Gente in Aspromonte è un lungo racconto di ottanta pagine, la storia breve ed amara, quasi un grido di protesta, dei pastori dell’Aspromonte, ambientata per ovvie ragioni (la prima edizione reca la data del ’30) tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi di questo secolo, ma valida purtroppo per tutti i decenni che seguirono; la storia del pastore Argirò, che sogna la possibilità di uscire dall’abbiezione, e di portare almeno uno dei figli sino alla dignità degli studi. Il terremoto di Messina, che compare nello sfondo, è l’unico dato che ci permetta di situare questa storia in un’epoca; l’ambiente, le situazioni umane, i personaggi, sono ancora reperibili nella realtà della Calabria di oggi.
L’Argirò è pastore di Filippo Mezzatesta, padrone dei luoghi; suo figlio Antonello lo accompagna nei lunghi periodi dei pascoli alti. Un giorno la mandra precipita nel burrone; l’Argirò, malgrado domandi grazia al padrone, è cacciato in malo modo; è la sventura. Già guardando il palazzotto feudale il giovane Antonello sente di essere in mezzo a qualcosa di ingiusto, mentre, alla presenza del padrone, vedendo suo padre avanzare a capo chino, stare in piedi con le braccia ciondoloni, appoggiato alla porta come chi sia sul punto di scappare, matura i primi pensieri di ribellione. Argirò deve ricominciare da capo la sua vita. Si riprende col lavoro di mulattiere, e quando gli nasce un nuovo figlio, Benedetto, che è desto, vivace e intelligente, sogna di realizzare in lui l’antico desiderio di redenzione: «Perbacco » dice l’Argirò « ne farò un prete predicatore, e che parli per tutta la famiglia messa insieme… Bella riuscita che sarebbe per me, per noi tutti, che da casa nostra uscisse qualcuno che potesse parlare a voce alta, e li mettesse a posto».
Per mantenere Benedetto in seminario tutta la famiglia si sacrifica: Antonello, giovane ancora, va lontano a lavorare a ponti e a strade, e mandl tutto quel denaro che può. Tutto sembra avviato per il meglio, ma un giorno i figli di Filippo Mezzatesta bruciano la stalla di Argirò ed uccidono la mula: è la fine del sogno. Antonello, fu informato che il padre non avrebbe potuto per un pezzo provvedere al figliolo; che si stringesse la cintola d’un buco ancora e resistesse se non voleva far ridere i nemici. Antonello resiste per un po’. Ma la fame lo vince, si ammala, è costretto a tornare. Benedetto non può più restare in seminario, e torna a casa.
Guarito, Antonello non subisce più, i pensieri di giustizia maturati dalla fanciullezza reagiscono all’ingiustizia patita, e il giovane va sulle montagne, e diviene bandito: appicca il fuoco alle foreste dei Mezzatesta, fa strage delle loro mandre. Ma si ricordava dei più poveri del paese, con la memoria dell’infanzia. Si ricordava dell’Agata cieca, quella che andava mendicando, e le mandava un agnellino. Si ricordava di tutti.
I carabinieri lo cercano sui monti e lo scovano. Quando vide i berretti dei carabinieri e i moschetti puntati su di lui di dietro gli alberi, buttò il fucile e andò loro incontro. Finalmente, disse, potrò parlare con la giustizia, che ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio.