direzione avrebbe inevitabilmente impoverito i popoli dell’URSS ed eroso il consenso popolare, già vacillante, nei confronti del Partito Comunista al potere. Per porre rimedio a questo stato di cose, nel 1986 il segretario del PCUS Mikhail Gorbacev propose una nuova politica riformista basata sulla Glasnost (“trasparenza”) e sulla Perestrojka (“ristrutturazione”). Le riforme di Gorbacev volevano da un lato modernizzare l’economia russa, dall’altra porre un freno alla sfiducia che il popolo ormai nutriva nei confronti delle gerarchie politiche e partitiche, e furono un passaggio fondamentale per la conclusione della guerra fredda: l’URSS dimostrava nei fatti di non essere più la superpotenza che era stata a partire dal dopoguerra, e di essere disposta a scendere a compromessi anche con gli Stati Uniti. Nello stesso anno, infatti, Gorbacev e il presidente americano Reagan si incontrarono e cominciarono le trattative per la dismissione delle armi nucleari a medio raggio installate in Europa.
Il sistema di potere dell’URSS crollò, simbolicamente, la notte del 9 novembre 1989, quando i berlinesi distrussero il Muro che da quasi trent’anni divideva in due la loro città, gettando le basi per la riunificazione delle due Germanie, che venne poi sancita ufficialmente l’anno seguente. La caduta del Muro di Berlino è l’evento simbolico che segna di fatto la fine della guerra fredda. Nei mesi immediatamente successivi, infatti, il sistema di potere sovietico implose definitivamente, il Patto di Varsavia venne sciolto e in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria e Romania i regimi comunisti al potere vennero sostituiti da nuovi governi democraticamente eletti. L’Unione Sovietica venne poi dichiarata ufficialmente sciolta dal suo stesso parlamento (Soviet supremo), nel dicembre del 1991.
Il mondo dopo la Guerra Fredda
La guerra fredda fu un conflitto che si protrasse per oltre trent’anni, e le sue conseguenze furono straordinariamente significative per gli equilibri mondiali: negli anni di guerra, infatti, le due superpotenze avevano cercato di potenziare al massimo il loro apparato produttivo e industriale, e l’Occidente aveva conosciuto gli anni del boom economico, con la conseguente immissione sul mercato di enormi quantità di beni di consumo. Alla fine del conflitto, però, la situazione era destinata per forza di cose a modificarsi: a un mondo saldamente bipolare, diviso in due blocchi rigidi di influenza, si sostituiva un mondo in cui nuove potenze e nuovi soggetti economici reclamavano spazio. Basti pensare, ad esempio, allo sviluppo del Giappone, nazione tecnologicamente molto avanzata e all’avanguardia nel settore dell’informatica, che negli anni della guerra fredda aveva sviluppato enormemente il suo potenziale produttivo ed era pronta a rivelarsi un concorrente temibile anche per la potenza economica americana; allo stesso modo prendevano forza anche altri enti sovranazionali, come l’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio, che negli anni Sessanta e Settanta avevano consolidato le loro economie e avevano cominciato a chiedere sempre più spazio sulla scena internazionale, consapevoli di possedere una fonte di energia di cui tutto il mondo aveva bisogno.
Con la fine della guerra fredda e il crollo dei regimi comunisti, poi, i vari stati che avevano fatto parte del blocco sovietico si trovarono a dover riorganizzare da zero il loro apparato produttivo e politico, dopo che per decenni erano stati sottoposti, in tutti i sensi, al controllo dell’URSS. La loro riorganizzazione fu difficile e non priva di contraddizioni, molte delle quali ancora irrisolte.
Anche i paesi del blocco occidentale, però, si trovarono ad affrontare cambiamenti significativi: la fine della guerra fredda segnò infatti anche la fine della società industriale che si era sviluppata a partire dagli anni Cinquanta. Se, nel dopoguerra, il mondo era dominato da un’economia fondata sulla produzione di beni, la fine della guerra fredda segnò la nascita della cosiddetta società “post-industriale”, in cui il settore terziario è più sviluppato del secondario e le attività produttive vengono delocalizzate in paesi del cosiddetto “terzo mondo”, in cui la manodopera è più economica e meno sindacalizzata, e in cui non esiste una rete di welfare con cui confrontarsi. Tutti questi processi, avviati alla fine della guerra fredda, hanno generato nuove forme di tensione e nuovi conflitti tra l’Occidente e il resto del mondo, che sono poi esplosi con particolare forza negli ultimi anni del Novecento e nel primo decennio degli anni Duemila.