La presunta capacità di riprodurre fedelmente la realtà rese la fotografia uno strumento indispensabile per la conoscenza e la diffusione delle opere d’arte; del resto, già Niepce, in una delle sue prime esperienze, si era servito come soggetto di un ritratto ad incisione del cardinale d’Amboise, a testimonianza del fatto che il tentativo era rivolto alla ricerca di un metodo di produzione d’immagini sostitutivo dell’incisione, che sin dal sec. XVI era ormai di uso corrente nell’illustrazione di opere d’arte. Ma il limite che veniva avvertito come ormai non piú giustificabile era dato dal fatto che l’incisione inevitabilmente era un’interpretazione dell’opera, sia per quanto riguardava la cultura dell’incisore e la sua abilità tecnica, sia, e in maniera piú significativa, perché si trattava di una traduzione in linee di immagini pensate e sviluppate attraverso il linguaggio del colore.
La traduzione ad incisione delle opere, come quella celeberrima di Calamatta della Gioconda, veniva ad essere considerata non piú come riproduzione di un’opera quanto un’opera essa stessa, distinta dal modello originale. Cosí, quando la fotografia non ha ancora superata la fase pioneristica del daguerrotipo, già s’incontrano veri e propri repertori artistici, che trovano entusiasti estimatori.
Con il miglioramento delle tecniche di ripresa dagli anni ’50 in poi nascono un po’ dappertutto ditte specializzate nella r delle opere d’arte che si rivolgono a un pubblico formato non solo da studiosi ma anche, e forse soprattutto, vista la quantità di prodotto riversata sul mercato, dalla media borghesia, che colleziona album con foto di opere d’arte; questi sono dei veri e propri itinerari della cultura figurativa dell’epoca e rispondono a una duplice esigenza di conoscenza e di status symbol. Tra le ditte in questione, in Italia sono ben note la Alinari, nata nel 1854, la Anderson, Brogi, Parker e inoltre la Sommer e la Tuminello, che, sulla scorta di quanto in Francia e in Inghilterra facevano le ditte Giraudon e Mansell, ripresero e misero a disposizione del pubblico un vastissimo repertorio di opere presenti sul territorio italiano. I loro archivi di negativi vennero pubblicati in cataloghi, la cui circolazione permise una diffusione capillare di materiale iconografico che contribuì in modo sostanziale ad allargare le conoscenze e ad indirizzare il gusto, e lo studio dell’arte, secondo precise linee di tendenza caratteristiche dell’epoca, ancora in gran parte da esplorare. Di questo patrimonio si servirono, e tuttora si servono, malgrado gli evidenti limiti che la fotografia comporta, anche gli storici e i conoscitori d’arte a cominciare dal capostipite italiano, quel Cavalcaselle che era solito memorizzare le opere attraverso disegni che egli stesso faceva, ma che non disdegnava di utilizzare anche la fotografia trovata sul mercato.
Si formarono cosí anche delle fototeche private, come quelle di Berenson, Venturi, Longhi, Lanciani, Gatteschi, basate su materiale fotografico eterogeneo per qualità e provenienza e formate esclusivamente di positivi, quindi adatte unicamente alla consultazione, come naturale conseguenza dello spirito positivistico in cui nascevano. A fianco di queste raccolte private nascono anche archivi e fototeche pubbliche come Les Archives Photographiques di Parigi o il Gabinetto fotografico nazionale di Roma, oggi inglobato nel Catalogo generale, voluto da G. Gargiolli sul finire del secolo, che ci ha tramandato un importantissimo patrimonio fotografico attraverso l’acquisizione di molte collezioni private e sul quale si sono formate intere generazioni di studiosi.
Né vanno dimenticate le raccolte che si formano all’interno di istituti come il Rijksbureau voor kunsthistorische documentatie dell’Aja, la Frick Library di New York, la Library of Congress di Washington, la Fototeca archeologica di Marburg e il particolare caso del Warburg Institute, che tanto ha contribuito alla diffusione dell’iconografia. A dimostrazione del peso e dell’importanza di questo enorme patrimonio nella formazione e nell’informazione relativa all’arte in generale e alle sue metodologie di studio, si ricorda l’ormai pluridecennale problema della classificazione e della conservazione di tutto il materiale raccolto, che neppure il convegno di Roma (1989) ha potuto avviare a una qualche soluzione unitaria. Alla base di tutto ciò è naturalmente il valore meramente documentario che si attribuisce alla fotografia; ma proprio questo valore tende ad essere rimesso in discussione.
Oltre ai limiti tecnici, affiorano altre zone di dubbio relative all’estraniazione dell’opera d’arte dal contesto, con conseguenze a volte significativamente negative, alla riduzione di ogni opera a un formato standard indipendente dal formato originale – ad esempio sono riprodotti in sedicesimo sia la miniatura che l’affresco, con la inevitabile perdita di relazione tra opera e tecnica, che falsa completamente il valore artistico dell’opera stessa –, alla perdita nella fotografia della fisicità dell’opera a causa di una tecnica di ripresa che distribuisce in maniera uniforme e frontale su tutta l’opera la luce, tradendo insieme la materialità dell’opera e la sua collocazione (si pensi agli affreschi che l’artista concepisce in relazione all’architettura in cui sono collocati e quindi alla luce naturale in cui andranno visti e la cui tecnica è basata su colori opachi che la fotografia rende alla stessa maniera di quelli della pittura a olio), e all’uso ormai generale di riprendere le opere secondo un asse centrale ortogonale, ignorando gli effetti prospettici voluti dell’artista in relazione allo spazio della fruizione (ad esempio le riprese delle pareti della Camera degli Sposi del Mantegna effettuate non ad altezza uomo ma da un’altezza corrispondente al punto centrale individuato sulle diagonali maggiori della parete, con conseguente allungamento delle figure).
Con l’invenzione intorno al 1880 del retino, che rese possibile la r tipografica della fotografia, questa sostituì definitivamente nell’editoria l’incisione, dando un contributo fondamentale allo sviluppo delle conoscenze delle opere d’arte, quale mai prima di allora si era visto. Negli ultimi tempi poi, con il perfezionamento sia della fotografia a colori sia della sua r a stampa, l’editoria d’arte ha raggiunto dimensioni notevoli per quantità e qualità. Tuttavia nella produzione di massa la qualità non sempre è all’altezza delle possibilità tecniche della stampa, riproducendo spesso poco fedelmente i colori della fotografia originale, che ha invece raggiunto livelli di eccellenza. Ciò si coglie soprattutto nei libri di testo scolastici e nella pubblicistica d’arte piú diffusa, in cui il rapporto testo-immagine è aiutato e nello stesso tempo fuorviato da r a colori non in linea né con l’opera originale, né con la spiegazione dell’opera nel testo stesso. Quanto questo incida sulla formazione di un gusto e di una cultura dell’arte è difficile valutare; tuttavia è certo che accanto a un’opera di diffusione si sta assistendo a un’opera d’involontaria disinformazione.
Malgrado questo la fotografia ha costituito e costituisce ormai una base sempre piú ampia per lo studio delle arti, dilatando le possibilità di conoscenza, che comunque vanno sempre verifícate sull’opera originale.