Le forme odierne del governare sono un’evoluzione del modello inglese parlamentare nato tra Seicento e Settecento e rese poi specifiche dalle singole vicende storiche. Mentre gli inglesi d’America reinterpretarono il modello della madre patria, dando luogo alla forma di governo presidenziale, nell’Europa continentale l’esperienza britannica si diffuse attraverso la mediazione delle sperimentazioni costituzionali francesi. Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento si assiste a una tendenza alla democratizzazione delle istituzioni e al passaggio dallo stato monoclasse a quello pluriclasse. Allo scopo di evitare le degenerazioni totalitarie di alcuni paesi, all’indomani della prima guerra mondiale, emerse l’esigenza di dare una formulazione giuridica e razionale alla forma di governo parlamentare.
Le forme di governo, l’abbiamo già visto, così come gli ordinamenti giuridici di cui sono parte, e come più in generale il diritto, sono fenomeni di natura sociale. E i fenomeni sociali sono in evoluzione costante e continua: lenta o lentissima, in certi casi (al punto da farli apparire immobili), accelerata o velocissima in altri casi (al punto da rendere difficile studiarli e descriverli prima che siano già cambiati). Hanno dunque una loro storia: ogni assetto di governo, nessuno escluso, prima di essere influenzato dai modelli coevi affermatesi in altri ordinamenti, o da quelli teorici elaborati dalla dottrina, è prima di tutto figlio di quelli che l’hanno preceduto, ed è a sua volta destinato a condizionare quelli che lo seguiranno.
Molto più di quanto non si sia portati a pensare le forme odierne del governare sono figlie di quelle del passato delle quali costituiscono l’evoluzione determinata dalle specifiche vicende storiche e dalle esperienze concrete di ciascun paese. Di più: essendo stati pochissimi i modelli originari, e, anzi, a ben vedere, potendoli in ultima analisi ricondurre tutti a uno solo, che si trovò a far da modello a tutti gli altri (quello inglese), è possibile ricostruire un vero e proprio albero genealogico delle varie forme di governo (vedi fig. 1).
Le origini del governo parlamentare in Inghilterra
È proprio in Inghilterra che a cavallo fra il ‘600 e il ‘700 si avviò, dopo la breve parentesi repubblicana di Oliver Cromwell, la Rivoluzione gloriosa contro la “minaccia papista” del re cattolico Giacomo II. Essa portò al progressivo superamento della monarchia assoluta (che pure veramente “assoluta” non era mai stata da nessuna parte e tanto meno nel Regno Unito) e alla definitiva affermazione della supremazia del parlamento. Le vicende politico-costituzionali inglesi di quel periodo consacrano il ruolo del parlamento come organo rappresentativo in grado di limitare ogni tendenza della monarchia all’esercizio arbitrario del potere e anzi lo affermano come implicita fonte di legittimazione della stessa dinastia (sono atti del parlamento a stabilire chi dovesse regnare). Si consolida così la tendenza a concepire i poteri dello stato come relativamente separati e, in particolare, l’idea che la sede della rappresentanza, soprattutto i Comuni (il parlamento era già da secoli diviso in Camera dei Lords e Camera dei Comuni), fossero il luogo dove si potessero far sentire interessi diversi e anche contrapposti rispetto a quelli rappresentati dalla Corona e dalla nobiltà fondiaria (che dominava la Camera dei Lords). Tali interessi erano riconducibili, piuttosto, alla nascente borghesia formata dagli abitanti delle città impegnati nel commercio, nelle professioni, nell’artigianato e poi nella stessa industria, classe portatrice di valori individualistici e mercantili nonché di mobilità sociale.
Il potere esecutivo era sempre del re che agiva attraverso i suoi ministri (il governo come tale, con una crescente autonomia rispetto alla Corona si sarebbe sviluppato solo in una fase successiva). Ma l’esercizio del potere, ferma restando l’assoluta irresponsabilità della Corona che manteneva comunque determinati poteri suoi propri (le cosiddette prerogative), era limitato dalla circostanza che doveva svolgersi (siamo in Inghilterra) non solo nel rispetto delle ultrasecolari leggi consuetudinarie costituenti la common law, ma anche nel rispetto della volontà del parlamento espressa attraverso atti legislativi i quali, del resto, per entrare a far parte dell’ordinamento avevano bisogno della sanzione regia, cioè del consenso del re. Per il resto, i ministri agivano in nome e per conto del re e solo al re rispondevano.
Il parlamento, però, disponeva da tempo di uno strumento che si sarebbe rivelato, proprio nel corso del ‘700, ricco di potenzialità, l’impeachement. Grazie ad esso il parlamento poteva mettere in stato d’accusa e privare del loro ufficio i funzionari del re che si fossero macchiati di qualche reato o avessero compiuto malversazioni nei confronti dei sudditi di sua maestà. Nato come strumento giurisdizionale, l’impeachement comincia a essere utilizzato per far valere una responsabilità non solo penale o prevalentemente penale ma, al contrario, essenzialmente politica, nei confronti dei ministri del re sgraditi agli organi della rappresentanza. Dopo qualche resistenza regia, la sola minaccia del ricorso alla messa in stato d’accusa diventa sufficiente a indurre il re, in una prima fase, a sostituire i ministri malvisti, poi, preventivamente, a scegliersi collaboratori presumibilmente graditi al parlamento e, quindi, prima di tutto, parlamentari. È questa la genesi di quello che poi si sarebbe chiamato rapporto fiduciario, l’istituto chiave del parlamentarismo in ragione del quale chi governa deve farlo col consenso dell’assemblea (o delle assemblee, se son più d’una) rappresentativa.
Sempre nel corso del ‘700, si manifestano altre due tendenze: la prima dipende dal fatto che la salita al trono di una dinastia di madrelingua tedesca (Sofia “elettrice” di Hannover, e i suoi eredi, i più prossimi successori protestanti degli Stuart, chiamati dal parlamento con l’Act of Settlement del 1701) contribuisce a favorire il progressivo distacco del consiglio dei ministri rispetto a un sovrano che rinuncia a presiederne le riunioni e sceglie, fra gli altri, un ministro che lo faccia in sua vece, gli riferisca e lo rappresenti. Per molti decenni questo fu il Lord Tesoriere che aveva il controllo della finanza pubblica. Nasce così la figura del primo ministro, che si rafforza grazie ad alcuni grandi protagonisti (Sir Robert Walpole, William Pitt, Sir Robert Peel, col quale siamo ormai in pieno ‘800) e, in secondo luogo, si sviluppa una certa autonomia del governo (che però giuridicamente era e restava, il governo di sua maestà).
La seconda tendenza che si consoliderà soprattutto nell’800, favorita da una serie di modifiche alla legislazione elettorale (a partire dal 1832), è quella della Camera dei Comuni a dividersi in due parti o fazioni: coloro i quali sostengono il governo e coloro che lo avversano. Essi si fronteggiano anche fisicamente, grazie alla non casuale disposizione dei seggi ai Comuni, che non sono disposti a semicerchio, bensì in due serie di file contrapposte. Se si uniscono questi diversi elementi – progressivo distacco dei ministri dalla Corona, emersione della figura del premier, instaurazione progressiva del rapporto fiduciario, camera bassa sostanzialmente divisa in due parti (bipartitica o almeno bipolare diremmo oggi), con i famosi whigs, progenitori dei futuri liberali da un lato, e i tories, progenitori dei futuri conservatori, dall’altro –, si possono comprendere le origini della forma di governo parlamentare e anche alcune sue caratteristiche iniziali. Esse sono sostanzialmente una notevole dose di dualismo (connaturata con un potere esecutivo regio che comincia a rispondere anche al parlamento) e la crescente influenza del parlamento sul governo.
Se non che, per la sfortuna di studiosi e imitatori stranieri, gli inglesi di tutto si sono preoccupati nei tre secoli che ci separano dall’inizio del ‘700 a oggi, tranne che di buttar giù in testi scritti le regole del loro modo di governarsi. Non ne avevano e non ne hanno mai avuto bisogno, essendo diversa la loro antica tradizione giuridica fondata su consuetudini (cioè leggi non scritte che si affermano nell’ordinamento per il semplice fatto che, nel tempo, tutti si comportano in un certo modo perché convinti che così si debba fare), secondo lo spirito di una società capace di evolvere progressivamente, quasi impercettibilmente, verso il nuovo senza mai ripartire da zero (come fecero invece i francesi con la Rivoluzione, per esempio). Sicché, quanti nel corso dell’ultimo paio di secoli hanno ritenuto opportuno ispirarsi al modo di governarsi degli inglesi, cioè tutti, hanno finito coi trovarsi consapevolmente, e spesso, del tutto inconsapevolmente, in difficoltà.
Infatti, le forme del governare rispondono, per definizione, ciascuna alla propria storia e sono difficilissime da riprodurre in vitro altrove: e lo sono tanto più quando il modello di riferimento è interamente basato sugli effettivi comportamenti dei soggetti del sistema politico istituzionale e non su regole codificate, in altre parole, le forme di governo non si possono clonare.
Le origini del governo presidenziale negli Stati Uniti
I primi a equivocare clamorosamente furono gli americani. Nella seconda metà del ‘700 essi furono protagonisti di una rivoluzione costituzionale, così chiamata perché condotta in nome del principio costituzionale inglese del no taxation without representation. Oggetto del contendere, in connessione con interessi commerciali sempre più divergenti, erano le tasse che la madrepatria pretendeva di imporre ai propri cittadini delle colonie senza che essi potessero dare il loro consenso dal momento che non eleggevano propri rappresentanti a Westminster. Il contrasto si acuisce fino a sfociare nella Dichiarazione di indipendenza (1776) e nella firma di un patto confederale fra le ex colonie (una sorta di costituzione chiamata Articoli di confederazione). Questo assetto si rivelò presto inadeguato a fronteggiare la guerra con l’Inghilterra, sicché i delegati dei tredici stati si riunirono in Convenzione a Filadelfia (1787) per riformare il sistema di governo unitario che si erano dati, in modo da poter resistere ai pericoli esterni e superare i dissidi interni. I costituenti di Filadelfia – si era alla vigilia della Rivoluzione francese – ritennero con la loro costituzione di riprodurre l’organizzazione del potere dell’ex madrepatria. Si trattava della prima costituzione scritta, se si eccettuano le carte delle singole colonie: dunque il primo grande tentativo di disciplinare in formule giuridiche scritte il modo come un popolo intendeva governarsi o, meglio, farsi governare.
Non avevano né potevano darsi un re e decisero di eleggersene uno a tempo. Non volevano “lottizzazioni” territoriali e perciò vollero un capo dello stato non collegiale ma monocratico, costituito cioè da un’unica persona. Non erano “democratici” nel senso che si dà oggi al termine e avevano in grande antipatia la legge dei numeri e ogni assemblearismo. Fondamentalmente antimaggioritari, come molti liberali, temevano che la tirannide della maggioranza avrebbe portato a chissà quali degenerazioni e soprattutto che venissero toccate le libertà del cittadino a partire dal diritto di proprietà, come avrebbe spiegato Alexis de Tocqueville qualche decennio dopo. Vollero quindi un capo dello stato repubblicano scelto attraverso la mediazione di “grandi elettori”. Immaginavano che in Inghilterra il governo fosse rimasto (non solo formalmente) il governo di sua maestà e che vi imperasse quella separazione dei poteri così ben descritta dal francese barone di Montesquieu i cui scritti essi conoscevano (anche se le cose in Inghilterra non stavano più così). Delinearono allora un meccanismo in cui la titolarità del potere esecutivo fosse tutta intera del presidente, con ministri operanti in suo nome e responsabili solo davanti a lui, e il legislativo tutto del Congresso in un regime di separazione dei poteri tendenzialmente rigido, in cui l’unico strumento a disposizione delle assemblee rappresentative per liberarsi del presidente (come degli altri pubblici funzionari) fosse l’impeachement (senza rendersi conto che l’utilizzo di esso aveva ormai modificato indelebilmente la forma di governo inglese). Al presidente riconobbero le principali prerogative regie; in materia legislativa sostituirono la sanzione con il potere di veto sospensivo presidenziale sulle leggi approvate dal Congresso (superabile con maggioranza qualificata). Coniugarono il tutto con un meccanismo di riparto del potere così nuovo che non se n’era visto prima esempio al mondo: la sovranità statuale lungi dall’esser unitaria era ripartita sul territorio fra singoli stati e Stati Uniti. A garanzia di ciò istituirono una seconda camera in rappresentanza paritaria delle tredici ex colonie (due senatori l’una, che si trattasse della grande Virginia o del minuscolo New Hampshire) con il compito, fra l’altro, di controllare le nomine fatte dall’esecutivo (cioè dal presidente). Istituirono anche un’apposita Corte suprema che tutelasse i diritti dei singoli stati; e, infine, previdero che la costituzione potesse essere modificata solo mediante uno speciale procedimento tale da coinvolgere i singoli stati in quanto richiedeva il consenso di tre quarti di essi. Coerentemente avevano disposto che la nuova carta sarebbe entrata in vigore quando l’avessero ratificata 9 stati sui 13 che a Filadelfia l’avevano firmata.
Così, mentre l’Inghilterra era ormai nettamente avviata verso un modo di governarsi destinato a costituire il modello della forma di governo parlamentare, gli Stati Uniti ispirandosi a ciò che in Inghilterra non c’era più, si avviavano verso un modo di governarsi destinato a costituire il modello alternativo a quello parlamentare, e cioè la forma di governo presidenziale fondata su due poteri, esecutivo e legislativo, entrambi legittimati dal popolo, ma separati: sicché l’uno non può, per il tempo stabilito dalla costituzione, liberarsi dell’altro. Questo era esattamente ciò che accadeva in Inghilterra prima che l’impeachment diventasse occasione per far valere una responsabilità politica piuttosto che penale, cioè prima che si trasformasse nell’istituto alle origini del rapporto fiduciario.
Il governo tra re e parlamento nel continente europeo
A cavallo fra ‘700 e ‘800, sulla scena ancora quasi vuota delle forme di governo irrompe un protagonista che la influenzerà per quasi centosettant’anni, dando vita a una vera e propria epopea del costituzionalismo moderno. Parliamo della Francia che si libera d’un colpo dell’ancien régime per via rivoluzionaria, attraverso un terremoto sociale, politico e dunque istituzionale, le cui scosse di assestamento continueranno novant’anni. Non meno tempo occorrerà, infatti, perché, con la Terza repubblica (1875-1940), il paese possa darsi ordinamenti dotati di relativa stabilità.
La Francia, infatti, conosce in successione serrata: una monarchia costituzionale in regime di separazione dei poteri nel 1791, una serie di costituzioni repubblicane, a partire dal 21-22 settembre 1792 (data del decreto che abolì la monarchia e segnò l’inizio della Prima repubblica), fino alla proclamazione del primo Impero (quello di Napoleone Bonaparte), il 18 maggio 1804. Nella prima fase fu governo diretto d’assemblea, poi governo direttoriale, infine consolato; poi ancora, con la Restaurazione, due costituzioni monarchiche (quelle del 1814 e del 1830), seguite da una Seconda repubblica con capo dello stato elettivo, d’impianto presidenziale (1848-1851) e dal secondo Impero (quello di Napoleone III, dal 1852 alla sconfitta di Sedan nel 1870). Non si può qui descrivere in dettaglio ciascuno di questi diversi assetti: ma il lettore può crederci se affermiamo che vi si rintracciano tutte le possibili e immaginabili combinazioni in materia di rapporti fra organi costituzionali (ferma e indiscussa restava solo la continuità dello stato unitario, anzi accentrato).
Non c’è da sorprendersi, perciò, se a questo vero e proprio supermarket delle architetture e delle sperimentazioni costituzionali tutti in Europa, eccezion fatta, ovviamente, per gli inglesi, abbiano attinto a piene mani, spesso senza rendersene conto. Occorrerà attendere fino al periodo dopo la prima guerra mondiale perché contributi altrettanto influenti alla tecnologia costituzionale giungano anche da altre parti. D’altra parte, l’impatto del costituzionalismo francese non poteva che essere grande. Vi concorsero le rivoluzioni giacobine e le conquiste napoleoniche (si pensi proprio al caso italiano: da noi le prime carte costituzionali sono di pura e semplice importazione francese); vi avrebbero concorso le esperienze rivoluzionarie parigine del 1848 e 1870, mentre l’esperienza americana appariva lontana e troppo particolare, e quella britannica non era codificata: sicché molti paesi finirono con l’imitarla attraverso la mediazione dei modelli francesi ad essa in parte ispirati.
Le due Costituzioni monarchiche francesi della Restaurazione (quella del 1814 e quella del 1830) furono infatti il principale, se non l’unico, veicolo di penetrazione nell’Europa continentale del modello di governarsi già affermatosi in Inghilterra: ad esse si sarebbero ispirate, fra le altre, la Costituzione belga del 1831 e lo Statuto albertino del 1848. I Borboni, che avevano trascorso gran parte dell’esilio a Londra (l’Inghilterra era stata la grande e decisiva nemica di Napoleone Bonaparte e l’aveva sconfitto), al loro rientro a Parigi accordarono una carta, definita appunto “ottriata” (octroié), cioè elargita dal sovrano come atto unilaterale, ispirata alla forma giuridica del modello inglese. Essa prevedeva, da un lato, un parlamento bicamerale con una Camera dei Pari di nomina regia, assai simile alla Camera dei Lords, e una Camera dei Deputati eletta a suffragio molto ristretto, titolare, insieme al re, della funzione legislativa (ma l’iniziativa era in mano al solo sovrano, titolare anche del potere di sanzione); dall’altro, un esecutivo di cui unico titolare era sempre il re che agiva attraverso suoi ministri che potevano essere membri delle camere e che alle camere rispondevano solo in caso di tradimento o concussione (con un meccanismo ispirato all’impeachment). Lo schema era quello che la dottrina considera tipico della monarchia costituzionale, la forma iniziale dello stato non più assoluto, quando ancora l’assemblea rappresentativa non aveva potuto affermare il principio della responsabilità politica (non penale) dell’esecutivo nei propri confronti attraverso l’instaurazione del rapporto fiduciario. Si trattava di un equilibrio costituzionale che rispondeva a una fase dello sviluppo sociale in cui era ancora apertissimo il conflitto fra principio legittimista, di cui espressione era il re (il quale, quindi, aveva in pugno l’esecutivo e cercava di mantenere il controllo degli altri poteri, in particolare del legislativo nell’ambito del quale s’era assicurato il controllo pieno di una camera, quella appunto di nomina regia) e principio rappresentativo, espressione del quale era la sola Camera dei Deputati, dov’erano presenti gli interessi della nazione (cioè dell’alta borghesia).
Per quanto ristretto fosse il suffragio (si sarebbe lievemente allargato solo negli anni ’30 dell’800), la Camera dei Deputati rappresentava pur sempre interessi diversi – rispetto a quelli di cui interprete era il binomio Re-Camera dei Pari – e in senso lato “liberali”. Essa utilizzando gli strumenti istituzionali esistenti e piegandoli ai suoi fini riuscì progressivamente a far valere un inizio di responsabilità politica dei ministri di sua maestà davanti a se stessa. Questa tendenza si accentuò dopo la rivolta borghese del luglio 1830 contro l’ormai non più tollerabile limitazione dell’elettorato. Essa portò al potere Luigi Filippo d’Orléans che si era fatto portavoce del movimento a favore di una rappresentanza più larga (Philippe egalíté si fece chiamare). La nuova costituzione era solo un parziale aggiornamento della carta del 1814, ma si presentava ugualmente come una costituzione non più elargita. Non poggiava più infatti sul principio di legittimità, bensì su quello di sovranità nazionale, e si combinava appunto con un certo allargamento del suffragio (l’accesso alla camera non veniva più limitato all’altissima borghesia). Inoltre venivano limitati i poteri del re, sicché nel mutato clima politico e sociale di cui essa fu espressione i governi si ritrovarono legati a una sorta di doppia responsabilità, da un lato nei confronti del sovrano al quale formalmente il potere esecutivo continuava ad appartenere, dall’altro nei confronti della camera bassa.
Fu in questi anni che Benjamin Constant (il teorico della distinzione fra democrazia degli antichi e democrazia dei moderni e della superiorità della rappresentanza contro ogni tentazione di più diretta partecipazione all’esercizio del potere da parte dei cittadini) delineò nelle sue opere e nelle sue prese di posizione parlamentari una figura di monarca “potere intermediario”, ovvero “potere neutro”, partecipe con discrezione e non in prima persona della funzione di indirizzo politico, prevalentemente ma non esclusivamente affidata al raccordo esecutivo-legislativo. Ma restava fermo che il trono, lungi dall’essere una “poltrona vuota” (come ebbe a dire con frase celebre un primo ministro dell’epoca, il Guizot), continuava a rappresentare il punto di riferimento unitario, vero e proprio emblema dell’unità dell’ordinamento, pronto a intervenire attivamente ogni qual volta ciò si fosse rivelato utile e necessario. Del resto questo re manteneva competenze dirette in materie quali la difesa e la politica estera, riguardo alle quali le esigenze unitarie dovevano prevalere e gli interessi supremi e permanenti della nazione dovevano necessariamente imporsi: di essi il re era ancora l’interprete più adatto, adesso non più per investitura divina, bensì per volontà della nazione.
Si trattò perciò di una forma di governo fondata su un equilibrio difficile e precario. Essa sarebbe stata considerata, a posteriori, una specie di fase di transizione dalla monarchia costituzionale, che non contemplava il rapporto fiduciario (vedi fig. 2) alla vera e propria monarchia parlamentare, che prevedeva invece il rapporto fiduciario governo-parlamento con il capo dello stato monarchico sempre più emarginato. È un modello, quest’ultimo ben vivo tutt’oggi in Europa: si pensi a paesi come Spagna, Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca, Norvegia (a parte ovviamente il prototipo inglese, vedi fig. 4). Questa fase di transizione è stata chiamata monarchia orleanista (appunto dal nome del sovrano francese fra il 1830 e il 1848, Luigi Filippo d’Orléans, vedi fig. 3) o anche parlamentarismo orleanista (con riferimento alle successive versioni con capo dello stato repubblicano). Si tratta di una forma di governo che si caratterizzava, dunque, per il suo assetto dualista (duplice responsabilità del governo verso assemblea e sovrano), secondo lo schema dei “tre organi (capo dello stato, governo, parlamento) e due poteri (esecutivo e legislativo)”.
Mentre il fatidico 1848 esplodeva in tutt’Europa all’insegna della richiesta di costituzione (intendendosi con ciò rivendicare non solo e non tanto un qualsiasi assetto formalizzato in un documento scritto che lo garantisse, ma una specifica organizzazione del potere che limitasse le prerogative regie e tutelasse i diritti di libertà dei sudditi), a Parigi la rivoluzione vide per la prima volta la partecipazione delle avanguardie del quarto stato, che accanto ai diritti politici reclamavano anche quelli economici e sociali (lavoro e assistenza). Ma gli eccessi rivoluzionari della Comune consentirono rapidamente alla borghesia di riprendere il controllo della situazione, il che si realizzò provvisoriamente in forma repubblicana.
Furono quattro anni importanti per la Francia. La Costituzione del 4 novembre 1848, alla stesura della quale contribuì Alexis de Tocqueville, uno dei grandi maestri del pensiero politico liberale, al tempo ministro, costituì un raro e pressoché isolato tentativo di adattare a un paese europeo il modello americano che proprio Tocqueville aveva studiato nella sua opera più famosa, La democrazia in America. Al di là dei pur interessanti aspetti specifici, questa costituzione si distingueva per tre novità. La prima era costituita dall’introduzione del suffragio universale diretto maschile – era la prima volta che ciò si verificava e la Francia non tornerà più indietro – mentre la seconda era data dall’attribuzione del potere esecutivo a un presidente eletto dal popolo, così come l’assemblea nazionale; la terza, infine, prevedeva l’introduzione di una vistosa serie di regole volte a riequilibrare il ruolo presidenziale. Per esempio, i ministri rispondevano al capo dello stato e ne controfirmavano gli atti, assumendosene la responsabilità, mentre il presidente non poteva sciogliere l’assemblea e non poteva essere rieletto. La controfirma, come nella monarchia costituzionale, non significava che la competenza dell’atto controfirmato non era del presidente, ma che egli non doveva ritenersene politicamente responsabile: delle sue scelte avrebbero risposto in parlamento i suoi ministri che, come si diceva, lo “coprivano”.
Ma nelle elezioni per l’assemblea nazionale, che seguirono l’elezione trionfale di Luigi Napoleone alla presidenza, si affermò una forte maggioranza monarchica, fautrice della restaurazione monarchica e divisa fra sostenitori del ramo Borboni e sostenitori del ramo Orléans. Ciò complicò le cose ed esaltò le contraddizioni dell’assetto della Seconda repubblica. Insorse un conflitto insanabile fra il presidente e la maggioranza dell’assemblea che si precipitò a varare una nuova legge elettorale volta a limitare il diritto di voto. La prova di forza durò un anno e mezzo e culminò col colpo di stato del 2 dicembre 1851. Luigi Napoleone ristabilì il suffragio universale e indisse un plebiscito che lo vide di nuovo trionfatore. Ne sortì poche settimane dopo una nuova Costituzione che prevedeva un presidente della repubblica di durata decennale direttamente responsabile davanti al popolo (gennaio 1852). Dieci mesi più tardi, un ulteriore plebiscito ristabiliva l’Impero e Luigi Napoleone assumeva il titolo di Napoleone III.
L’importanza di questa vicenda sta nel fatto che ne derivò la durevole compromissione, in Francia, dell’elezione diretta del capo dello stato: non solo essa non si riproporrà per quasi 110 anni, ma la semplice ipotesi verrà sempre associata a concezioni intrinsecamente autoritarie. È da allora, anche grazie a un acuto saggio scritto per l’occasione da Karl Marx, che il timore della cosiddetta “deriva plebiscitaria” (ovvero delle conseguenze autoritarie di manifestazioni di consenso popolare promosse dall’alto), spesso indebitamente attribuita a qualsiasi forma di investitura popolare diretta di cariche monocratiche, entra a far parte del patrimonio genetico delle forze d’ispirazione democratica e progressista, in Francia e in tutta Europa.
Ulteriore decisivo tornante della storia costituzionale francese è quello del ventennio successivo. Finito l’Impero nell’umiliazione della sconfitta di Sedan (1870) ad opera della Germania guglielmina di Bismarck, fu compito della repubblica pagare i debiti di guerra, difendere per quanto possibile il territorio nazionale e salvare la dignità del paese. Ancora una volta, dopo le vicende rivoluzionarie della nuova Comune, durata anch’essa pochi mesi, il suffragio universale portò le forze moderate e monarchiche a prevalere in assemblea nazionale. Come vent’anni prima, i monarchici però si divisero. Così, quando si trattò di riorganizzare le istituzioni politiche, prevalse, a titolo provvisorio, lo status quo repubblicano. Gli orleanisti, del resto, erano disposti ad attendere: il Borbone pretendente, conte di Chambord, non aveva figli, e alla sua morte erede sarebbe comunque stato il conte di Parigi della famiglia degli Orléans.
Il governo parlamentare fra assetti dualisti e assetti monisti
L’equilibrio fra i poteri sancito dalle leggi costituzionali del 1875 (non una vera costituzione organica, stavolta) dovette dunque tenere conto delle pretese dei monarchici che coltivavano la speranza di una restaurazione prossima ventura. Sicché l’impianto fu impostato secondo il modello del parlamentarismo dualista: un parlamento bicamerale con un senato, espressione della Francia rurale a garanzia degli interessi conservatori; un presidente eletto dalle due camere in seduta comune con durata di ben sette anni; il potere di scioglimento affidato al presidente previo parere del senato. In sintesi: il presidente era irresponsabile come un re; aveva il diritto di sciogliere la Camera dei Deputati come un re; aveva il potere di grazia come un re; comandava le forze armate come un re; poteva convocare e aggiornare le camere come un re; aveva l’iniziativa delle leggi come molti re non avevano: “un re senza l’ereditarietà”, fu detto. Il sistema elettorale era uninominale maggioritario a doppio turno, ma, sulla base di intese collegio per collegio, era permesso presentare nuovi candidati in vista del secondo turno, al quale tutti potevano accedere. Il ballottaggio poteva così avvenire non solo tra i candidati che avevano ottenuto il maggior numero di voti al primo turno, ma anche fra candidati nuovi. Il meccanismo favorì a tal punto la frammentazione partitica da essere considerato a lungo, come nell’Italia liberale, fra le principali ragioni della cronica mancanza di una solida maggioranza parlamentare, e dunque di ingovernabilità.
A tale ingovernabilità concorsero le vicende della presidenza MacMahon le quali alterarono l’assetto delineato e ne mutarono la natura. Il presidente (filomonarchico) MacMahon sciolse nel 1877 la camera a prevalenza repubblicana eletta nel febbraio 1876, dopo aver invano cercato di imporle il proprio indirizzo politico conservatore, interpretato dal governo del duca di Broglie, ma perse le elezioni. Secondo la formula che il socialista Gambetta aveva enunciato – “o sottomettersi [alla volontà della camera] o dimettersi” – prima si sottomise, nominando governi conformi alla volontà della maggioranza e abbandonando la pretesa di perseguire un indirizzo proprio, poi, 15 mesi dopo, si dimise. Venne eletto presidente Jules Grévy, gran teorico della prevalenza del parlamento che già nel 1848 si era battuto contro il rafforzamento del ruolo presidenziale previsto dalla Costituzione della Seconda repubblica: parlando davanti al parlamento egli s’impegnò solennemente a non sfidare mai la volontà delle camere. Da allora in poi, per i successivi 63 anni nessuno dei presidenti della Terza repubblica francese osò più sciogliere la camera. La dottrina avrebbe parlato di governo d’assemblea o di forma di governo parlamentare a tendenza assembleare: quella forma di governo nella quale, cioè, il governo è in balia dell’assemblea rappresentativa e delle mutevoli maggioranze che in essa si coagulano, senza avere un proprio indirizzo.
Certo è che il ruolo presidenziale ne risultò compromesso e definitivamente indebolito. La nascita e la morte dei governi divenne prerogativa della camera e dei partiti che in essa si erano andati organizzando (molti e divisi fra loro, grazie al sistema elettorale del quale si è detto). Sicché gli assalti alla diligenza furono una costante, la durata media dei governi fu ridottissima, gli esecutivi, privati del sostegno efficace di una qualsiasi compatta maggioranza parlamentare, ricorsero sempre più frequentemente alla decretazione d’urgenza e si delineò, nel complesso, una forma “degenerata” di parlamentarismo rimasta a lungo un sorta di modello negativo da non imitare, e, per gli stessi francesi, un assetto da riformare. in altri termini il parlamentarismo dualista si trasformò in parlamentarismo monista: nel senso che l’indirizzo politico rispondeva solo al circuito governo-camera, mentre i capi dello stato non rinunciavano a interferire, ma lo facevano senza apparire e senza assumersi responsabilità alcuna.
Al tempo in cui in Francia si sviluppava questa torsione assembleare del parlamentarismo, il parlamentarismo inglese si era già orientato, a sua volta, in senso nettamente monista. Solo che nel Regno Unito – come Walter Bagehot, giornalista e direttore dell’”Economist”, ma anche finissimo e geniale interprete dei meccanismi politico-istituzionali dei suo paese, aveva descritto nella sua celebre opera La Costituzione inglese – il monismo si era sviluppato a tutto vantaggio del governo e del suo leader tanto che, come si è visto, lo si chiamò governo di gabinetto. Sembrava trovare conferma la tesi secondo la quale gli assetti dualisti dovevano ritenersi transitori, destinati a risolversi in direzione dell’uno o dell’altro dei due poli: prevalenza dell’esecutivo oppure del legislativo; prevalenza del binomio re-governo oppure della camera bassa. Come vedremo, non sarà affatto così. L’impostazione dualista avrà seguito per vari decenni e conoscerà anzi una riscoperta in anni a noi vicini.
Tornando al diverso, si può dire opposto, orientamento assunto dal parlamentarismo in Gran Bretagna e in Francia, si può qui aggiungere che la versione inglese era destinata a rendere più facile il governo degli interessi collettivi. Essa assicurava, grazie al consolidarsi del bipartitismo, esecutivi guidati da premier forti del sostegno compatto del partito di maggioranza in parlamento, del quale erano al tempo stesso espressione e leader, mentre la versione francese avrebbe portato a fare della Terza repubblica l’esempio per antonomasia di ordinamento poco stabile e non governato. Ma naturalmente sarebbe superficiale trascurare le caratteristiche della società inglese, alla base del suo sviluppo politico istituzionale. Non a caso proprio Walter Bagehot riteneva che il governo di gabinetto fosse stato possibile in Inghilterra grazie al fatto che gli inglesi erano, come scriveva, un “popolo deferente”, cioè disposto a “lasciarsi governare”, rispettoso dell’autorità e delle istituzioni. Inoltre anche i diversi sistemi elettorali (maggioritario uninominale a un turno in Inghilterra, a due turni con accesso aperto in Francia) esercitarono la loro influenza sullo sviluppo delle istituzioni nei rispettivi paesi.
Per quanto la situazione a cavallo fra ‘800 e ‘900 fosse quella descritta, larga parte della dottrina costituzionalistica europea continentale coltivò ancora per decenni la convinzione che la natura intima del vero parlamentarismo fosse dualista e non monista. Più che ragioni teoriche, dietro una simile impostazione vi erano un’intera concezione dello stato e dei suoi rapporti con la società e, sotto sotto, robusti interessi di ceto. La seconda metà dell’800 e i primi decenni del secolo successivo, infatti, furono segnati dappertutto in Europa (Francia a parte, dove il suffragio universale, come si è visto, si era consolidato dal 1848) dal progressivo allargamento della base democratica attraverso, appunto, l’allargamento del diritto di voto fino al suffragio universale maschile. Questo fenomeno aveva ora preceduto ora seguito l’organizzarsi dei partiti politici i quali in pochi decenni diventarono “di massa” e si strutturarono via via secondo il modello del partito d’integrazione sociale (come, ad esempio, il partito socialdemocratico e i partiti popolari in Germania). L’introduzione della legislazione elettorale proporzionale, coerente con l’idea di assemblee in grado di rappresentare fedelmente la società, accentuò tale fenomeno e fece delle camere basse assemblee per la prima volta, appunto, rappresentative non di un solo ceto ma dell’intera società (sia pure declinata al maschile). Si tratta del fenomeno che sarebbe stato descritto come il passaggio dallo stato monoclasse allo stato pluriclasse, vale a dire, dallo stato liberale allo stato democratico.
Ebbene, era chiaro che in tal modo, anche al di là dei casi di pluripartitismo estremo, si finiva con l’introdurre nel cuore delle istituzioni quella frammentazione che rispecchiava le divisioni effettivamente esistenti nella società. Di ciò i fautori dello stato liberale di diritto concepito come ente sovrano e unitario non potevano che essere preoccupati. Non solo, concezioni generali a parte, la preoccupazione cresceva in quanto l’irrompere dei partiti che organizzavano le classi fino ad allora subalterne ed escluse dall’effettiva partecipazione ai diritti politici (cioè escluse dalla funzione di determinare gli interessi che l’apparato pubblico, ai diversi livelli di governo, avrebbe dovuto tutelare), preannunciava scelte e indirizzi politici diversi da quelli del passato, pronti perfino a mettere in discussione quel fermo caposaldo della società ottocentesca che era stato il diritto di proprietà.
Si trattava allora di riequilibrare il ruolo di assemblee rappresentative necessariamente divise, di fare in modo che esse potessero influire solo fino a un certo punto sul governo della cosa pubblica, di assicurare, in diretta continuità con la storia recente delle istituzioni che si è qui brevemente raccontata, il carattere unitario dell’ordinamento statuale. Le moderne concezioni costituzionalistiche erano ai primi passi e i più, mondo anglosassone a parte, ritenevano che i diritti dei cittadini potevano esistere (trovare riconoscimento e protezione) solo per volontà dello stato. Ed ecco perché si trattava di tenere ben fermo il principio in base al quale, come era stato efficacemente detto settanta od ottant’anni prima, “il trono non è una poltrona vuota”. Anzi la Corona era l’istituto cardine dell’ordinamento, l’organo garante dell’unità dello stato, interprete supremo degli interessi permanenti della nazione, titolare di poteri attivi grazie ai quali concorreva all’esercizio di tutte e tre le classiche funzioni dello stato, e, soprattutto, era il vertice dell’esecutivo. Di qui la tesi, che abbiamo già evocato, secondo la quale il parlamentarismo doveva necessariamente essere dualista, una tesi condivisa anche in Italia da gran parte della dottrina giuridica, a partire da Vittorio Emanuele Orlando, giurista insigne, uomo politico, ministro, costituente, il quale finché visse sarebbe tornato a riproporre la tesi dualista.
Le forme di governo parlamentari razionalizzate fra le due guerre
Così, all’indomani della prima guerra mondiale, quando dopo la sconfitta degli Imperi centrali e la rivoluzione sovietica, tutta una serie di stati vecchi e nuovi (dalla Germania all’Austria, dalla Cecoslovacchia alla Finlandia, alla Polonia, agli stati baltici) dovette dotarsi di nuovi assetti costituzionali, alcune di quelle esperienze costituzionali si caratterizzarono proprio per la rilevanza attribuita al ruolo del capo dello stato, sia pure in forma repubblicana. Fu l’epoca delle costituzioni razionalizzate: così chiamate perché, mentre prima della guerra il parlamentarismo (al quale tutte si ispiravano) si era fondato quasi esclusivamente su consuetudini, prassi e su testi giuridici incompleti e carenti, dopo la guerra ci si propose di dare alla forma di governo parlamentare una formulazione giuridica esauriente nel quadro di una più generale tendenza alla regolamentazione del potere intesa a vincolare con norme giuridiche la vita politica. Infatti, fu questa anche l’epoca in cui in Europa cominciò ad affermarsi, accanto al principio della rigidità delle costituzioni (in base al quale esse non possono mutarsi che mediante un procedimento diverso e più complesso rispetto a quello legislativo ordinario, a tutela della loro stabilità nel tempo), l’idea che si potesse affidare a organi giurisdizionali ad hoc il potere di verificare la conformità alla costituzione delle leggi del parlamento. Tale controllo di costituzionalità implicava la cancellazione dall’ordinamento delle leggi giudicate contrarie alla costituzione, con implicito superamento del dogma dell’assoluta prevalenza del parlamento in quanto organo rappresentativo della sovranità nazionale.
L’illusione era che attraverso un’elaborata disciplina dei rapporti fra parlamento e governo sarebbe stato possibile evitare i rischi dell’instabilità e assicurare agli esecutivi la continuità di cui avevano bisogno. Se non che a molti degli autori di quelle carte costituzionali, in larga misura influenzati dall’esperienza parlamentare francese, sfuggiva che l’efficacia del regime parlamentare, al di là di qualsiasi formula giuridica, dipende essenzialmente dal fatto che il governo possa disporre del sostegno di una stabile e leale maggioranza della quale (al di là del nome) lungi dall’essere una sorta di esecutore è in realtà la guida, secondo il modello già affermatosi in Inghilterra. Fu così che numerose di queste costituzioni razionalizzate non riuscirono affatto a rispondere alla grande sfida della prima metà del XX secolo: assicurare la forza e l’efficacia del potere democratico mettendolo in condizione di dare una risposta, attraverso dosi crescenti d’intervento pubblico, alle esigenze di strati sempre più ampi della popolazione, divenuti ora cittadini in grado di far sentire la propria voce (sfida aggravatasi negli anni della Grande depressione).
In America la risposta all’esigenza di intervento pubblico portò a un notevole rafforzamento della figura presidenziale; in Inghilterra si consolidarono il governo di gabinetto e la figura del premier (insieme alla struttura bipartitica del sistema politico, dopo il tramonto dei liberali e l’affermazione dei laburisti come forza alternativa ai conservatori); nell’Europa continentale, invece, il rafforzamento dell’esecutivo o non ebbe luogo (Francia) o assunse connotazioni autoritarie o addirittura totalitarie (Italia, Portogallo, Germania, Spagna, Europa centrale).
Con l’eccezione inglese, il parlamentarismo non si rivelò dunque in grado di assolvere alle sue funzioni né nella sua versione monista a prevalenza assembleare né nella sua versione dualista. La repubblica di Weimar (1919-1933), cioè il regime repubblicano affermatosi in Germania dopo la prima guerra mondiale e la fine dell’Impero guglielmino, caratterizzata dall’attribuzione di importanti poteri a un capo dello stato eletto per un lungo mandato di sette anni direttamente dal popolo (potere di scioglimento del Reichstag, poteri d’emergenza, potere di nominare e revocare cancelliere e ministri i quali a loro volta avevano bisogno della fiducia del Reichstag), fini con l’abbandonarsi al nazismo. A distanza di molti anni, quella forma di governo, a lungo assai criticata in considerazione del suo esito, riceve oggi giudizi meno severi. Tanto divisa era la società tedesca, tanto ardue le sfide imposte dalla situazione economico-sociale del tempo (a partire dal pagamento degli onerosi debiti di guerra), tanto dannosa la legislazione elettorale proporzionale (che impedì il coagularsi di qualsiasi maggioranza degna di tal nome in parlamento) da far ritenere che un diverso assetto sarebbe durato anche meno. D’altra parte la carta di Weimar, figlia del compromesso fra socialdemocrazia e mondo moderato, si segnalò anche per l’espresso riconoscimento, per la prima volta, dei diritti sociali del cittadino (le cosiddette libertà sostanziali da garantirsi al di là delle mere libertà formali che aveva assicurato lo stato liberale): un modello che sarebbe stato ripreso anche nel secondo dopoguerra, prima fra tutte dalla Costituzione italiana.
Ma, per tornare alla forma di governo, la particolare versione del parlamentarismo dualista weimariano fu fortemente influenzata dalle tesi della dottrina giuridica prevalente (che come s’è visto considerava autentico solo il modulo dualista) e da quelle del grande sociologo politico Max Weber. Legato alla monarchia parlamentare che considerava la forma istituzionale più duttile, ma consapevole della definitiva compromissione della dinastia guglielmina, Weber era convinto che fosse indispensabile assicurare comunque la presenza nell’ordinamento di un capo dello stato che potesse essere il sostituto funzionale del re. Perciò lo si volle dotato di forti poteri (quelli appunto del monarca), non legato solo ai partiti e al parlamento e dotato di autorevolezza propria (e perciò lo si volle eletto dal popolo). Quella che consapevolmente si perseguiva, insomma, era una sintesi fra principio monarchico e principio democratico. Si cercava un adeguato contrappeso plebiscitario a un Reichstag diviso; si voleva, come è stato scritto, un Ersatzkaiser, cioè un succedaneo dell’imperatore, un “imperatore di riserva” buono per le situazioni di pericolo e di emergenza, il quale potesse costruire, all’occorrenza, la leadersbip carismatica di cui poteva esserci bisogno.
Non molto diverse le motivazioni dietro l’affermazione del parlamentarismo dualista in Finlandia (1919), in Austria (1929), in Irlanda (1937): tutti paesi dove s’era posto il problema di sostituire un monarca che non c’era più. Particolarmente interessante per la ricostruzione di questa versione specifica del parlamentarismo – che sarebbe stata chiamata molti anni dopo forma di governo semipresidenziale – il caso finlandese. La Finlandia aveva conquistato la propria indipendenza a seguito della rivoluzione russa nel 1917 e l’aveva dovuta difendere attraverso una breve ma sanguinosa guerra civile. Quando fu giunto il tempo di darsi un nuovo assetto costituzionale ed era ormai tramontata la possibilità di dotarsi di un sovrano (il trono era stato già attribuito a un principe tedesco che tuttavia rinunciò a seguito della sconfitta), la soluzione individuata consistette appunto nell’attribuire a un capo dello stato, eletto per sei anni da un collegio di “grandi elettori” secondo un modello non molto diverso da quello americano, gli stessi importanti poteri che aveva avuto il Granduca (cioè appunto il capo dello stato) nell’ordinamento precedente. Si trattava di un capo dello stato espressamente collocato al vertice dell’esecutivo il quale, come i sovrani delle monarchie costituzionali, governava attraverso un collegio di ministri di propria nomina responsabili davanti al parlamento monocamerale, secondo il più classico degli schemi dualisti repubblicani. Il modello finlandese durerà fino ai giorni nostri e si rivelerà prezioso, consentendo a un piccolo paese alla frontiera fra occidente e oriente di affrontare sfide severissime (in particolare la minaccia sovietica) in presenza di un sistema partitico molto frammentato.
Le costituzioni contemporanee
Il secondo dopoguerra vide cinque grandi paesi nella necessità di darsi una nuova costituzione: Francia, Giappone, Italia, Germania, India. Tre di essi erano paesi sconfitti. La stessa Francia vincitrice aveva dovuto patire l’onta di Vichy. Si trattava dunque di paesi che emergevano tutti da esperienze autoritarie, India a parte, la quale aveva appena conquistato la sua indipendenza. Inoltre, con l’eccezione della Francia e dell’India, si trattava di paesi sul cui processo costituente si fece sentire, in grado diverso, l’influenza dei vincitori. La Costituzione giapponese fu stesa su dettatura americana (la bozza fu elaborata da un giovane e brillante giurista dello staff del generale MacArthur), pur facendo salva la figura dell’imperatore; quella tedesca fu influenzata per aspetti decisivi dagli alleati occidentali (la spaccatura dei paese era già una realtà e sarebbe durata, come adesso sappiamo, oltre quarant’anni); quella italiana lo fu in misura più limitata.
Possiamo considerare questa la prima ondata del costituzionalismo contemporaneo (1946-1949). Parentesi francese a parte (1958), la seconda ondata sarebbe seguita a metà degli anni ’70 (1974-1978), la terza all’inizio degli anni ’90 (dal 1989 ad oggi).
India a parte (dove si cerca di trasporre in forma scritta, ma senza elementi di razionalizzazione, il modello Westminster coniugandolo con un assetto di tipo federale), le altre quattro grandi costituzioni degli anni ’40 optarono tutte per un assetto del potere fondato su meccanismi di razionalizzazione della forma di governo parlamentare: esse cercarono di far tesoro dell’esperienza del parlamentarismo fra le due guerre con soluzioni ovviamente diverse l’una dall’altra. L’obiettivo fu di evitare le vere o presunte degenerazioni che le prime razionalizzazioni del governo parlamentare non erano riuscite ad evitare. Il modello di riferimento fu ancora quello inglese, ma ovviamente in ciascun ordinamento le tradizioni costituzionali autoctone e gli equilibri politici delineatisi dopo il ciclone della guerra influenzarono le scelte compiute.
Al di là di ogni buon proponimento, la Francia scelse di fatto la continuità con il regime della Terza repubblica. L’unica novità rilevante (l’assetto virtualmente monocamerale del parlamento) portò alla solenne bocciatura popolare del primo progetto varato dalla Costituente: progetto criticato anche per il troppo blando rafforzamento del governo parlamentare. Ma la nuova assemblea costituente, eletta nel 1946 dopo la sconfessione della prima, produsse un secondo progetto non più convincente del primo. Introdotto un bicameralismo ineguale, e lasciata più o meno com’era la forma di governo, il nuovo testo fu approvato senza alcun entusiasmo (votò “sì” solo il 36% degli elettori) e suscitò la fiera opposizione del primo presidente del consiglio del dopoguerra, già capo del governo francese in esilio, generale Charles de Gaulle. Le misure volte a disciplinare il rapporto fra governo e parlamento erano poca cosa. La legislazione elettorale proporzionale e i comportamenti concreti della classe politica fecero il resto. Infatti parte della dottrina segnalò subito le inadeguatezze di quell’assetto e cominciò a elaborare correttivi volti ad accrescere la stabilità di governo, alcuni dei quali saranno introdotti, sebbene divenuti nel frattempo ormai insufficienti. La Costituzione della Quarta repubblica avrebbe accompagnato la Francia in una fase di spettacolare sviluppo economico: ma i partiti erano frammentati e divisi, i governi durarono in carica, in media, solo 6 mesi (se ne contarono 22 in 11 anni). Il sistema politico-istituzionale non avrebbe retto alla sfida della decolonizzazione.
Il Giappone ridimensionò drasticamente il ruolo dell’imperatore, uniformandosi d’un colpo all’evoluzione di quasi tutte le forme di stato monarchiche in regime di suffragio universale. L’imperatore rimase il simbolo dell’unità dello stato e del popolo, ma venne espressamente escluso da qualsiasi funzione di governo; l’esecutivo fu affidato a un governo espresso dalla Dieta (il parlamento) e sfiduciabile da parte della camera bassa, ma dotato del potere di scioglimento. Tale sistema avrebbe funzionato per oltre quarant’anni per entrare in crisi alla fine degli anni ’80 in corrispondenza con la crisi del partito liberaldemocratico, il quale, affermatosi negli anni ’50, aveva egemonizzato la vita politica giapponese, collocandosi al centro di collaudatissime prassi consociative espressione di una società fortemente organicistica.
La Germania optò per una razionalizzazione particolarmente incisiva fondata sul meccanismo detto della sfiducia costruttiva (in virtù del quale il Bundestag può obbligare alle dimissioni il governo solo nel momento in cui è in grado contestualmente di eleggere un nuovo cancelliere), elaborato all’espresso fine di stabilizzare l’esecutivo in carica, imponendo all’opposizione l’onere di dimostrare d’esser divenuta una maggioranza sufficientemente coesa e in grado di sostituirsi a quella emersa dalle elezioni. L’esito sarà un’eccezionale stabilità con sei cancellieri in quasi cinquant’anni! Ma è difficile dire quanta parte di questa stabilità si debba alla forma di governo in senso stretto, quanta al sistema politico “a due partiti e mezzo” (socialdemocratici, cristiano-democratici e liberali), e dunque quanta alla legislazione elettorale e al divieto di partiti antisistema; quanta, infine, alla natura stessa del popolo tedesco e del suo rapporto con le istituzioni.
Dell’Italia diremo a parte […]. Comunque, le irrilevanti misure di stabilizzazione dei parlamentarismo ebbero ben poca influenza: la fluida forma di governo delineata dalla Costituzione del 1948 funzionò accettabilmente finché il sistema politico conservò una sua solidità; quando le prime sfide serie si profilarono (a partire dalla fine degli anni ’60) la mancanza di meccanismi giuridici di sostegno e l’incapacità di introdurli provocò la crisi di transizione che tutti conoscono.
Nel 1958 in Francia, l’incapacità di fronteggiare l’emergenza determinata dalla decolonizzazione e in particolare dalle vicende algerine, quando ormai un colpo di stato militare appariva una minaccia concreta e immediata, costrinse i partiti della Quarta repubblica, auspice il presidente Coty, ad affidare poteri d’emergenza e una delega a riformare la costituzione sulla base di pochi criteri relativamente vaghi al nuovo governo affidato a Charles de Gaulle. Il generale è stato una delle grandi figure di questo secolo, forse la più grande se si tiene conto del contesto in cui si trovò ad agire. Univa in sé a un tempo le caratteristiche di indiscusso capo della resistenza contro il nazifascisrno e di campione di una concezione conservatrice, si può dire ottocentesca, dello stato. Restituire un vertice autorevole allo stato e risolvere la questione algerina furono i suoi obiettivi. Per quanto riguarda la costituzione dovette fare i conti con diversi suoi ministri che erano esponenti autorevoli della classe politica della Quarta repubblica (Guy Mollet, Pierre Pflimlin e altri). Ne venne fuori una forma di governo che univa a un fortissimo rafforzamento della posizione del governo in parlamento una altrettanto robusta sottolineatura del ruolo del capo dello stato: un presidente eletto per sette anni da un collegio di circa 80.000 grandi elettori (non dal corpo elettorale né dal parlamento), secondo canoni che richiamavano il parlamentarismo dualista ottocentesco degli esordi della Terza repubblica. Ma l’esito fu radicalmente diverso. Infatti, al di là e prima dell’introduzione dell’elezione diretta del capo dello stato (che il generale de Gaulle volle più per i suoi successori che per se stesso; egli aveva l’orgoglio di non considerarla indispensabile per un uomo la cui legittimazione, pensava, veniva dalla storia), la prassi gollista, assecondata dai premier del tempo e resa possibile dai successi del partito, che a de Gaulle si richiamava, alle elezioni parlamentari, fece del presidente il vero capo dell’esecutivo, il titolare dell’indirizzo politico del paese. Ne venne fuori un modello che avrebbe offerto al costituzionalista e politologo Maurice Duverger l’occasione di individuare una quarta forma di governo, da aggiungere alle tre tradizionali (presidenziale, parlamentare, direttoriale). Chiamata forma di governo semipresidenziale, essa consiste appunto nelle moderne versioni di parlamentarismo accentuatamente duale, con capo dello stato elettivo, o comunque dotato di poteri d’indirizzo politico.
La seconda ondata del costituzionalismo europeo contemporaneo è stata quella degli anni ’70. Nel 1974 il regno di Svezia si dette una nuova carta che sostituì quella del 1809: la forma di governo che essa delineò si pose come la più rigorosamente monista delle interpretazioni del parlamentarismo (il capo dello stato, che resta ereditario, non ha più il benché minimo ruolo).
Ma gli anni ’70 registrarono soprattutto il ritorno alla democrazia sulle sponde europee del Mediterraneo. Nel 1975 la Grecia, dopo la parentesi dei colonnelli durata sette anni (1967-1974), si dette una costituzione fortemente influenzata dal modello francese e dunque con un accentuato ruolo presidenziale (essa verrà però ricondotta in un quadro parlamentare dalle radicali modifiche del 1986). Nel 1976 fu il Portogallo a dotarsi di una nuova costituzione orientata senz’altro secondo il modello semipresidenziale (anch’esso sarà però attenuato qualche anno dopo). Nel 1978, infine, fu la volta della Spagna, a tre anni dalla morte di Francisco Franco, a darsi una nuova costituzione la quale teneva conto, sia pure per aspetti diversi, dei modelli italiano, francese, tedesco, oltre che della tradizione costituzionale nazionale (Costituzione monarchica del 1876 e Costituzione repubblicana del 1931). Per la forma di governo il modello seguito fu quello parlamentare fortemente razionalizzato secondo il prototipo tedesco (sfiducia costruttiva): ma fu anche l’unica costituzione monarchica che riservava al capo dello stato un ruolo non marginale.
La terza e più recente ondata è, infine, quella degli anni ’90: il pieno recupero di sovranità dei paesi ex socialisti e la fine dell’Unione sovietica danno il via a un imponente fenomeno di “costituzionalizzazione”. Non che l’Urss e i paesi dell’ex cortina di ferro non avessero avuto carte costituzionali, ma si trattava di ordinamenti appartenenti a una diversa forma di stato (lo stato socialista) nel quadro della quale tali carte avevano un significato e un’influenza ben diversi da quelli che hanno nello stato costituzionale, la versione più evoluta dello stato democratico di derivazione liberale. Una volta venuti a far parte di questa forma di stato, invece, gli stati dell’Europa centrale e orientale si sono dotati quasi tutti, in due o tre anni, di costituzioni nuove di zecca. Alcuni hanno proceduto invece a radicali revisioni delle vecchie carte costituzionali (le parti residue delle quali assumono una connotazione completamente diversa rispetto al passato): è il caso, per esempio, di Ungheria e Albania; altri, infine, hanno deliberato la reviviscenza di carte costituzionali che erano state in vigore prima della dominazione sovietica (è il caso della Costituzione lettone del 1922, ripristinata il 21 agosto 1991).
È interessante osservare che le costituzioni dei paesi dell’Europa centrale e orientale, tutte repubblicane (cioè con capo dello stato direttamente o indirettamente rappresentativo), si caratterizzano, salvo poche eccezioni (Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia), per forme di governo che mentre prevedono il rapporto fiduciario esecutivo-parlamento tipico del governo parlamentare, nondimeno non mancano di utilizzare, come strumento di stabilizzazione, il rafforzamento del ruolo presidenziale, assicurato vuoi dall’attribuzione al presidente di rilevanti competenze vuoi dalla sua elezione a Suffragio universale (Bulgaria, Croazia, Estonia, Lituania, Macedonia, Polonia, Romania, Slovenia, Ucraina e, naturalmente, Russia,…). Riguardo alle altre è difficile per il momento giudicarne l’effettivo funzonamento, trattandosi di sistemi politico-istituzionali ancora fin troppo poco sperimentati. Si può dire però che questi paesi, da un lato inevitabilmente influenzati dai modelli del resto dell’Europa continentale, dall’altro condizionati dalla situazione di oggettiva difficoltà venutasi a creare soprattutto a causa dell’immane sforzo di riconversione verso l’economia di mercato coi relativi costi sociali, abbiano ragionevolmente cercato di combinare i vantaggi del sistema parlamentare con la presenza nell’ordinamento di una figura (il capo dello stato) in grado di fornire le indispensabili prestazioni d’unità, la necessaria continuità d’indirizzo politico, e, se del caso, anche interventi di emergenza. Non è un caso che i paesi che hanno scelto una figura di capo dello stato non particolarmente forte di poteri giuridici e di legittimazione politica (abbiamo già citato Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria) sono, per almeno due paesi su tre, quelli nei quali, per antichi legami e grado di sviluppo relativo particolarmente elevato, meno ardua si presenta la transizione. Si può parlare, dunque, d’una generale riscoperta, a partire dall’imitatissima Costituzione francese del 1958, delle virtù del parlamentarismo dualista.
In condizioni sociali e culturali così radicalmente diverse da risultare difficilmente comparabili, anche l’assetto costituzionale del Sudafrica (Costituzione provvisoria del 1993 e Costituzione del 1996) sembra orientato verso una forma di governo definibile, in senso estremamente lato, come semipresidenziale.
Un discorso a parte meriterebbero, poi, le forme di governo dei paesi dell’America latina: paesi nei quali pure gli anni ‘90 hanno coinciso con uno spettacolare anche se contrastato sviluppo della democrazia, fondato su forme di governo, in parte risalenti al secolo scorso, che costituiscono varianti autoctone del sistema presidenziale nordamericano.