La pragmatica è la disciplina linguistica che studia l’innesto concreto del linguaggio nella vita reale: sia cioè i presupposti teorici e sociali delle scelte linguistiche che si compiono di volta in volta, sia i modi in cui con la lingua interviene nel mondo reale.
Quando si parla, infatti, si ha sempre a che fare con “restrizioni pragmatiche”, le quali definiscono la forma adeguata che il discorso deve assumere a seconda della situazione e delle norme della comunità; la violazione di queste norme dà luogo a errori pragmatici: nonostante il rispetto della grammatica e della semantica, l’effetto generale della comunicazione non è quello desiderato. Ad esempio, nessuna norma fonetica né grammaticale dell’italiano impedisce di formulare l’enunciato “Signor Ministro, vattene e chiudi bene la porta”, ma tale frase sarà altamente improbabile nella realtà (a meno che non sia pronunciata per scherzo: la pragmatica si occupa anche degli usi impropri del linguaggio).
La pragmatica (dal greco pragmatikós, “che si riferisce ai fatti”) è una delle discipline che più fa ricorso ad alti livelli di astrazione teorica e investe ambiti di studio molto diversi tra loro, dalla filosofia alla psicologia, alla sociolinguistica, alla semantica, alla teoria della comunicazione. Nacque intorno agli anni Sessanta del Novecento come branca della logica e della filosofia del linguaggio, e in particolare fu sviluppata dal gruppo di filosofi analitici della Oxford University che faceva capo a John Langshaw Austin; la sua sistemazione linguistica si deve a John Roger Searle, Dieter Wunderlich e Utz Maas.
Un campo molto studiato, anche per il suo riflesso grammaticale, è, ad esempio, quello degli onorifici: sono quei termini e quelle norme linguistiche usati per segnalare la cortesia e il distacco di chi parla nei confronti di chi ascolta. In italiano il sistema degli onorifici si riduce all’uso del pronome “Lei” (o “Voi”) e della terza persona quando ci si rivolge a un estraneo; tuttavia alcune lingue prevedono un sistema di onorifici complesso e ramificato (ad esempio il coreano) che impone l’utilizzo di parole diverse a seconda dell’interlocutore.
Per fare un altro esempio, in giavanese esistono almeno tre parole diverse per indicare l’atto del “mangiare” (dahar, adjeng, arep), ognuna delle quali trasmette all’interlocutore un grado di rispetto diverso. Un riflesso molto attenuato del fenomeno consiste nell’uso degli eufemismi, obbligatorio nelle situazioni più formali.
Nell’analisi della conversazione, la pragmatica ha consentito di mettere in luce alcune leggi generali; di queste, la più rilevante è il principio di collaborazione fra gli interlocutori, che permette di comunicare senza dover ogni volta esplicitare le intenzioni e i presupposti di ogni frase pronunciata, confidando nella capacità e nella volontà dell’interlocutore di integrare quanto non è stato detto.
La pragmatica studia inoltre le situazioni in cui, mediante la lingua, si interviene nel mondo reale e si modifica la realtà, in particolare quella dei rapporti fra gli individui o fra un individuo e la collettività. Con le parole “ti battezzo”, ad esempio, il sacerdote non asserisce nulla, ma compie una vera e propria azione, modificando la realtà del bambino, che dalla condizione di non battezzato entra a far parte della comunità cristiana.
Secondo la distinzione formulata da Austin nel testo che diede origine alla riflessione pragmatica, Come fare cose con le parole (1962), un atto linguistico di questo genere privilegia l’aspetto “illocutivo” dell’atto stesso. Altri atti illocutivi sono, ad esempio, promettere, congratularsi, dare il benvenuto, dichiarare guerra, scusarsi. Gli atti illocutivi più forti sono spesso rigidamente standardizzati nelle varie culture, perché la loro efficacia è garantita dal fatto che la società li riconosca immediatamente come tali.