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Un viaggio che il filosofo immagina di compiere in giovane età. Un viaggio su di un carro guidato dalle Eliadi, le figlie del Sole, verso una porta.
Ne è guardiana Dike che vieta il passaggio a coloro che non sono degni di essere iniziati alla verità. La verità custodita al di là della porta, dove due vie, una del Giorno e una della Notte, separano la luce dalle tenebre, il sacro dal profano. Un cammino sconosciuto alla massa degli uomini comuni che eleva Parmenide al di sopra delle opinioni degli umani e lo rende partecipe della ben rotonda verità.
Tenuto per mano da Dike, il filosofo di Elea impara a riconoscere il discorso vero da quello falso, la luce della verità dalla notte delle apparenze e rende anche noi partecipi di questa esperienza divina attraverso la parola del suo poema di cui ci sono giunti solo 154 versi raggruppati in 19 frammenti conservati in gran parte da Sesto Empirico, filosofo greco della scuola scettica del I-II secolo d. C. e Simplicio, filosofo greco del VI secolo d. C. Per Parmenide esiste una sostanziale identità fra la realtà che esiste, il pensiero che la pensa e il linguaggio che la dice.
Le due vie che si aprono al di là della porta rappresentano i due modi possibili e opposti di pensare: uno che dice che l’essere è ed è impossibile che non sia, l’altro che dice l’essere non è ed è necessario che non sia. Le due vie dell’essere e del non essere sono per Parmenide le uniche possibili, anche se solo la prima è percorribile, l’unica che conduce alla verità. La via del non essere è falsa e conduce unicamente all’errore, di fatto è impossibile.
Quando noi pensiamo e parliamo presupponiamo che ciò di cui stiamo parlando o che stiamo pensando esista e quindi sia. Ogni nostro giudizio è in primo luogo un’affermazione che ciò di cui si sta giudicando sia. Per il filosofo di Elea, qualsiasi cosa per potere essere pensata e detta, deve innanzitutto, prima di ogni altra determinazione, essere. Pensare o dire il non essere per Parmenide non è affatto possibile.
Il pensiero pensa necessariamente ciò che è (in greco to eon), cioè l’essere delle cose, mai il non essere e quindi le cose in quanto non sono. Pensare il non essere è come non pensare. Ma anche dire il non essere è impossibile, solo ciò che è può essere espresso in parole, ciò che non è non può essere né pensato né detto, esso non esiste, è il nulla.
La prima ontologia della storia della filosofia
Eraclito e Parmenide sono i primi a considerare le cose concrete, gli elementi della natura non in quanto cose o enti particolari, ma in quanto sono, in quanto enti, direbbe Aristotele, sono i primi ad accorgersi dell’ente in quanto ente. I filosofi della natura e del suo archè, non distinguevano gli enti (ta eonta) dalle cose concrete (ta pragmata, chremata), davano per scontato che le cose di cui parlavano di fatto fossero. Questa attenzione del pensiero nei confronti dell’essere in quanto tale, verrà identificata nel corso della storia della filosofia dal termine ontologia, che significa appunto discorso intorno all’essere. Quella di Parmenide è la prima ontologia compiuta della storia del pensiero occidentale. Il filosofo di Elea ci mostra cosa intende con il termine essere (einai), con ciò che è (to eon) precisando le caratteristiche che esso possiede:
-Ingenerato e imperituro: in quanto se fosse generato dovrebbe nascere dal non essere, il che è impossibile; se morisse, dovrebbe dileguarsi nel non essere, ma il non essere non esiste. Dunque l’essere non nasce e non muore.
-Non ha passato né futuro, ma vive in un eterno presente: in quanto se avesse passato e futuro dovrebbe implicare il non essere nelle forme del non essere più e del non essere ancora, mentre l’essere è sempre.
-Non ha fine: se avesse una fine, infatti, non sarebbe più, cosa per Parmenide impossibile.
-Intero, continuo e indivisibile: se non fosse così, avrebbe delle parti e ciò implicherebbe che ogni parte dovrebbe distinguersi dalle altre in quanto non è le altre e quindi in virtù del non essere, cosa ancora una volta impossibile.
-Unico: se non fosse uno ma molteplice, dovremmo ammettere che ognuna di queste molteplicità non è le altre, ma non si può mai dire di ciò che è che non è.
-Immobile: se si muovesse, ciò implicherebbe che prima di muoversi non è dove sarà dopo, e dopo essersi mosso non sarà più dov’era prima. Ancora una volta non è assolutamente possibile il non essere.
-Definito da tutti i lati e simile a una sfera: Parmenide concepisce l’infinità come mancanza e quindi come non essere, per cui l’essere deve essere finito, in quanto la finitezza è sinonimo di compiutezza e perfezione e, secondo un’immagine ripresa dai pitagorici, simile a una sfera.
Bisogna anche conoscere il mondo degli umani
Alla fine del Proemio, Dike annuncia al filosofo la necessità di imparare a conoscere non solo la rotonda verità, ma anche le opinioni degli uomini. L’uomo possiede la ragione per conoscere la verità, la realtà per ciò che essa è veramente, ma anche i sensi che si fermano all’apparenza delle cose, che attestano l’esistenza di un mondo contraddittorio fatto di illusioni e apparenze che comunque va conosciuto in quanto rende l’uomo capace di indagare la realtà in modo completo. Seguendo un percorso quasi circolare Parmenide si allontana progressivamente dal mondo degli uomini, apprende l’esistenza di un regno della verità per poi tornare nuovamente al mondo, che accetterà di descrivere nella seconda parte del suo poema, dove essere e non essere diventano luce e tenebra che si mescolano in un gioco di specchi che ha solo la parvenza della verità.