Con molta probabilità il vino fu scoperto intorno all’XI-IX secolo a. C., scoperta come molte altre casuale, avvenuta sorbendo del succo d’uva selvatica conservato in recipienti di terracotta e accidentalmente fermentato. L’epoca delle prime coltivazioni della vite si fa invece risalire a 4000 o forse 6000 anni prima della nascita di Cristo.
Le prime testimonianze certe della coltivazione della vite sono quelle ritrovate nella pianura posta fra il Tigri e l’Eufrate, la Mesopotamia. Presso le antiche popolazioni che lì vivevano, il vino era fondamentale per alcune cerimonie religiose ed era consumato, inoltre, solo dai potenti e da una ridotta élite.
Alle tavole principesche dei palazzi, nei grandi centri della civiltà mesopotamica, il vino si beveva spesso rinfrescato con del ghiaccio che veniva raccolto e trasportato dalle montagne delle regioni del Nord. In questo caso era lo “shagù”, vale a dire il coppiere, a prendere in consegna la neve solidificata, il ghiaccio e la grandine utili al servizio.
Da alcune testimonianze si apprende che in Babilonia esistevano delle “botteghe del vino” gestite da donne, anche se è molto probabile che in questi negozi non si somministrasse vino, ma birra, poiché il vino era un bene prezioso e un simbolo sacrificale. Il vino, ma diciamo piuttosto la bevanda alcolica, era ottenuto in quelle zone non solo dall’uva ma anche dai datteri, e il vino vero e proprio arrivava dalla Siria, dall’Iran, dall’Armenia e da Elan trasportato in botti lungo i fiumi.
Sulle rive del Nilo si gettano le basi
Anche in Egitto era consuetudine produrre vino, e la viticoltura probabilmente giunse in questo paese attraverso il corridoio che dalle colline della Siria e della Palestina conduce al Mediterraneo. La consuetudine di conservare il vino in appositi vasi sigillati e lo studio di affreschi presenti nelle tombe ci hanno permesso di ottenere informazioni anche riguardo le tecniche di produzione.
La vendemmia veniva fatta a mano e i singoli grappoli venivano riposti in ceste di paglia; la pigiatura era eseguita in una pressa con i piedi e, sopra al contenitore nel quale si pestava l’uva, correva un bastone da cui pendevano le corde necessarie a sostenere i pigiatori. Dopo la pigiatura il vino veniva esaminato, e se ritenuto idoneo posto in giare che venivano sigillate una volta terminata la fermentazione tumultuosa.
Il vino presso gli antichi Egizi veniva utilizzato come offerta e libagione per i morti, nei banchetti e nelle feste, dove si beveva fino all’intossicazione.
• La Grecia classica e il vino del simposio
In Grecia, la viticoltura e la vinificazione erano già particolarmente diffuse nel corso dell’VIII sec. a. C. La vite, dal momento in cui iniziò a essere coltivata, divenne in Grecia, insieme al frumento e all’olivo, una delle coltivazioni principali. Era, come del resto oggi, una coltivazione che richiedeva cure assidue e molto probabilmente il delicato compito era affidato agli schiavi.
A partire dal V e IV secolo a. C. si trovano testimonianze di coltivazioni specializzate, nate dalla crescita della domanda che proveniva dalle città. Anche in zone periferiche come l’isola di Taso, nell’Egeo settentrionale, ebbero un forte impulso la coltivazione della vite e la produzione di vino, così come quella di anfore per contenerlo.
I vini della Grecia antica, secondo quanto ci è giunto attraverso Esiodo, erano dolci e con una forte concentrazione alcolica. Diveniva quindi necessario, per poterli bere senza danno, diluirli. La regola si ispirava anche alle ritualità sacre: secondo la cultura religiosa greca, solo agli dei era consentito bere il vino puro e, se qualche mortale avesse disobbedito, essi lo avrebbero fatto impazzire.
I Greci avevano inoltre l’abitudine di aggiungere al vino una varietà di aromi e sostanze diluenti, tra le quali spezie, acqua di mare, miele e resina. I diluenti aggiunti, con molta probabilità avevano innanzitutto lo scopo di coprire il sapore acido del vino che stava trasformandosi in aceto e di migliorare la conservabilità della bevanda.
Platone e Senofonte ci hanno lasciato il racconto dedicato ai simpòsi e alle riunioni allietate dal vino, in particolare quelli che si svolgevano ad Atene nel VI e V secolo a. C.
I due narrano infatti di come la sera, dopo le già abbondanti libagioni del pasto, vi fosse usanza di promuovere queste vivaci discussioni e dibattiti accompagnati da eccezionali quantità di vino. Il suo consumo, nel corso della serata, seguiva regole ben precise impartite dall’ospite o dal presidente del simposio, al quale stava anche di prescrivere la quantità d’acqua con cui andava diluita la preziosa bevanda.
• La grande civiltà del vino nell’antica Roma
Le prime popolazioni romane avevano costumi molto austeri, e attribuivano ai vini e ai vigneti un’importanza relativa. Il vino veniva considerato bevanda di esclusivo appannaggio maschile, perché rinvigorente. Questa tradizione era così radicata che, qualora il marito avesse sorpreso la moglie a bere questa nera e scura bevanda, avrebbe avuto il diritto di ucciderla, o almeno di divorziare.
La mentalità severa e rigorosa dei romani venne mutando all’epoca delle guerre puniche, combattute fra il 264 e il 146 a. C., divenendo sempre più sofisticata, attenta alla qualità della vita e incline a promuovere i beni di lusso.
Una preziosa testimonianza sui sistemi di lavorazione
La viticoltura iniziò quindi, a partire dal Il secolo a. C., ad assumere una certa importanza nell’economia agricola romana. La prima testimonianza scritta ad essa dedicata giunta fino a noi è il De agri cultura, opera di Catone il Censore (234-149 a. C). Nei 162 capitoli del suo trattato, Catone illustra anche quali siano le caratteristiche di un vigneto redditizio, con quali strumenti e in quali momenti si debbano effettuare le diverse lavorazioni, come si debba procedere alla vinificazione e alla produzione delle diverse tipologie di vino, e infine anche come si esegua una buona manutenzione delle presse e si formulino i contratti di mezzadria e di vendita del prodotto finito.
Speciale attenzione è poi riservata al momento dell’assaggio, alla pesatura e alla conservazione del vino: si raccomanda anche che il prodotto già venduto sia conservato nella cantina dell’acquirente, piuttosto che in quella del produttore o venditore.
Il vino diviene in quel periodo un prodotto di eccellenza, e per i commercianti furono anni intensi e di grande crescita economica. È di questo periodo il primo vino veramente prestigioso, l’Opimiano, del 121 a. C. (il console di quell’anno si chiamava Opimio), e la regione di produzione è l’Agro Falerno.
All’anno 121 a. C., dunque, si può far risalire l’introduzione della distinzione dei vini in tre grandi gruppi.
Al primo appartengono i prodotti di alta qualità, rari, destinati ad una élite e molto costosi; al secondo gruppo quelli di largo consumo, di prezzi modici e che potevano essere consumati, se non quotidianamente, abbastanza frequentemente; infine, al terzo gruppo appartengono i vini destinati al popolo, la cui qualità era scadente perché, naturalmente, l’unico interesse del produttore era la quantità e non la qualità.
A causa di una rapida inflazione monetaria, nel corso del III secolo, sotto Diocleziano, il prezzo del vino prodotto in Italia era aumentato di 108-128 volte rispetto al I secolo.
A Roma, dove la paga media era solo sei volte il costo di un “sextarius” di vino, si preferiva ora consumare una bevanda meno costosa come la birra o vini prodotti in altri paesi. ,
In questo modo, si consacrò definitivamente il declino della viticoltura italiana e si favorì lo sviluppo di questo prodotto in altri paesi come la Gallia (Francia), la Spagna e la Germania.
Sui banchi delle osterie e nelle feste cittadine
In epoca romana nelle città erano numerose le mescite di vino e le osterie, tanto che a Pompei si stima ce ne fossero circa duecento.
Generalmente erano in vendita vini dolci e pregiati, come il “passum”, l’attuale vino passito, il “defrutum” o vino cotto e concentrato per bollitura, il “mulsum”, vino addizionato a miele. Ma si servivano anche vini meno pregiati, destinati al popolino, come la “posca”, aceto annacquato, o la “lorca”, bevanda ottenuta macerando le vinacce, e infine anche un certo numero di anfore di vino di dubbia provenienza, ma venduto come Falerno.
Nelle osterie il vino veniva servito in capaci caraffe, che dovevano essere vuotate in una volta sola.
I prezzi al minuto variavano, a seconda della tipologia e dell’invecchiamento, da 1 a 5 “asses” per “sextarius”, il che equivale a una scalatura di 12, 24, 36, 48 e 54 sesterzi per una intera anfora.
Non sorprende che nella Roma antica numerose fossero le grandi feste pubbliche e si ipotizza che in quelle occasioni, così come presso i Greci, i Romani utilizzassero del personale che si occupava esclusivamente di miscelare e servire il vino.
La figura del sommelier, ovvero del dispensatore di bevande, sembrerebbe dunque presente sin dai tempi più antichi, e con tutta probabilità la sua funzione era già allora ritenuta prestigiosa.
• QUALI VINI BEVEVANO I ROMANI?
Il “protropo” si otteneva dal succo d’uva ricavato dallo schiacciamento delle uve per pressione spontanea: un vino molto debole che si beveva dopo averlo cotto.
Il “preliganeo” si traeva dalle uve a maturazione precoce, raccolte senza badare alla loro qualità.
Il “tortivo” era prodotto dal mosto estratto dalla spremitura delle vinacce quasi esauste.
Il “prefamino” si offriva agli dei per propiziare una buona vendemmia, e naturalmente si trattava del vino migliore e più selezionato.
Il vino resinato o “impeciato” veniva preparato aggiungendovi delle resine, per una migliore e più prolungata conservazione.
I vini “secondi” erano quelli di seconda spremitura, ottenuti aggiungendo dell’acqua nella vinaccia e facendola fermentare. Erano di tre tipi: il primo si otteneva mettendo molta acqua nella vinaccia e lasciandolo una notte a fermentare; il secondo si ricavava mescolando un terzo di acqua a due terzi di vinaccia e concentrandolo tramite cottura; l’ultimo, il “vin fecato”, si preparava con la feccia del vino. Nessuno di questi vini aveva la possibilità di invecchiare un solo anno, a quanto afferma Plinio.
Il “defruto” era un vino dolce, e cotto, ottenuto facendo bollire il mosto finché si riduceva di circa due terzi.
Il “vin passo” era, anch’esso, un vino dolce che si otteneva pigiando l’uva appassita al sole su graticci.
Il popolo romano amava molto i vini dolci, tanto che era diffusa una bevanda particolare, di consistenza appiccicosa chiamata “mulsum”, ottenuta aggiungendo miele al vino (sino a 250 grammi per litro) e servita in abbinamento agli antipasti. I romani bevevano anche i vini “salsi”, o salati, prodotti con uve seccate al sole e quindi mescolati con acqua marina. Luso dell’acqua di mare era molto praticato poiché dava al vino un sapore migliore e ne aumentava la velocità di maturazione.
Gli “enologi” romani avevano anche messo a punto una sorta di mosto permanente, nel quale la fermentazione veniva bloccata immergendo le anfore in acqua fredda per tutto l’inverno. Il “semper mustum”, questo il suo nome, era utilizzato per dolcificare i vini troppo secchi.
• Verso la grande stagione del Rinascimento
Il Medioevo europeo, grazie alla particolare considerazione in cui era tenuto il vino dalla religione cristiana, conobbe una straordinaria diffusione della vite.
Il vino veniva prodotto per il consumo quotidiano, ma anche per essere offerto agli ospiti e per essere venduto. In questo periodo il miglioramento della qualità della viticoltura e del vino dipese quasi per intero dal lavoro dei monaci. In Francia si deve essenzialmente ai monaci cistercensi del monastero di Citeaux, poco a nord di Beaune, la successiva vocazione vitivinicola della Borgogna e delle sue migliori terre. Proprio ai Cistercensi è da attribuire, tra l’altro, lo sviluppo del concetto di “cru”: ossia una porzione di vigneto che ogni anno è in grado di produrre vini di qualità e sapore identificabile e costanti.
Anche la funzione del “dispensatore delle bevande” cambia nel Medioevo. Questi non si dedica più al servire il vino durante i banchetti, ma abbandona la scena e scende in cantina, e a quel punto il servizio si organizza. Nei monasteri francesi, in particolare, compare un monaco responsabile della cantina, il “cellérier”, e monaci subalterni cui veniva affidata la distribuzione del vino a tavola, i “cavistes”.
• Sfarzo e ritualità sulla tavola del Cinquecento
Il Rinascimento è considerato l’epoca della riscoperta di tutto ciò che è bello, nobile e prezioso, e di conseguenza anche della tavola e del vino.
Nel Cinquecento, dunque, si individuano nuove figure professionali che si dedicano all’acquisto, alla conservazione e al servizio dei vini. Molto complesso è definire il compito preciso di tutti i nuovi addetti al vino, poiché, ad esempio, il lavoro del dispensiere (colui che si dedicava agli acquisti), del cantiniere o “canevaro” (il responsabile del prodotto, sia per qualità che per quantità, dal momento dell’acquisto al momento del consumo) erano svolti, in alcuni casi, da persone differenti e, in altri, dalla medesima persona.
Il servizio del vino era affidato in questo periodo al bottigliere, che aveva il compito di preparare, nella sala attigua a quella dove il signore consumava i pasti, un tavolino su cui venivano disposti un’alzata d’argento (sottocoppa), il bicchiere e la caraffa per il signore. Il bottigliere, durante il pasto, lavava accuratamente, ogni qual volta il signore aveva bevuto, sottocoppa, caraffa e bicchiere e faceva “credenza” cioè assaggiava le bevande per provare l’assenza di veleni. L’incarico di portare il bicchiere di vino al tavolo era affidato, invece, al coppiere.
Questo articolato e complicato servizio delle bevande si mantiene quasi inalterato nei banchetti ufficiali fino ai giorni nostri. Durante le serate alle quali veniva ammessa una ristretta élite di cortigiani e di favoriti, invece, già dalla metà del Settecento il servizio era decisamente meno complesso.
La semplificazione del servizio si deve alla presenza sulla tavola di caraffe e di numerosi rinfrescatoi, secchielli in argento contenenti acqua e ghiaccio, da cui ciascun commensale si serviva secondo le sue necessità.
• Sommelier: alle origini del nome
«(…) all’origine in Francia il sommelier era un frate che nel monastero era incaricato (somme, nel vecchio francese), di occuparsi delle stoviglie, della biancheria, del pane e del vino. All’inizio dell’Ancien Régime, la casa del re aveva al suo servizio uno o più sommelier la cui funzione era quella di ricevere il vino che veniva consegnato con i “sommier” o bestie da soma. All’epoca, venivano chiamati sommelier anche gli ufficiali incaricati di sorvegliare il mobilio reale, mentre più tardi il termine riguardò i portatori di fardelli. Con Luigi IV, il sommelier diventa l’ufficiale preposto al trasporto dei bagagli quando la Corte si sposta, mentre nel Ducato dei Savoia viene istituito un ufficiale di Corte con il titolo di “Somigliere di bocca”. Quest’ultimo aveva, tra i suoi incarichi, quello di acquistare il vino, con “diritto di prelazione”, per la tavola del suo signore».
• Due parole sulla fisiologia del gusto
Sono moltissime le sostanze che hanno sapori primari, ovvero tali da non poter essere analizzati come una mescolanza di altri. Nell’analisi gustativa del vino ci si basa su identificazione e analisi dei quattro sapori classici: dolce, salato, amaro e acido. Le sensazioni più complesse vengono fornite dall’olfatto e, in parte, dalla sensibilità cutanea.
I recettori degli stimoli gustativi sono chiamati bottoni o calici gustativi. Hanno la forma di un bulbo di cipolla; sono costituiti da cellule sensoriali e risultano sparsi irregolarmente in tutta la cavità boccale. Si trovano raggruppati in maggior quantità in particolari protuberanze della lingua, le papille, ognuna delle quali può contenere anche centinaia di bottoni gustativi.
Nell’apprezzamento del gusto, un ruolo molto importante è svolto dalla saliva, che viene secreta sia in seguito alla stimolazione dei recettori tattili, dolorifici e gustativi della bocca, sia per riflesso condizionato. A volte è sufficiente la vista, l’aroma, o addirittura il solo pensiero del cibo per provocare la cosiddetta “acquolina in bocca”.
La quantità e la composizione chimica della saliva sono molto variabili e dipendono soprattutto dalla natura dello stimolo – chimico, meccanico, alimentare – che la provoca. Nella saliva sono presenti inoltre alcuni sali minerali e un enzima digestivo, la ptialina, che è in grado di attaccare e scindere l’amido cotto. Un’altra funzione della saliva è quella di sciogliere le sostanze alimentari, permettendo la stimolazione dei bottoni gustativi.
Sulla punta della lingua sono raccolti un maggior numero di bottoni gustativi, soprattutto quelli che percepiscono il dolce e l’acido; mentre sui bordi si trovano quelli per le sensazioni di salato e di acido. Le papille circonvallate, presenti in particolar modo sul fondo della lingua, sono deputate alla ricezione dell’amaro. È provato, infine, che c’è un tempo di latenza tra l’applicazione dello stimolo e l’insorgere della sensazione; per il salato è di 1 secondo; per il dolce 1-2 secondi; per l’acido 2 secondi; per l’amaro 2-3 secondi.
Questo spiega perché nella degustazione del vino si avvertono prima i sapori dolci, poi quelli acidi, ma alla fine predominano gli amari. L’amaro è infatti l’ultimo a venire percepito ed è anche il più persistente.
Da notare che la maggior parte degli individui reagisce a partire da concentrazioni medio-alte, e solo pochi alle concentrazioni minime. Lo stesso individuo può comunque presentare differenze percettive anche a breve distanza di tempo. È quindi necessario sottoporre gli assaggiatori a periodici e frequenti controlli per verificarne l’acutezza gustativa.
Va sottolineato poi che, combinando tra loro i sapori, potremmo avere il potenziamento, l’attenuazione o il mascheramento di alcuni di essi. Nella mescolanza i sapori possono tuttavia solo aumentare o diminuire d’intensità, senza però perdere mai la loro individualità.
La sensibilità gustativa varia con il variare delle temperature. Il livello ottimale lo si ha intorno ai 30-35 °C, mentre al di sotto e al di sopra di questa temperatura si registra un calo della sensibilità e la lingua diviene quasi insensibile ai sapori.
Infine, alla diminuzione della sensibilità per iperstimolazione dei recettori (di cui abbiamo già detto) si accompagna il potenziamento di altre sensazioni. L’adattamento all’acido citrico porta ad esempio a una diminuzione della percezione dell’asprezza dell’acido acetico e a un potenziamento del sapore dolce del saccarosio.
La superficie della lingua è rivestita di cellule gustative ciliate, collegate alle fibre dei nervi sensoriali sottostanti, e concentrate attorno a papille specializzate nelle diverse componenti del gusto, agenti in stretta sinergia fra di loro.
• I principali vitigni per i vini bianchi
1.Chardonnay
Vitigno originario della Borgogna, è presente di fatto in tutti i paesi produttori di vino ed è probabilmente il vitigno bianco con la migliore attitudine ad invecchiare in barrique. La sua struttura importante piace anche in cantina perché consente di sovrapporre ad esso altre strutture, e inoltre ben sopporta centrifugazioni del mosto, contatto delle pelli per più settimane, fermentazione a basse temperature e rifermentazione in bottiglia. Presenta aromi di banana, di acacia, di vaniglia. Ha sapore secco, di corpo, di buona acidità.
2.Moscato
Non esiste un solo vitigno Moscato ma una vasta famiglia di moscati caratterizzati dalla potenza aromatica. Il Moscato bianco a piccoli grani (in Italia, Moscato bianco di Canelli), è il rappresentante più nobile della dinastia. Conosciuto e coltivato dall’antichità nei paesi del Mediterraneo, fu diffuso dai Romani. Presenta aromi intensi e ben riconoscibili di salvia e rosa, oltre a note di frutta come la pesca, l’albicocca e il litchi. Generalmente viene commercializzato nella versione dolce e, più raramente, secco in quanto presenta spiccate note amarognole in fin di bocca.
3.Riesling
Fra le diverse varietà di Riesling, il più rinomato è quello Renano che ha fatto la reputazione dei vini alsaziani e tedeschi. È presente anche negli Stati Uniti, in Cile, Australia, Nuova Zelanda e in Italia. Ha aromi iodati, minerali, floreali e di frutti canditi. ll sapore secco e la pungente freschezza dell’acidità supportano molto bene la ricchezza degli aromi. Nelle versioni dolce o liquoroso conserva una piacevole nota di eleganza, grazie all’importante acidità.
4.Sauvignon blanc
È un vitigno molto presente nella regione della Loira e nel Bordolese. Dà ottimi risultati in Nuova Zelanda e Cile, ma si trova anche in California, Sudafrica, Australia e in Europa orientale. Si tratta di un vitigno aromatico con aromi vegetali, erbacei, floreali e fruttati, che presenta un buon livello di acidità.
5.Sémillon
È un vitigno del Bordolese molto diffuso in Francia ma presente anche in California, Argentina, Cile, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda. Il Sémillon possiede una gamma aromatica discreta di frutta gialla e un gusto equilibrato, con una acidità non molto elevata.
6.Sylvaner
Generalmente considerato come un vitigno di origine austriaca, in Italia lo troviamo solo in Trentino e in Alto Adige, oltre che in Alsazia e in Germania.
In commercio esistono due tipologie di Sylvaner: uno poco alcolico e semplice, con aromi floreali e note agrumate; un altro di maggiore complessità gusto-olfattiva dominata da una buona acidità, che gli consente anche un discreto invecchiamento.
7.Trebbiano
Originario dell’Italia, dove è molto diffuso al Nord e al Centro; in Francia è diventato il vitigno principe per la produzione di grandi distillati quali il cognac e l’armagnac. È un vino dai tenui aromi floreali e fruttati, che si presenta sempre con un’alta acidità. Per questo viene spesso “assemblato” con altri vini.
8.Vermentino
È un vitigno molto diffuso sulla costa della Liguria, in Toscana e in Sardegna, oltre che in tutto il Sud e Sud-est della Francia. Di colore verdolino molto scarico, al naso è leggermente aromatico con sentori di fiori, di frutta e di anice. In bocca dà una leggera impressione di rotondità e di morbidezza. Va consumato giovane, entro i tre anni.
• I principali vitigni per i vini rossi
1.Aglianico
L’Aglianico è l’ispiratore dei vini rossi di grande qualità nel Sud dell’Italia. Trapiantato in Campania, Puglia e Basilicata nell’antichità al tempo dei Greci, esprime tuttora grandi caratteristiche organolettiche. Ha colore rosso rubino molto intenso, bouquet ricco di aromi di frutta rossa, come fragole e lamponi, e di spezie nobili, un sapore secco, molto tannico, caldo di alcol, abbastanza morbido e una lunga persistenza aromatica intensa finale.
2.Barbera
Il Barbera è uno dei vitigni più coltivati nel mondo. In Italia, ma anche in California, lo si impianta perché si adatta molto bene a climi caldi e molto caldi. Contrariamente ad altri vitigni ai quali si vuol dare la stessa importanza, il Barbera ha la stoffa del purosangue se viene coltivato nelle regioni più fresche. Il vino si presenta con colore porpora molto profondo e aromi che vanno dal floreale con la violetta e la rosa canina, al fruttato con la prugna e la frutta secca. L’acidità è ben presente con note di grande freschezza. I tannini sono più limitati a favore di una discreta morbidezza. Dà ottimi risultati anche se passato in barrique.
3.Cabernet-sauvignon
È il vitigno del Bordolese che fornisce vini ricchi di tannini e si adatta facilmente alle più diverse condizioni. Presente in tutti i paesi produttori – e soprattutto presso quelli del Nuovo Mondo come Stati Uniti, Messico, Cile, Argentina, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda – ha aromi vegetali, fruttati, animali e di spezie, sapore molto secco, tannico, caldo di alcol e di buon corpo.
4.Merlot
Altro vitigno del Bordolese, ben presente nel mondo ma non molto stimato, forse per le rese eccessive a cui viene sottoposto, che gli tolgono carattere e personalità. Eppure, in Francia, è la base fondamentale del famoso Grand vin de Petrus. Ha aromi vegetali, di frutta rossa e di fiori. Sapore secco, morbido, di buona acidità e mediamente tannico.
5.Nebbiolo
Uno dei più grandi vitigni del mondo. Poco coltivato (solo in Piemonte e in Lombardia), associa una qualità eccezionale a un isolamento quasi assoluto. Di colore rosso granato fin dalla giovinezza, si presenta con aromi di frutta fresca, frutta secca, spezie e aromi vari (in specie il tartufo e il tipico “catrame”), e con un sapore molto caldo e sapido, tannico, abbastanza morbido e di lunga persistenza gusto-olfattiva.
6.Pinot nero
Per la difficoltà di adattamento, questo vitigno di qualità, originario della Bourgogne e della Champagne, occupa superfici modeste. Tuttavia è presente in Italia e in molti paesi, dagli Stati Uniti all’Europa dell’Est. All’esame gusto-olfattivo presenta una buona struttura, è morbido, poco tannico e con aromi di frutta a piccole bacche (ribes e mirtillo).
7.Sangiovese
I vigneti dell’Italia centrale sono coperti da questo nobile vitigno che, grazie alle numerose selezioni clonali, oggi dà risultati eccellenti nella produzione dei Chianti, del Brunello di Montalcino e di altri grandi toscani. Il vino si presenta con aromi floreali di violetta e di ginestra, di frutta rossa con note di prugna mentre al sapore è secco, leggermente tannico, abbastanza morbido, di buona alcolicità e persistenza gusto-olfattiva.
8.Syrah
Originario della Cenes du Rhóne settentrionale, è ben presente in Australia con il nome di Shiraz e in Sudafrica come Shyraz, dove dà risultati eccezionali. Intenso di colore, ricco in polifenoli, presenta aromi di fiori come la violetta, frutta a piccole bacche e pepe nero. Ha sapore secco, è caldo di alcol, morbido e leggermente tannico.
9.Tempranillo
È il classico e più importante vitigno della Spagna, diffuso nella Rioja. Dà un vino dall’intenso colore rosso rubino con riflessi granati. Il suo bouquet è ricco di aromi di frutta matura quali le more, il lampone, il ribes nero oltre a importanti note di foglie di tabacco, cuoio, vaniglia e liquirizia. In bocca è molto caldo di alcol con una discreta nota tannica e di sapidità. Termina con una persistenza gusto-olfattiva piuttosto lunga.
10.Zinfandel
Il vitigno californiano per eccellenza, che dà vini di stili europeo. In Italia è conosciuto con il nome di Primitivo e in Croazia, di dove è originario, come Plavac màli. Dà un vino secco con esuberanti aromi floreali che si trasformano con l’invecchiamento in un ricco bouquet speziato. Il tenore in alcol è abbastanza elevato, con molto estratto ma una acidità ragionevole e una discreta persistenza gusto-olfattiva.
• La classificazione dei vini I vini si classificano in:
1)VDT o Vino da tavola, prodotto al di fuori dei disciplinari con il rispetto di alcune regole minime, nessuna indicazione del vitigno, menzione del colore bianco o rosso.
2)IGT o Indicazione Geografica Tipica, per cui si intende il nome geografico di una zona utilizzato per designare il prodotto che ne proviene (es. Colline del Milanese); sono vini che possono riportare l’indicazione del vitigno e sono regolati da un disciplinare di produzione.
3)VQPRD, Vino di Qualità Prodotto in Regione Determinata che si può ulteriormente caratterizzare come:
•VLQPRD o Vino Liquoroso di Qualità Prodotto in Regione Determinata
•VSQPRD o Vino Spumante di Qualità Prodotto in Regione Determinata
•VFQPRD o Vino Frizzante di Qualità Prodotto in Regione Determinata
I vini VQPRD si suddividono in Italia nelle tradizionali denominazioni:
DOC, Denominazione di Origine Controllata
DOCG, Denominazione di Origine Controllata e Garantita
Per ciò che riguarda i vini IGT essi devono riportare il nome dell’area geografica da cui provengono le uve. Per denominazione geografica si intende il nome geografico di una zona viticola particolarmente vocata, in cui il vino viene sia prodotto sia elaborato.
I vini DOC che a livello europeo appartengono ai vini VQPRD devono riportare la zona di provenienza e in alcuni casi anche la sottozona.
La menzione “Classico” indica poi che il vino è prodotto in una zona più ristretta particolarmente votata, la dizione “Superiore” ci dice che il vino ha una gradazione alcolica maggiore e “Riserva” che il vino ha ricevuto un invecchiamento più lungo. I vini DOCG hanno anche una fascetta con il contrassegno di stato in cui è indicata la numerazione delle bottiglie.
Il caso dei vini spumanti e dello champagne
Un caso particolare è quello delle etichette di vini spumanti e champagne, che devono riportare il tenore in zucchero contenuto, adottando una delle seguenti espressioni:
•”pas dosé” se il tenore in zucchero è inferiore a 3g/I (si tratta di diciture che possono essere usate solo per i prodotti che non hanno subito aggiunta di zucchero dopo la formazione della spuma)
•”extra brut” se il tenore di zucchero è compreso tra O e 6 g/I
•”brut” se il tenore di zucchero è inferiore a 15 g/I
•”extra dry” se il tenore di zucchero è compreso tra 12 e 20 g/I
•”dry” se il tenore di zucchero è compreso tra 17 e 35 g/I
•”demi-sec” se il tenore di zucchero è compreso tra 33 e 50 g/I
• Il menu nella storia
Un primo accenno alla “lista cibaria” si trova nel Saporetto, un poema in sonetti dell’orvietano Simone Provenzani risalente agli inizi del Quattrocento che anticipa quella capacità di osservazione del buon vivere che nel Cinquecento raggiungerà l’apice nel Cortegiano di Baldassar Castiglione.
Nell’Opera dell’Arte di Cucinare di Bartolomeo Scappi, “cuoco segreto” alla corte pontificia di Papa Paolo III Farnese e di Pio V, il quarto capitolo è dedicato alle “Liste”. Qui !e vivande sono divise secondo le stagioni, e lo Scappi, di origine bolognese, dimostra di possedere una notevole capacità di cogliere ogni particolare dell’organizzazione culinaria: nel primo libro, ad esempio, suggerisce come si costruisce un ambiente ad uso cucina e come si riconoscono e conservano le buone vivande.
Ma la vera consacrazione del menu come elemento indispensabile dell’offerta gastronomica si ha con il passaggio dal “servizio alla francese” al “servizio alla russa”.
Con il primo sistema, tutti i cibi venivano portati in tavola in anticipo e i commensali potevano così scegliere di mangiarli nell’ordine da loro preferito: praticamente ogni commensale componeva il proprio personale menu, avvicinandosi un po’ al concetto attuale di buffet.
Con l’introduzione del servizio alla russa, invece, i cibi venivano portati in tavola uno alla volta, secondo un ordine prestabilito, caldi e appena confezionali alcune delle preparazioni corredate da un cartellino con il nome del piatto.
La diffusione di questo metodo si deve al principe Alessandro Borisovich Kurakin, ambasciatore dello zar a Parigi dopo la disastrosa ritirata dell’armata napoleonica dalla Russia. Nel corso dei suoi ricevimenti all’ambasciata, il principe metteva in tavola solo i piatti e le decorazioni floreali, spettava poi ai valletti portare tutte le preparazioni, dall’antipasto al dessert.
In Italia uno dei primi menu scritti fu utilizzato da Casa Savoia nei primi anni dello scorso secolo.