Angelo Beolco nacque a Padova a cavallo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, figlio naturale del medico Giovan Francesco. Le agiate condizioni economiche permisero al padre, discendente di una nobile famiglia di origine milanese, di tenere in casa Angelo e di provvedere alla sua educazione, che fu completa e varia) Beolco si impegnò come amministratore e uomo d’affari per conto dei fratelli prima e successivamente (dal 1529) per il proprio patrono Alvise Cornaro. Nel 1527 prese in moglie una fanciulla della famiglia Palatino. Autore di opere teatrali e attore (Ruzante era il suo nome d’arte), fin dai primi anni ’20 mise in piedi una compagnia con gli amici Marco Aurelio Alvarotto detto Menato, il Castagnola detto Bilora e Girolamo Zanetti detto Vezzo. Con loro gravitò nell’ambiente nobile e colto di Venezia (dove, tra le altre rappresentazioni in luoghi pubblici e privati, mise in scena una recita in onore di Federico Gonzaga), Ferrara (dove fu a corte tra il ’29 e il ’32), e Padova presso i Cornaro. Queste frequentazioni gli permisero di conoscere personaggi della levatura di Pietro Bembo e Sperone Speroni, e di accostarsi agli ambienti accademici patavini; mori nel 1542 mentre per conto dell’Accademia degli Infiammati curava l’allestimento della tragedia Canace, opera di Speroni. La sua produzione consta di drammi e dialoghi in dialetto padovano rustico:la prima commedia in versi, la Pastoral, risale al 1517-18, misto di farsa rusticale e favola pastorale, e di differenti piani linguistici – bergamasco, pavano e italiano -, mentre la prima commedia in prosa, La Moscheta, è del 1527-32 (ed. pr. 1551). Della sua produzione dialettale si ricordano anche la Betía (cosí modernamente titolata da Emilio Lovarini), risalente forse a metà degli anni ’20, in versi pavani e riecheggiante i moduli del “mariazo” (farsa d’argomento matrimoniale), ripresi anche per La Fiorina (1531, ed. pr. 1551); e la Bilora (altro titolo del Lovarini, ed. pr. 1551) scritta come i Dialoghi in lingua rustica: Parlamento di Ruzante che l’era vegnú de campo (ed. pr. 1551), nel difficile biennio ’28-’29, funestato dalla carestia. La produzione successiva al 1530, benché dialettale, presenta invece un impianto classicistico (le commedie La Piovana – 1532, ed. pr. 1548 – e La Vaccaria – 1533, ed. pr. 1551).
LA MOSCHETTA
Commedia in cinque brevi atti in prosa, scritta nel dialetto della sua città, dal padovano Angelo Beolco, detto il Ruzzante. Appartiene al gruppo delle commedie dialettali scritte nel decennio 1520-29, circa. La scena si svolge a Padova. Sopra Bettia, moglie di Ruzzante, hanno messo gli occhi il contadino Menato e un uomo d’armi bergamasco, Tonin. Per istigazione di Menato, Ruzzante, fingendosi un ricco forestiero, fa profferte d’amore alla moglie, per metterne alla prova la virtù. Bettia che sta per cedere, colta in fallo, si rifugia indispettita nella casa di Tonin; ed ecco Ruzzante, che rivuole la sua donna, a smaniare sotto le finestre del soldato, che non intende restituirgli la moglie se prima non gli abbia reso una certa somma, che gli aveva carpita e che Ruzzante trova modo di far pagare a Menato rientrando così in possesso della sua donna. È degli scritti più pregevoli del Ruzzante. Nella Moschetta come nella Fiorina e nei Dialoghi in lingua rustica, il Beolco ritrova pienamente il tono e il mondo della sua ispirazione: sono abbandonati i vecchi schemi della commedia plautina, e, invece, attraverso trame e casi semplicissimi, il poeta disegna con meravigliosa evidenza comica la psicologia dei contadini, furbi, miserabili, pronti a ogni transazione, amorali e sensuali: in tal modo esili ed eterne vicende d’amore e di vita contadinesca si sollevano a vere rappresentazioni artistiche. La lingua dialettale poi si attaglia mirabilmente alla spiritualità sommaria e plebea dei personaggi.