Il battesimo ufficiale dell’orfismo risale al Salon des Indépendants del 1913, quando alcuni critici riprendono questo termine, inventato da Apollinaire l’anno precedente in una conferenza, per definire quei dipinti che pur rientrando nell’ambito del cubismo, se ne distaccavano per quella forte sensibilità lirica alla luce e al colore, sconosciuta ai due grandi capostipiti del movimento, Braque e Picasso.
La definizione, assai vaga, era stata dunque creata, da un lato per risolvere la collocazione dell’opera di Delaunay, sostanzialmente basata sul colore, e dall’altro per riunire tutte le differenti forme di cubismo dissidente che stavano allora nascendo. Inizialmente Apollinaire si limitò a definire il lavoro di Delaunay «pittura pura», termine usato dallo stesso artista che sempre rifiutò la definizione o.
Di fatto il termine o compare per la prima volta in un articolo di Apollinaire intitolato Die Moderne Malerei, pubblicato nel febbraio del 1913 in «Der Sturm», in cui descrive due fra le più importanti tendenze pittoriche del momento, da un lato il cubismo di Picasso, dall’altro l’o di Delaunay; a questi due movimenti Apollinaire associa una serie di discepoli: Braque, Metzinger, Gleizes e Gris per il primo, e per il secondo, arbitrariamente, Leger, Picabia, Marcel Duchamp, Kandinsky, Marc e i futuristi italiani, aumentando così quella confusione che aveva tentato di dissipare.
Non solo, ma in una serie di articoli sempre del 1913, la lista riguardante l’o subisce numerose variazioni; in realtà il termine che era nato per designare la pittura di Delaunay finiva per essere applicato da Apollinaire a tutta l’avanguardia, tranne che al cubismo ortodosso, ossia quello di Picasso. Data la fama di Apollinaire, amico di tutti i pittori d’avanguardia e portavoce, quasi ufficiale, del gruppo cubista, numerosi critici iniziarono a parlare di o limitando tuttavia l’uso di questo termine alla pittura dell’artista per il quale era stato inventato e, di seguito, a quella di P. H. Bruce, suo autentico allievo, di Francis Picabia, di Fernand Leger e del ceco Kupka.
La confusione fra la poetica di Delaunay e quella di Kupka, sostanzialmente diverse, a causa di questo malinteso durò per moltissimi anni. In definitiva il vocabolo o non corrispose mai ad una reale tendenza unitaria, ma raggruppò, in modo più o meno arbitrario, un numero di personalità assai diverse, spesso addirittura opposte. Quanto al rapporto con i futuristi è emblematica la polemica violenta che oppose, nel 1913, i pittori italiani da una parte e Delaunay dall’altra, circa la priorità nell’invenzione e nella realizzazione dei principî del «dinamismo» e della «simultaneità» dei contrasti cromatici. È dell’aprile di quell’anno, su «Lacerba», l’articolo di Boccioni intitolato I futuristi plagiati in Francia, in cui Apollinaire e il cosiddetto o vengono sprezzantemente tacciati di plagio nei confronti del futurismo. Tra Delaunay e la cerchia del Balue Reiter, invece, si stabilì un proficuo scambio di esperienze, testimoniato anche dalla traduzione, da parte di Klee per la rivista (1913), dello scritto di Delaunay Sulla luce.