Comprende un arco di tempo che va dal 280 a. C. al 146/133 a. C., Roma affronta Pirro re dell’Epiro e si inaugura il ciclo delle tre guerre puniche; tra prima e seconda si colloca la conquista della Gallia Cisalpina (Pianura Padana) e si combattono due guerre illiriche, all’altezza dell’Istria e della Dalmazia; ma la seconda guerra punica implica l’immediata perdita dell’Italia settentrionale, perché i Galli passeranno dalla parte di Annibale accolto come liberatore, e la Gallia Cisalpina sarà riconquistata dopo la seconda guerra punica. Quest’ultima è il primo conflitto totale, paragonabile alle grandi guerre moderne, poiché si combatte su una pluralità di fronti (Spagna, Italia, Sicilia, penisola greca) e ad essa si sovrappone la prima guerra macedonica, segno di un coinvolgimento di Roma negli affari d’Oriente. Le guerre macedoniche sono inrealtà quattro: la prima è “un segmento” della seconda guerra punica, la seconda è combattuta contro Filippo V tra il 198 e il 196, la terza contro Perseo e si conclude con la vittoria di Pidna del 168, la quarta si combatte tra il 148 e il 146 ed è il tentativo di un aristocratico macedone proclamatosi Filippo VI di riacquistare l’indipendenza. Tra seconda e terza guerra macedonica abbiamo la guerra siriaca, la quarta si sovrappone alla guerra acaica che ha come episodio conclusivo la presa di Corinto; in concomitanza con questi conflitti orientali avviene in Occidente la conquista della Spagna iniziata anch’essa con la seconda guerra punica e durata oltre settant’anni, finisce nel 133. Lo spazio geografico in cui Roma è coinvolta si allarga progressivamente, e poiché si tratta di guerre vittoriose ad esso corrisfonde un aumento di potenza e una necessità di impegno e responsabilità ad ampio raggio.
Roma affronta la guerra contro Pirro perché gli Italici, soprattutto i Lucani, premevano contro Taranto, che insieme alle città di Napoli e Siracusa rappresentava un bastione della grecità d’Occidente. Taranto ha una forte politica di indipendenza, diversamente da Napoli che si era lasciata inglobare nello stato romano durante il conflitto sannitico; Taranto aveva anche l’abitudine di chiedere sostegni contro i “barbari d’Occidente” ovvero gli Italici, o ai re di Sparta sua madrepatria o ai re dell’Epiro regione geograficamente vicina. In questo caso si rivolge a Pirro, ambizioso re dell’Epiro, e gli Italici chiedono aiuto alla nuova potenza che oltre ad averli sottomessi eredita le loro guerre, Roma; dunque guerre tarantino-lucane, già frequenti prima del 280, diventano ora tra Roma e Pirro e durano cinque anni circa; dapprima questi ottiene alcune vittorie sui Romani, ma in seguito, pensando di divenire campione della causa dell’ellenismo, passa in Sicilia per combattere i Cartaginesi. È in questo momento che Roma e Cartagine stipulano l’ultimo trattato di alleanza e amicizia contro il nemico comune (279 a. C.). Tuttavia la spedizione in Sicilia non ha successo e quando Pirro risale la penisola trova l’esercito romano a Maleventum, dove subisce la sconfitta decisiva (275 a. C.). Pirro era considerato eroe di immenso valore, il più dotato degli eredi di Alessandro Magno, dunque
la vittoria su di lui da parte dei Romani fece riflettere i Greci sull’entità e la forza militare della nuova potenza d’Occidente fino ad allora sottovalutata. Da fonti greche apprendiamo che in questi anni lo spazio geopolitico del Mediterraneo è spartito tra cinque grandi potenze
– al primo posto il regno di Macedonia, patria di Alessandro e dotato dello strumento militare della falange considerato invincibile in campo aperto, e guidato dalla dinastia degli Antigonidi;
– al secondo il regno di Siria, regno ellenistico nato in seguito alla dissoluzione dell’impero alessandrino, guidato dalla dinastia dei Seleucidi;
– al terzo l’Egitto, l’ultima delle grandi monarchie originarie, guidato dai Dacidi (tutte le dinastie erano di origine macedone);
– al quarto e al quinto posto c’erano due “potenze barbariche”, non greche ma occidentali, di cui una era Cartagine che deteneva la talassocrazia ed era riconosciuta per la sua importanza dai Greci anche in quanto aveva una forma di governo da loro apprezzata e studiata anche da Aristotele;
– dopo la vittoria contro Pirro si afferma la nuova città di Roma che ha unificato l’Italia ma di cui non si conosce la forma di governo e che quindi più a fatica i Greci annoverano tra le potenze padrone del Mediterraneo.
La prima guerra punica scoppia nel 264 a. C.: ormai non ci sono più nemici comuni a tenere uniti gli antichi alleati, e così Roma e Cartagine si scontrano per l’egemonia dapprima sulla Sicilia poi sul Mediterraneo occidentale. Anche in questo caso Roma ha come pretesto la raccolta dell’eredità dell’antico conflitto tra Greci d’Occidente e Cartaginesi: alcuni mercenari campani (Mamertini perché devoti al dio Marte) controllano Messina e Roma, che aveva antichi rapporti con le popolazioni osche della Campania, sente l’esigenza di sostenere i propri alleati che chiedono il suo soccorso contro i nemici cartaginesi che vogliono sottrarre loro il controllo della città dello stretto. La prima guerra punica si conclude con la perdita della Sicilia che diventa la prima provincia romana, e i Cartaginesi cercano una compensazione nell’espansione in Spagna, trasformandosi di fatto in potenza più terrestre che marittima; infatti la prima guerra punica è caratterizzata da grandi battaglie navali, la seconda è soprattutto terrestre e con una sola battaglia navale.
Negli anni che separano le due guerre, mentre i Cartaginesi si espandono in Spagna, Roma ingloba anche la Sardegna e compie l’effimera conquista della Gallia Cisalpina. La rivincita di Cartagine coincide con l’invasione annibalica e ad un certo punto sembra vicina alla realizzazione: dopo le vittorie di Annibale ,sul Trasimeno e a Canne, questi si accorda con Filippo V di Macedonia, prima potenza dell’epoca, per una spartizione del Mediterraneo in cui ad Oriente avrebbero dominato i Macedoni, ad Occidente i Cartaginesi; Filippo V riconosce l’Italia come cartaginese e la Grecia come sua proprietà, Roma si calcola come una città che resisterà sotto il controllo cartaginese (sembrava l’unica conclusione logica della guerra dopo Canne, che però non fu l’epilogo del conflitto).
Per sconfiggere Cartagine e guadagnare il quarto posto tra le potenze dell’epoca Roma impiegò 64 anni, al termine di due guerre lunghe e sanguinose e con esiti alterni; dopo Canne furono arruolati nelle legioni anche schiavi ai quali fu promessa la libertà nel caso avessero servito fedelmente la patria, poiché non vi erano più uomini liberi a disposizione. Roma sostenuta dagli alleati italici dimostra una notevole disponibilità di risorse umane e demografiche, poiché ricostituì l’esercito dopo ognuna delle sconfitte subite contro Annibale. In un’epistola inviata da Filippo V ai Larissei giuntaci per via epigrafica, egli li esorta a concedere la cittadinanza a coloro che pur stranieri vi risiedevano da tempo e che avevano ben meritato nei confronti della città, proposta rifiutata dagli abitanti di Larissa; Filippo porta l’esempio dei romani che concedono la cittadinanza con facilità ai residenti e lo considera un punto di forza dei “barbari d’Occidente”: forse si riferisce anche al foedus Cassianum del 493 che prevedeva tra l’altro la concessione della cittadinanza ai Latini che trasferivano la residenza a Roma, e ricorda che quando i cittadini romani liberavano i loro schiavi, anch’essi diventavano automaticamente cittadini; gli schiavi armati contro Annibale, se avevano ben servito, ottenevano in premio libertà e cittadinanza e i loro figli potevano accedere agli honores. Questo doveva sembrare una debolezza e un disonore ai Greci, mentre Filippo con lungimiranza riconosce l’importanza della facilità ad essere accolti tra i cittadini romani pur a precise condizioni, e poiché la gente lo sapeva questa era secondo lui un’efficace arma propagandistica e psicologica a favore dei Romani.
Il prezzo della vittoria su Cartagine fu comunque alto e dopo Canne ci fu un tale scoraggiamento che per placare l’ira degli dei si ricorse per l’ultima volta a sacrifici, con l’eliminazione di due Galli e due Greci. Nei dieci anni dal 200 al 190 roma diviene l’unica potenza del Mediterraneo: nel 197 a Cinoscefale le legioni romane si scontrarono per la prima volta con la terribile falange macedone; questa le attaccò puntando a sfondarle gradualmente con le pesanti lance, e il comandante romano T. Quinzio Flaminino, allievo di Scipione, diede ordine di sottrarsi all’attacco, in apparenza con l’intenzione di ritirarsi, spostandosi verso il fondo della pianura; ordinò poi di dividersi in manipoli rompendo l’ordine chiuso e di risalire le colline tessale, e così la falange non poté inseguirli perché i soldati erano sfiniti dalla corsa con il carico delle pesanti armature. L’inseguimento si esaurì alle pendici delle colline e il comandante romano ordinò l’attacco, così le legioni circondarono e sconfissero la falange. Polibio informa che l’opinione pubblica greca non credette alla notizia di questa vittoria romana non in seguito ad una battaglia campale ma ad una trappola per la falange; fu questa la luce sulla scienza militare dei barbari d’Occidente per le popolazioni orientali, e da allora le guerre combattute in Oriente furono vinte con poche battaglie ed ingente accumulo di bottino.
Alla fine della battaglia di Magnesia del 190 a. C. contro l’esercito sterminato di Antioco III, che segnava la fine della potenza siriaca e dava ai Romani il dominio sull’Asia, questi contarono poche centinaia di perdite. Livio dedica a questa battaglia il XXVIII libro della sua opera, ed aggiunge che nello stesso anno i Romani erano stati sorpresi in un’imboscata da alcune tribù della Spagna ed avevano avuto 6000 perdite in una giornata; questo evidenzia la sproporzione tra la facilità delle conquiste orientali e la fatica e i costi delle guerre occidentali con conseguenze meno rilevanti dal punto di vista dell’egemonia di Roma.
La conquista della Spagna durò oltre settant’anni, fino al 133 con la distruzione di Numanzia, e l’esercito soffrì oltre che per le ingenti perdite per le diserzioni e la renitenza alla leva, e Scipione Emiliano autorizzò i centurioni ad usare la frusta per mantenere la disciplina tra i legionari, quindi a ricorrere a punizioni corporali contro cittadini romani, provvedimento eccezionale e scandaloso. Polibio fissa la fine dell’età delle conquiste al 146, anno della distruzione di Cartagine e della presa di Corinto, dunque al termine della terza guerra punica e della guerra acaica avvenute nello stesso anno, per lui sigillo dell’onnipotenza di Roma. Negli autori romani la caduta di Corinto è appena registrata, non danno molta importanza ad una guerra che quasi non era costata fatica; essi uniscono la caduta di Cartagine a quella di Numanzia, successiva di 13 anni, poiché lo stesso Scipione Emiliano aveva distrutto e conquistato entrambe le città e perché i Romani avvertono solo con la fine della guerra in Spagna il termine dell’ondata di espansione e l’inizio di un periodo di pace. Da un altro lato era l’Oriente a rappresentare un pericolo e una minaccia: l’Occidente era ritenuto integrabile con il sistema politico romano, poco popolato, che subito si apriva alla colonizzazione ed offriva territori fertili e buoni insediamenti agricoli (per Polibio soprattutto la Pianura Padana ricca d’acque e la Spagna centro-meridionale con le sue coltivazioni di vino e miniere d’argento, importanti perché proprio in questo periodo è coniato il denario, moneta argentea che diventerà corrente e manterrà la sua fortuna per 500 anni fino al III secolo d. C.); qui sono solo i Romani a portare la loro civiltà avanzata e non viceversa, quindi risulta facile e opportuno creare province. Risulta essere con la conquista della Sicilia, considerata sempre altro rispetto all’Italia in quanto prevalentemente greca e con costumi diversi, che si escogita una nuova forma di governo, l’area si amministra tramite l’invio di un governatore e la popolazione paga un tributo annuo; lo stesso si farà in Sardegna, Spagna Citeriore e Ulteriore e Gallia. Diversa la situazione dell’Oriente, che comprende anche i Greci, nonostante l’appello di Polibio a non trattare questa popolazione colta e raffinata alla stregua delle altre.