Indice
Il termine prospettiva deriva dal latino perspicere (vedere chiaramente) e riveste un’importanza fondamentale nel campo storico-artistico come sistema di rappresentazione dello spazio tridimensionale. Si parla generalmente di prospettiva davanti a qualunque opera che denoti connotati o interessi di resa tridimensionale. La prospettiva centrale che contraddistigue almeno cinque secoli di pittura occidentale è una conquista degli artisti del primo Quattrocento toscano. Dai teorici rinascimentali comincia a essere denominata perspectiva artificialis distinguendola dalla perspectiva naturalis, connessa con l’ottica elaborata nell’Antichità e nel Medioevo.
Nei differenti metodi di restituzione prospettica è presente la fusione di dati squisitamente geometrici con altri che richiamano la nostra comune esperienza visiva (ad esempio l’orizzonte, la fuga delle parallele). Lo studio delle applicazioni prospettiche in pittura ha creato un ampio dibattito che ha come momento chiave il celebre saggio di Panofsky (La prospettiva come forma simbolica, ia ed. 1927, trad, it. 1961), dove la prospettiva è ritenuta l’espressione sensibile di un contenuto spirituale (in collegamento con la filosofia delle «forme simboliche» di Cassirer) negando un suo presunto carattere di immutabilità. All’intervento di Panofskyve aggiunto il chiarimento fornito da Gombrich: «L’arte della prospettiva aspira a realizzare un’equazione corretta; mira a che l’immagine appaia come l’oggetto, e l’oggetto come l’immagine. Raggiunto questo scopo, fa l’inchino e si ritira» (1959, trad. it. 1966). Con questo assunto Gombrich delimita il campo delle indagini sull’argomento, evitando al contempo la supposta aspirazione alla «duplicazione della realtà» che fuorvia dalle finalità proprie della p. Successive interpretazioni hanno sviluppato l’analisi su basi stilistiche, sociologiche, fino a quelle semiologiche piú recenti.
Se proprio si vuole introdurre una qualche categoria all’interno della p, tenendo sempre presente la pluralità delle tecniche rappresentative, può essere utile la differenziazione tra una prospettiva «ottico-geometrica» e una di tipo «concettuale» (Vagnetti, 1979). La prospettiva ottico-geometrica si riferisce chiaramente alla prospettiva artificiale mentre quella definita concettuale si serve di altre convenzioni come lo scarto dimensionale, l’allineamento o la sovrapposizione per distribuire cose e figure nel piano. Un primo esempio riguarda alcuni brani di pittura rupestre del Paleolitico superiore: le figure animali sono trasposte sulla base di una percezione mnemonica. La cosa che maggiormente colpisce è il forte senso plastico, accompagnato dalla correttezza di certi dettagli (ad esempio le zampe). Altamente significativa la mancanza di un quadro delimitante, da intendere come non necessario a una visione pienamente naturale.
La cultura figurativa egiziana e mesopotamica presenta idee di rappresentazioni spaziali nella disposizione in registri orizzontali o verticali. Le dimensioni dei personaggi variano secondo l’importanza gerarchica e la caratteristica generale risiede nel privilegio accordato alla «forma piú completa e rappresentativa possibile» (Pierantoni, 1981). La composizione combinata di elementi in veduta frontale e di altri in veduta di profilo evita lo scorcio in favore di una rappresentazione ideale. Emblematica della resa aprospettica egiziana è poi la raffigurazione di uno stagno in planimetria e, nello stesso contesto, di figure umane nel senso dell’altezza, convenzione che Gombrich ritrova impiegata ancora oggi nelle carte turistiche (1975, trad. it. 1980).
Antichità classica
La civiltà greca compie un ampio salto qualitativo nella figurazione spaziale anche se valutabile solo parzialmente a causa dei pochi documenti pittorici pervenutici. Prima ancora, in ambito cretese, l’affresco raffigurante una Tauromachia del Palazzo di Cnosso (Heraclion, ma) dimostra un altro approccio istintivo verso la rappresentazione (testimoniato anche dalla vivacità dei colori), questa volta però fissato entro i limiti di una cornice. Pure dovuta ad artefice cretese è la Tazza aurea di Vaphiò (1600-1500 a. C.: Atene, mn), lavorata a sbalzo con notevole sensibilità plastica e insieme pittorica per l’attenzione riservata alla luce. I corpi della figura umana e degli animali implicano degli scorci che favoriscono il movimento narrativo. La rappresentazione di scorci è un dato emergente della pittura vascolare greca a partire all’incirca dal sec. V a. C. Il cosiddetto Pittore dei Niobidi dispone figure e oggetti (soprattutto scudi rotondi) in un campionario di articolazioni spaziali che tende al tridimensionale (cratere con La strage dei Niobidi, 460-450 a. C.: Parigi, Louvre). Una serie di dipinti vascolari provenienti dalla Puglia (databili verso la metà del sec. IV a. C.) mostra in piú delle architetture figurate vagamente in assonometria (quindi col punto di fuga all’infinito) per ospitare delle scene tragiche da porre in relazione con la pratica teatrale (un esempio a Würzburg, Martin von Wagner Museum).
Il sottofondo teatrale che lega la cultura greca alla prospettiva è del resto confermato da richiami letterari e trattatistici. Vitruvio nel De Architectura (sec. I a. C.) cita la realizzazione di scene tragiche nell’antica Grecia e include la scaenographia (forse la veduta prospettica) come elemento del disegno architettonico assieme all’ichnographia (pianta) e all’ortographia (prospetto). Senza poter trarre da questi cenni dei riferimenti precisi, di fatto l’architettura greca introduce per prima dei canoni su basi matematiche e la rappresentazione prospettica risulta fondamentale nella progettazione.
L’elevato grado di approfondimento scientifico nello studio della visione è evidente nell’Optiké di Euclide (sec. III a. C.). Il famoso trattato contempla la determinazione in forma conica dei raggi visuali (anticipazione della piramide albertiana) e la dipendenza delle dimensioni degli oggetti dall’angolo visivo sotto cui sono osservati, due formulazioni che tengono conto della curvatura oculare. Quanto alle applicazioni pratiche, un segno eloquente sono i correttivi ottici adottati per bilanciare le deformazioni prospettiche delle architetture. Altri importanti indizi figurativi provengono dalla pittura parietale romana, riflesso sicuro della decorazione ellenistica. Gli esempi rimasti sono concentrati in massima parte nella zona di Pompei e contengono in alcuni casi dei sorprendenti sviluppi tridimensionali di strutture architettoniche.
I quattro stili della classica suddivisione cronologica sono meglio interpretabili come schemi decorativi che si distinguono per un trattamento sensibile dello spazio. Concorrono a ciò i due nuovi «algoritmi rappresentativi» isolati da Pierantoni (1981): la convergenza delle ortogonali in diversi punti di fuga (prospettiva multipla) e il passaggio da tinte cromatiche calde a fredde con l’aumentare della distanza (notazione di carattere ottico). La convergenza delle ortogonali in modo parallelo o variato su un asse simmetrico di fuga perpendicolare all’orizzonte (prospettiva «a spina di pesce», schema applicato al Medioevo) ha generato l’ipotesi di «prospettiva curvilinea» del Panofsky, basata inoltre sui contributi scientifici e operativi greci sopra ricordati e su una determinata interpretazione di Vitruvio (cfr. anche White sulla «prospettiva sintetica» usata dagli Antichi, 1957). Altri studiosi hanno anche preso in considerazione la conoscenza o meno di regole scientifiche del mondo greco-romano (Gioseffi, 1957; Vagnetti, 1979). Gli schemi prospettici in questione raggiungono dei vertici nella Villa di Boscoreale (60 a. C. ca.: Napoli, mn) e nella Villa dei Misteri di Pompei (metà sec. I a. C.), dove all’effetto di sfondamento della parete si aggiunge l’aggetto illusionistico di alcune scene. Da questi impianti si passa alla parete scandita con partizioni architettonico-geometriche e «falsi quadri» dipinti ad altezza d’uomo (Terzo stile detto «parete reale» ). Le vedute con paesaggi e architetture di Stabia (Villa di San Marco) pur non rivelando una particolare tecnica prospettica rendono l’idea di profondità e come apertura in direzione dell’esterno (la cornice funge da finestra) presuppongono una distanza per l’osservazione (Salvemini, 1990). I legami innegabili di tale decorazione pittorica con la pratica teatrale diventano emblematici nell’esplosione scenografica del Quarto stile. Il carattere effimero delle architetture e la minuziosità di ogni dettaglio decorativo sono lontani da un principio organizzativo d’insieme.
Medioevo
Nell’arte altomedievale si attua una rottura della spazialità prospettica aperta dal mondo classico. La figurazione bizantina privilegia le ricerche sulla superficie, nobilitata da materiali preziosi in un’accentuata schematizzazione. Cosí la simbologia prevale sul senso terreno delle cose secondo una concezione che dà all’atto visivo una pregnanza spirituale. Vengono meno gli interessi volumetrici e naturalistici con il risultato che le stesse elaborazioni architettoniche rientrano come partiti decorativi nell’economia della rappresentazione bidimensionale; si veda a tal proposito, l’immagine del Palazzo di Teodorico nel mosaico ravennate di Sant’Apollinare nuovo (500-25 ca.). Nella stessa chiesa la Teoria di sante (550-600 ca.) costituisce un episodio rilevante per la ripetizione degli elementi figurali, la paratassi di motivi compositivi che comporta la molteplicità dei punti di fuga. Alcuni indici di profondità, tra cui gli scorci, permangono nella pittura bizantina.
Vari episodi di prospettiva fugata e assonometria assolutamente privi di coordinazione si rintracciano nella pittura e nella miniatura di stile romanico sino al sec. XII. A volte sembra che si voglia colmare l’assenza di spazio tramite piccoli espedienti; nella miniatura che raffigura San Gregorio allo scrittoio della fine del sec. X (Treviri, sb), il piede destro del santo sporge dal basamento in primo piano quasi a indagare la sua possibilità di estensione. Sul versante scientifico spiccano i trattati sull’ottica di studiosi e filosofi arabi, importanti perché segnano la ripresa del pensiero greco.
Verso la fine del Duecento la pittura italiana di Cimabue e Pietro Cavallini comincia il distacco dalla linearità dell’icona bizantina nel recupero del senso plastico della figura, posizionata in prossimità delle architetture. Un passaggio imprescindibile per il raggiungimento della prospettiva razionale nei primi del Quattrocento si ha con Giotto, esemplificato
nei Coretti della Cappella degli Scrovegni (Padova, 1303-305), veri e propri incunaboli del trompe-l’oeil. Le capacità misuratorie e rappresentative di Giotto non vanno scisse dalla sua sicura competenza in architettura, inoltre il suo nome figura nelle vesti di agrimensore a Padova. Dalla sua fiorente bottega escono dei pittori (Maestro della Santa Cecilia, Maso di Banco) che ne ereditano il linguaggio «spazioso» (Longhi, 1952).
Un altro ambiente artistico emergente nelle indicazioni preprospettiche è quello senese, a cominciare dalle scatole architettoniche della Maestà di Duccio (faccia posteriore con Storie della passione di Cristo, 1308-11: Siena, Museo dell’Opera del Duomo) simili per tanti versi alle soluzioni giottesche di Assisi. Contributi piú rimarchevoli appaiono in diverse opere di Pietro Lorenzetti. Lo scomparto centrale della predella appartenente alla pala del Carmine (Consegna della regola dei carmelitani, 1329: Siena, pn) è un’unica scena che si sviluppa in tutta la lunghezza della tavola principale con la Madonna, una visione paesaggistica di grande respiro e decisamente all’avanguardia quanto a profondità spaziale. Del resto è proprio nelle predelle, le parti meno soggette a vincoli iconografici, che la pittura trecentesca concentra i tentativi di resa prospettica e realistica in genere. Pietro Lorenzetti realizza ancora una visione unificata nella Natività della Vergine (1335-42: Siena, Museo dell’Opera del Duomo); la divisione del trittico non interrompe lo spazio comunicante delle tavole centrale e laterale destra, per di piú le ortogonali convergono su un’area di fuga piuttosto ristretta. Il punto di fuga unico, fa la sua esplicita comparsa nell’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti datata 1344 (Siena, pn) che utilizza un metodo empirico di bottega, sicuramente non lontano da quello che descrive (come ancora in uso) Leon Battista Alberti nel De Pictura (1435). Ancora in pieno Trecento l’unificazione ambientale di Pietro Lorenzetti trova un eclatante sviluppo nella «complessità spaziale» degli affreschi di Matteo Giovannetti ad Avignone (Castelnuovo, 1991; Storie di san Giovanni Battista, 1347-48: Palazzo dei Papi).
Il Quattrocento.
Dalla prospettiva lineare alla prospettiva atmosferica
Alla luce di quanto osservato la prospettiva artificiale è l’esito del percorso già tracciato da sperimentazioni figurative concentrate in ambito toscano. Filippo Brunelleschi concepisce gli esperimenti risolutivi raffigurando il Battistero e Palazzo Vecchio, da punti di osservazione prefissati. Il valore delle tavolette perdute sta soprattutto nell’intento dimostrativo di una regola scientifica che guidi la rappresentazione dello spazio reale (Gombrich, 1966, trad, it. 1973). Il dispositivo della prima (il Battistero osservato dalla porta del Duomo) stabilisce la vista da un foro sul retro in corrispondenza del punto di fuga principale e attraverso il quale guardare la tavola riflessa in uno specchio, tenuto a distanza corretta. La visione risultante, che dovrebbe essere raffrontata a quella reale, fa capire quanto sia fondamentale la monocularità e la determinatezza del punto di vista. Nel 1435 il De Pictura di Alberti apporta una prima teorizzazione del metodo prospettico, la cosiddetta costruzione abbreviata in cui viene illustrato il principio della piramide ottica. Tramite l’adozione di «una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto» Alberti utilizza un metodo che consente la creazione di uno spazio completamente misurabile e riempibile a piacimento.
La prospettiva abbandona i confini strettamente ottici (perspectiva naturalis) per rispondere ai fini artistico-rappresentativi; il campo pittorico a cui si indirizza la codificazione albertiana conosce già nel 1422 una corretta costruzione a punto di fuga unico che trae partito dalle esperienze del Brunelleschi. Si tratta del trittico di San Giovenale a Cascia di Masaccio, seguito alcuni anni dopo dalla Trinità di Santa Maria Novella, il cui impianto architettonico è perfettamente calibrato in senso prospettico con l’impiego del punto di distanza. La tendenza a prescrivere un punto via via piú circoscritto per la ricezione visiva è meglio espressa nel complesso di affreschi che Masaccio esegue in collaborazione con Masolino (1425-27: Firenze, chiesa del Carmine, Cappella Brancacci). Le due scene che si affrontano sui due lati lunghi della cappella (il Tributo e la Storia di Tabita) presentano uno schema identico con punto di fuga (e quindi anche di vista) nella stessa posizione. Diversi elementi della prospettiva razionale trovano applicazione nelle opere di Beato Angelico, Filippo Lippi, Domenico Veneziano, senza tuttavia delineare un indirizzo comune. La linea Brunelleschi-Alberti raggiunge una sistemazione rigorosa nell’opera teorica di Piero della Francesca. Il De Prospettiva Pingendi (1475-80 ca.) è interamente dedicato alla prospettiva lineare, «necessaria» e struttura portante della pittura perché «discerne tucte le quantità proportionalmente commo vera scientia, dimostrando il degradare et acrescere de onni quantità per forza de linee». La costruzione dei singoli oggetti e persino della figura umana in modo geometrico si associa alla precisa determinazione della distanza di osservazione, cioè l’ordinamento di uno spazio al di quà del quadro dove è situato il punto di vista fisso. L’ideale geometrico
che Piero della Francesca riversa nell’arte pittorica è tutto racchiuso in opere come la Flagellazione di Urbino (1460 ca.: gn delle Marche) e la Sacra Conversazione di Brera (1472-74), emblemi della sua cultura prospettica.
All’influenza pierfrancescana nella corte urbinate dei Montefeltro sono state avvicinate le città ideali di Urbino, Baltimore e Berlino, scenografie vuote lucidamente definite dalla prospettivarazionale (sembra utilizzata la prospettiva bifocale), allo stesso modo delle vedute urbane che ricorrono nella copiosa produzione di tarsie lignee. Gli artigiani esecutori, menzionati «maestri di p», indirizzano una parte della loro pratica all’esecuzione di trompe-l’oeil e si servono spesso di disegni forniti da pittori e architetti. Le tangenze che si verificano tra pratiche di bottega e nuove regole scientifiche ridimensionano un presunto allineamento dei pittori alla norma albertiana (Klein, 1961; Chastel, 1980). La stessa costruzione legittima, lenta e a volte difficoltosa nell’applicazione, può aver indotto gli artisti a trame solo alcuni elementi così come i piú capaci hanno sondato differenti possibilità. Paolo Uccello utilizza a piú riprese la costruzione bifocale, un sistema empirico di bottega perfezionato in termini razionali nel rinascimento. La sinopia della Natività di San Martino alla Scala (Firenze) rivela la compresenza di tre punti di fuga, uno centrale e due laterali, il che comporta un «volgere lo sguardo» pur sempre mantenendo lo stesso punto di vista. La ricerca di una visione che tenga conto della naturale mobilità dell’occhio (e quindi antibrunelleschiana) entra così nella problematica prospettica del Quattrocento.
Un altro contrasto non risolto riguarda la rappresentazione simultanea di architettura e natura in forma di paesaggio. Laddove non arriva in soccorso la prospettiva lineare cominciano a porsi dei quesiti intorno a una prospettiva di colore (Leonardo; cfr. Chastel, 1980). Fuori d’Italia continuano a prevalere metodi empirici per la messa in p, ciononostante la pittura fiamminga crea uno spazio egualmente misurabile. La Madonna nella Chiesa di Jan van Eyck (Berlino, sm, gg) viene indicata da Panofsky come frammento di realtà, in virtù dello spazio che continua oltre il quadro e arriva a includere lo spettatore. Attraverso mirabili alternanze di interno-esterno, la prospettiva fiamminga si affida ai dati cromatici e luministici. Nel celeberrimo Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434: Londra, ng), van Eyck esplora lo spazio con diverse fonti di luce e con l’aiuto grandangolare di specchi convessi (la citazione è nel quadro stesso). Studi simili devono aver portato alle particolari prospettive curve di Jean Fouquet, per esempio nella scena dell’Annuncio alla Vergine (Libro d’ore di Etienne Chevalier, 1450 ca.: Chantilly, Museo Condé). Lo spazio minuziosamente descritto dei primi piani acquista poi profondità impressionanti tramite una «degradazione» (Piero della Francesca) che oltre le distanze coinvolge il colore e la nitidezza delle immagini. Il paesaggio atmosferico della Madonna del cancelliere Rolin (1435 ca.: Parigi, Louvre) sempre di van Eyck dimostra il completo dominio di questi effetti, largamente corteggiati dagli artisti italiani.
Spetta a Leonardo un’ampia riflessione teorica sull’astrazione albertiana, soprattutto sulle condizioni assolutamente non naturali di una visione monoculare e fissa. La p, «briglia e timone della pittura», è tripartita in «limale», «di colore» e «di spedizione» a seconda delle diminuzioni (di «quantità de’ corpi», «colori» e «notizia delle figure e de’ termini») che la vista riscontra con la distanza (Trattato della Pittura). Leonardo si avvicina ai fattori sensibili della percezione sottolineando gli effetti che completerebbero la visione prospettica. Nella considerazione del mezzo atmosferico, lo sfumato si presta a rendere l’indeterminatezza dei contorni causata dalla distanza. In questo aspetto è chiara l’influenza esercitata da Leonardo sulla pittura veneta del Cinquecento. Altri ragionamenti incentrati sulle deformazioni laterali cui va incontro la nostra visione conducono all’ideale proiezione su una sfera («sempre equidistante a l’occhio a uno modo»), peraltro rispondente alla forma sferica dell’occhio.
Cinquecento e Seicento.
L’uso specialistico della prospettiva
L’oculo a trompe-l’oeil dipinto da Mantegna nella Camera degli Sposi a Mantova (1465-74: Castel San Giorgio) inaugura per la prospettiva una lunga stagione fondata sul suo potenziale illusionistico. Accanto a una «via maestra» di sviluppo operativo, si pone la crescente diffusione delle regole che passa per le prime edizioni a stampa dei trattati. Un circuito europeo della prospettiva è assicurato dagli scritti di Viator e Dürer, mediatori dei precetti quattrocenteschi italiani. Il De artificiali perspectiva del Viator (Toul 1505) espone in massima parte l’impiego scientifico della prospettiva bifocale riflettendo una predilezione nordica per questo procedimento. La maggior attrattiva del trattato deriva però dalle numerose silografie concepite come repertorio a uso dei pittori; allo stesso modo le incisioni con cui Dürer illustra l’impiego di strumenti prospettografici sono il punto qualificante di una teoria che riprende sostanzialmente le costruzioni di Brunelleschi e Alberti (Underweysung der Messung, Norimberga 1525); anche il trattato di Vignola pubblicato postumo nel 1583 (Le due regole della prospettiva pratica, Roma) ripete con maggior chiarezza i metodi già conosciuti.
La via dell’illusionismo prospettico raggiunge una piena dimensione applicativa nell’ambiente artistico romano dei primi del sec. XVI e in particolare nella scuola di Raffaello. La Sala delle prospettive di Baldassarre Peruzzi, pittore e architetto del Palazzo Chigi (Roma, la «Farnesina», 1509) è una ripresa dello spirito decorativo classico. In seguito ad altri potenti esempi si afferma in tutta Europa la quadratura, decorazione pittorica di ambienti con architetture illusionistiche strutturate prospetticamente. Il gusto scenografico barocco arricchisce all’inverosimile queste macchine decorative assumendo una tecnica basata sulla molteplicità dei punti di fuga. Il libro sulla prospettiva dell’architetto Sebastiano Serlio (Libro Secondo, Di Prospettiva, Paris 1545) contiene una gran quantità di illustrazioni a conferma della fortuna di una «volgarizzazione» prospettica per immagini; nello stesso testo una parte riservata alla scenografia teatrale offre anche spunti compositivi alla pittura (Gould, 1962). Lo spazio è via via codificato ma non risulta insensibile a interpretazioni drammatiche. A tale scopo Tintoretto introduce un efficace decentramento della fuga (Il ritrovamento del corpo di san Marco, 1562-66: Milano, Brera).
La specializzazione insita nel manierismo fa sí che la prospettiva diventi genere pittorico, contraddistinto dalle amplificazioni architettoniche. L’architettura a misura d’uomo del rinascimento è ormai un ricordo lontano nelle vedute di fine Cinquecento di Vredeman de Vries, artista che interpreta la prospettiva in senso visionario. Van Mander (1604) descrive le sue grandi tele come dei saggi di illusione. Sempre nel clima culturale manierista si segnalano dei pittori interessati a esperimenti ottici, Parmigianino per esempio si rifà a esercizi fiamminghi del Quattrocento nel suo Autoritratto in uno specchio convesso (1524: Vienna, km).
L’artificio spinto a livelli massimi in campo prospettico produce le anamorfosi, immagini costruite secondo angoli visivi e punti di osservazione totalmente in contrasto con la visione naturale. Allo stesso tempo trasgressione e caso particolare della prospettiva (perché osservabile da un preciso punto di vista), l’anamorfosi cinquecentesca rientra come «licenza» manierista ed è ricavata in modo empirico. Dopo le anticipazioni leonardesche appare in pittura nel teschio in primo piano degli Ambasciatori di Holbein (1533: Londra, ng), ma il suo maggior dispiegamento si attua all’interno della grande teatralità barocca, dove grande peso ha la «provocazione intellettuale» nei confronti dello spettatore (Naitza, 1970). Le composizioni anamorfiche sono coinvolte nella generale matematizzazione seicentesca delle teorie prospettiche e sperimentalmente si affiancano anamorfosi cilindriche e coniche. Parallelamente la pittura di soffitti e volte cresce nella suggestione degli sfondati; a questo fine viene eliminata la convenzione prospettica del parallelismo delle verticali provocando un ulteriore effetto realistico. L’impiego sempre piú raffinato e virtuosistico della prospettiva comporta anche un livello altissimo di empirismo. Gli operatori del resto lavorano sulla base di schemi e molto spesso non hanno una preparazione geometrica (un trattato del tempo dovuto a G. Troili si intitola Paradossi per praticare la prospettiva senza saperla, Bologna 1672).
Contro la proliferazione dei punti di fuga si schiera alla fine del secolo Andrea Pozzo. Nell’affresco della chiesa romana di Sant’Ignazio (Glorificazione della Compagnia di Gesú, 1691-94) le deformazioni che l’ossatura prospettico architettonica incontra nella curvatura scompaiono in coincidenza della piccola porzione di spazio prevista per l’osservazione (indicata materialmente da un disco in marmo). Il ritorno al punto di vista unico consegna allo spettatore il privilegio di una perfetta illusione. (cga).
Oriente
Indipendentemente dalla sua qualità poetica e decorativa, la pittura orientale ha saputo mescolare con grande accortezza realismo intellettuale a realismo visuale sottilmente combinato con un certo tipo di p. Si ha infatti diritto di parlare di prospettiva nella pittura orientale, poiché talvolta gli artisti hanno utilizzato il fenomeno della diminuzione della dimensione in funzione della distanza, e d’altra parte si sono impegnati nella creazione, con l’ausilio in particolare di architetture e di oggetti di forma geometrica, di uno spazio tridimensionale.
Al di là delle differenze che distinguono le pitture orientali, e dell’evoluzione particolare di ciascuna di esse, è possibile individuare, nel preciso campo della p, alcuni caratteri generali che restano pressoché immutabili. Fin dal periodo Han, e in ogni caso a partire dal sec. XI della nostra era e lungo tutta la sua evoluzione, la pittura cinese si indirizzò in modo del tutto particolare verso l’evocazione della terza dimensione in modo talvolta simile all’arte occidentale. Non esiste il concetto geometrico dello sfondamento dello spazio, ma viene utilizzata quella che Leonardo chiamerà «prospettiva di rimpicciolimento». Effetti di lontananza sono osservabili ad esempio in molte scene di un rotolo del sec. XI che riprende probabilmente una composizione del sec. VIII riguardante il Viaggio dell’imperatore Minghouang verso Chou (Gu Gong). In un foglio d’album di Ma Lin (sec. XIII: ivi) che rappresenta l’attesa degli invitati al lume delle lanterne, alcuni treppiedi sono regolarmente disposti in modo da formare una sorta di viale leggermente «in fuga». La grandezza dei treppiedi sembra diminuire, mentre di fatto è soltanto l’ultimo della fila di quattro che è un poco piú piccolo degli altri. Si nota pure una piccola differenza di dimensione tra i personaggi a seconda della distanza. Tali esempi, malgrado tutto, sono piuttosto rari. Le pitture cinesi generalmente evitano di ridurre figure nettamente delimitate, anche quando accettano di farlo per gli elementi piú fluidi del paesaggio.
Queste osservazioni si applicano pure alla pittura giapponese, che ha subito in modo assai marcato l’influsso dell’arte cinese. Nella pittura buddista puramente giapponese (secoli IX-XIII), si trovano certe differenze di dimensioni nei personaggi, ma esse corrispondono all’importanza gerarchica delle divinità rappresentate. Quel che si può dire è che un rigore confrontabile a quello che imporrà, nella prospettiva classica, il punto di fuga principale si trova in un’opera come la celebre Apparizione di Amida dietro le montagne (sec. XIII: Kyoto, Zenrin-Ji), ove il dio, immenso al centro di un paesaggio montano, attira infallibilmente lo sguardo, mentre le altre divinità si scaglionano simmetricamente in ordine di grandezza decrescente fino alla parte bassa del quadro. In India, i maestri della scuola mogul giungeranno talvolta a combinare nelle loro miniature le tradizioni locali con l’influenza occidentale, di cui soprattutto accetteranno, per quanto attiene alla p, il fenomeno della diminuzione della dimensione dei personaggi o degli animali con la distanza. Adottato fin dalla seconda metà del sec. XVI, il procedimento viene impiegato sistematicamente, per esempio in una scena di caccia del Chah Djahan-Nameh (inizio del sec. XVIII), ove alcune cerve contribuiscono fortemente ad accentuare l’effetto di profondità prodotto dal paesaggio. Quando devono rappresentare architetture od oggetti di forma geometrica, come tavoli o panche, gli orientali impiegano quanto talvolta è chiamato «prospettiva rovesciata» non delimitata dallo schermo virtuale del quadro.
I pittori orientali hanno anche impiegato, soprattutto nelle architetture, l’assonometria obliqua, piú comunemente detta «prospettiva parallela», e che per gli occidentali si giustifica col respingere all’infinito il punto di fuga, cosí che si trova praticamente annullato l’effetto di fuga delle linee parallele allo sguardo. L’assenza dell’effetto di fuga basta peraltro talvolta a dare l’impressione che tali linee divergano. Grazie a sottili combinazioni di questo genere, la pittura persiana, in particolare, ha saputo creare spazi geometrici di sorprendente originalità. Esistono malgrado tutto alcuni casi, nella pittura orientale, in cui linee parallele allo sguardo vengono tradotte, quando la composizione lo esiga, con linee in fuga. Si tratta di solito di elementi situati al centro della scena. L’effetto di convergenza delle linee verso un punto di fuga, evidentemente indipendente da qualsiasi linea di orizzonte, è allora assai marcato. Cosi, in una miniatura ben nota della scuola dell’Himalaya, del sec. XVII, rappresentante una coppia in un parco (Parigi, Museo Guimet), si trova in primo piano una vasca che appare in questa forma. In una pittura del sec. IX proveniente da Touen-Houang (ivi), ove si sovrappongono due scene, in quella inferiore si scorge un tavolo i cui bordi laterali convergono molto nettamente verso la divinità.
Cina
La prospettiva cinese obbedisce a leggi radicalmente diverse da quelle occidentali in ragione di sollecitazioni materiali e piú ancora spirituali, se non metafisiche. Le sollecitazioni materiali sono dovute al piano d’appoggio del pittore e alla pratica della calligrafia. Infatti l’artista dipinge come scrive, fermamente seduto su un minuscolo cuscino, con le gambe incrociate o ripiegate, tenendo verticalmente il pennello, che egli anima con i movimenti del braccio e del corpo, svolgendo in piano il suo supporto di seta o di carta mano a mano che l’esecuzione procede; non farà dunque mai quel passo indietro che fa talvolta il pittore occidentale in relazione a quanto produce, strizzando l’occhio e allontanandosi per meglio cogliere l’insieme della composizione posta sul cavalletto. L’artista cinese respinge tale visione globale, e un dato importante della contemplazione di un rotolo in lunghezza, posto anch’esso su un tavolino basso, è che la distanza tra l’occhio dello spettatore e il suo oggetto è la medesima che è a suo tempo esistita tra il creatore e la sua opera. D’altro lato, la lettura delle calligrafie, ove i caratteri sono disposti in colonne, procura all’occhio cinese un’abitudine e una disinvoltura, altrove sconosciute, a cogliere gli assi verticali d’una composizione altrettanto bene delle dominanti orizzontali; di qui la presentazione dei rotoli in altezza, da sospendere, rettangolari e assai piú alti che larghi, che tanto spesso imbarazzano lo spettatore occidentale, ma nei quali lo spettatore cinese si muove senza difficoltà.
Le sollecitazioni metafisiche non sono meno importanti. L’artista cinese è infatti dominato dall’idea, dal sentimento d’una natura assoluta, infinitamente superiore all’uomo; da qui questi paesaggi monumentali ove la montagna è vista dal basso, posizione logica dell’«omuncolo» abbandonatosi alla meditazione taoista. Tuttavia la montagna non è data partendo dalle zone inferiori dell’opera, è visibile soltanto a partire da una determinata altezza del quadro, «linea d’orizzonte» cui l’occhio non giunge se non dopo aver percorso le zone inferiori della pittura, corsi d’acqua e sentieri sinuosi, vallate e colline ondulate, rive evanescenti o quasi impenetrabili foreste. Non è dunque possibile alcuna prospettiva geometrica, poiché essa raggelerebbe per sempre la contemplazione attiva del paesaggio.
Per queste caratteristiche la prospettiva cinese è definita dall’esistenza di numerosi piani successivi all’interno di una superficie a due dimensioni, nella quale la posizione dell’occhio non è mai determinata una volta per tutte, poiché lo sguardo non potrebbe fissarsi su un unico punto di fuga. Perciò le parallele, anziché essere convergenti come nella prospettiva scientifica occidentale, saranno apparentemente divergenti. Questa disposizione, questa prospettiva che potrebbe dirsi «in movimento», dinamica, è naturalmente avvertibile nel caso del rotolo da svolgere in lunghezza, che non viene mai veduto interamente, ma in successione. L’illusione della profondità è fornita dallo scaglionamento di orizzonti successivi e aggrovigliati, in orizzontale come in verticale, e grazie all’impiego di valori aerei. Tale prospettiva dinamica spiega anche il rifiuto cinese delle ombre e del modellato, che imporrebbero una direzione privilegiata e unica, e non potrebbero essere costruiti altro che in funzione di definizione spaziale tipica della prospettiva occidentale. Per le stesse ragioni l’artista cinese non fissa la sua composizione in funzione dei quattro lati della superficie pittorica: non pretende di offrire una veduta compiuta, ma un punto di partenza per una visione ancora piú ampia.
I teorici cinesi distinguono tre tipi di p. Nel tipo Chenyuan («distanza in profondità» ) lo spettatore è situato su un punto elevato e guarda verso il basso. Tale concezione è attribuita a Li Tch’eng e a Tong Yuan, ma deve certamente molto alle prime carte cinesi. Questo genere di veduta è quello che, spontaneamente, gli occidentali preferiscono, perché si avvicina di piú alla loro abitudine di sentire il paesaggio, innanzitutto, come panorama. Il secondo tipo, detto Kao-yuan («distanza in altezza»), corrisponde alla visione analizzata in precedenza, ma dal basso verso l’alto. La linea d’orizzonte principale è dunque relativamente bassa. L’ultimo tipo, detto P’ing-yuan («distanza uguagliata»), corrisponde a una composizione ove l’occhio può considerare le lontananze a partire dal basso del quadro. Questo tipo di costruzione è relativamente il piú vicino a quello che si trova in Occidente, perché l’orizzonte principale è di solito situato nel terzo inferiore della pittura.
Conviene rammentare che l’espressione «orizzonte principale» non deve far trascurare l’esistenza di orizzonti secondari altrettanto importanti. L’orizzonte principale è soltanto il livello a partire dal quale l’occhio può dar libero corso al suo cammino. Le composizioni cinesi si possono sicuramente abbracciare con un unico sguardo, come fa spontaneamente uno spettatore occidentale avvezzo a una visione globale, ma questo è un atteggiamento inaccettabile per lo spettatore cinese, che si aggira in una pittura come farebbe in un paesaggio reale.
Giappone
Questi diversi tipi di composizione si ritrovano nella pittura coreana e in quella giapponese. In quest’ultima esiste un procedimento prospettico particolare, detto «del tetto tolto» (yanenuki o fukinuki-yatai). Tale convenzione, nella quale le parallele convergono verso l’occhio dello spettatore, consiste nel mostrare l’interno delle case come se non vi fosse né tetto né soffitto. Diffusa all’epoca Heian, utilizzata nello Hokkekyo e soprattutto nelle illustrazioni di romanzi come il Genji Monogatari, consente di rappresentare simultaneamente, visti da molto lontano e dall’alto, i personaggi entro le case e nello stesso tempo l’angolo d’un giardino o un brano di natura, al fine di obbedire alla norma della corrispondenza degli
stati d’animo dei personaggi con l’ora o la stagione.