Nel medioevo francese, Arras, in Piccardia, fu un centro culturale notevole, secondo solo a Parigi. Nella decade tra il 1276 e il 1285 un trovatore locale scrisse e fece rappresentare (una ad Arras e una alla corte franco-angioina di Napoli) due commediole teatrali musicali che, per quanto di scarsissimo valore sostanziale, sono assurte invece a grandi onori filologico letterari per ragioni puramente storiche.
Il trovatore di cui parliamo è Adam de la Halle. Si sa poco o nulla di lui, salvo che era di Arras, scrisse molto, nelle diverse forme poetiche dell’epoca, viaggiò parecchio, morì, pare, in Italia.
Insieme con i suoi contemporanei (o quasi…) Jean Bodel e Rutebeuf è considerato uno dei capisaldi fondatori della letteratura francese.
I due pezzi teatrali di Adam presentano due caratteristiche fondamentali. Sono di tema profano (pastorale il primo, Robin e Marion, cittadino-borghese il secondo, La Pergola). Il che, di per sé, in quel medioevo lontano ancor fortemente intriso di religiosità, è già innovativo e considerevole. E portano in scena, come protagonisti, poveri cristi tolti dal volgo. E anche questo è innovativo e notevole.
Le storie raccontate, entrambe, sia pure diverse tra loro, sono piuttosto inconsistenti.
Le jeu de Robin et Marion
In Robin e Marion i due protagonisti sono entrambi pastori di pecore, innamorati l’un l’altro.
Marion, al pascolo, viene avvicinata da un cavaliere arrogante e prepotente che sta andando a caccia con il falcone. La ragazza è carina: il cavaliere ci fa su un pensierino e cerca di sedurla. L’approccio lo prende alla larga “bella fanciulla, non hai visto, da queste parti, un’anitra volare allo stagno…?” (30,33).
Poiché la ragazza non abbocca e si destreggia fingendosi stupidina, il cavaliere passa a offerte più esplicite “vorreste, dolce pastora, venire con me a divertirci su questo bel palafreno, lungo questo boschetto, in questa valletta?” (69-71). Ma Marion resiste, dichiara di amare un pastore, riesce per ora a dissuadere il cavaliere che s’inoltra nel bosco a cacciare.
Sopraggiunge Robin e Marion gli racconta quanto è avvenuto: “è venuto un uomo a cavallo, sul pugno teneva una specie di nibbio, mi ha pregato di amarlo, ma con poco profitto perché io non ti farò torto alcuno…” (125-130). Cantano ballano e mangiano, i due, e poi Robin lascia di nuovo sola Marion per andare a chiamar due suoi cugini che “… mi sarebbero di gran aiuto se il cavaliere tornasse” (223-224). “Sono venuto qui a cercarvi perché un individuo a cavallo ha appena corteggiato Marion e temo ancora che ritorni da queste parti…” (242-246). “Porterò il mio forcone” dice un cugino, “e io la mia grossa mazza” , dice l’altro, e invitano anche un paio di ragazze per far festa tutti insieme.
Intanto il cavaliere torna, di nuovo cerca di sedurre Marion, di nuovo lei resiste, e allora il prepotente passa alle vie di fatto e cerca di rapirla caricandosela sul cavallo.
Torna in quel momento Robin e il cavaliere gli allunga un paio di ceffoni e lo lascia pesto, portandosi via Marion, i cui rifiuti, tuttavia, lo inducono a scaricarla definitivamente: “certo sono proprio un’idiota a perder tempo con questa bestia: addio, pastora!” (384-386).
Ora che il pericolo si è allontanato Robin si fa audace: l’avrebbe sistemato lui a dovere il cavaliere se i suoi cugini non l’avessero trattenuto a fatica…
Più o meno la vicenda finisce qui, anche se il poeta va avanti (siamo arrivati al verso 420) per altri 300 versi e passa (l’intero testo è di 770 versi) di tema pastorale vero e proprio: profferte d’amore, baci, abbracci, canzoni e danze, promessa di matrimonio, giochi di società, qualche volgarità, un pic-nic a base di “formaggi freschi”, “piselli arrostiti”, “mele cotte”, imbandito sul prato… “fa stendere qui la tua giubba a mò di tovaglia e mettetevi sopra i viveri…” (685-687). Si conclude, la piece, con una danza di gruppo, una “tresca”, a suon di cornamusa, guidata da Robin.
Tutto qui. In una lingua ancora piuttosto approssimativa e primitiva ma nella quale già senti la futura lingua francese.