Proveniente da una comunità ebrea della Galizia, non ebbe mai una patria. Sopo la grande guerra diventò reporter, uno dei migliori della sua generazione, e percorse tutta l’Europa. Imparò ad andare al di là delle apparenze, e a trovarvi i tratti caratteristici delle situazioni: fin dal 1926 scoprì nell’URSS, sotto la fraseologia socialista, la realtà di un sistema fortemente burocratizzato.
Influenza da Flaubert e da Stendhal, in Germania si costruì uno stile eccezionale; sobrio, netto, capace di svelare una sensibilità contenuta, colorata di un cupo umorismo.
Hotel Savoy, 1924
La ribelline, 1924
Fuga senza fine; una storia vera, 1927
Giobbe, 1930
La cripta dei cappuccini, 1938.
Il titolo del suo romanzo più famoso La marcia di Radetsky (1932), si riferisce alla celebre marcia di Johann Steauss padre. Roth evoca la monarchia austro-ungarica nel momento del suo declino; gli Asburgo avevano saputo far vivere in pace le varie etnie dell’Europa centrale, compresi gli ebrei; la scomparsa di Francesco Giuseppe nel 1916 segnò il crollo di un’intera civiltà e l’irruzione nella storia di nazionalismi devastatori.
Tarabas
E’ uno degli ultimi (non numerosi, ma tutti significativi e notevoli) romanzi di Roth. Pubblicato nel 1934, reca il sottotitolo Un ospite su questa terra. Roth si era già affermato con due romanzi: Giobbe e La marcia di Radetzky, del 1932 entrambi; ma un altro racconto, Fuga senza fine, nel 1927 aveva rivelato lo scrittore, il quale aveva preso posizione con la prefazione in cui asseriva che “non si tratta più di poetare. L’importante è ciò che si è osservato”: in tal modo “quest’uomo tormentato da un’implacabile lucidità penetrativa, e perciò stesso odiatore d’ogni bigotteria politica e d’ogni tendenza letteraria”, si era autoproclamato “l’annunciatore e il caposcuola ideale della Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività)” (Rocca). Il presente romanzo segna un “trapasso evolutivo” (Rocca) nell’arte di Roth che, nel reportage imperante in quegli anni (sono gli anni dei libri di Remarque), si dimostra “un prosatore di grandissime doti” (Mazzucchetti). Figlio di un’ebrea galiziana e nato in Volinia, Roth ha reso con commossa perizia lo sfondo etnico-geografico, gli usi, il profumo, la nativa consistenza di quella terra ucraino-polacca e della commistione degli Ebrei alla popolazione ed alla storia di quei Paesi. Così è anche in Tarabas. Nicola Tarabas è un giovane russo di statura gigantesca, tutto istinti e superstizione, il quale è costretto a emigrare in America, negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, in seguito alla sua partecipazione a un gruppo rivoluzionario. Figlio di una famiglia benestante, il padre gli mette in mano una manciata di denaro, altro promette di mandargliene, e il giovane s’imbarca per New York, dove però si sente spaesato e solo. S’innamora di una kellerina, delle sue parti, Katharina, e così gli riesce per qualche tempo di tollerare l’acuta nostalgia che lo tormenta e lo rende sempre più aspro e insofferente. Ma il mestiere di Katharina la espone continuamente alla violenta gelosia di Tarabas, il quale passa quasi tutte le giornate nel suo locale e la sorveglia. Un giorno, incontra per caso una zingara; superstizioso come è, si fa leggere la mano: la zingara gli predice che sarà un assassino e un santo. Tarabas ne è profondamente impressionato. Lo stesso giorno, per motivi di gelosia, si scaglia contro il padrone del locale di Katharina e dopo una violenta colluttazione, convinto di averlo eliminato, fugge. Subito dopo, avviene la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Russia, e Tarabas ottiene di poter rimpatriare, per presentarsi volontario. Giunto in patria, la famiglia lo accoglie con grande affetto, lieta che vada a combattere per la santa Russia: padre, madre e sorella lo preparano alla partenza, ma durante il breve soggiorno in famiglia egli s’innamora e seduce la procace cugina Maria promettendole di sposarla al suo ritorno. In guerra combatte con una temerarietà e un eroismo fuori del comune, e si guadagna presto i galloni di capitano e poi di colonnello, soprattutto per le sue azioni violente e coraggiose allo scoppio della rivoluzione. Presto, in quel caos, la sua personalità prepotente lo rende capo di una piccola città, Koropta, di cui diventa l’arbitro e il padrone. Tarabas, con la sua natura violenta, ne approfitta ampiamente, ed è temuto da tutti. Qui il quadro etnico è particolarmente vivace e colorito, i tipi umani si susseguono sotto la penna vigorosa dello scrittore: il buon maresciallo Konzew, che Tarabas predilige e che lo adora, l’oste della trattoria Kristianpoller, il rosso ebreo mezzo scemo Shemarjah, e tanti altri. Avviene un sanguinoso pogrom, per l’incuria di Tarabas, e durante il tentativo di reprimerlo Tarabas perde il fedele Konzew: il dolore gli fa salire il sangue agli occhi, ed egli se la prende col povero Shemarjah, che prima di fuggire vuol seppellire gli arredi sacri. Ancora una volta Tarabas si scaglia con violenza contro un inerme, e un pugno della barba rossa di Shemarjah gli resta tra le mani: il poveretto, quasi fuori di senno, fugge. Ma, dopo questo fatto, la coscienza di Tarabas ha un crollo: egli riconosce di avere la natura dell’assassino, come aveva predetto la zingara. Allora prende una decisione: fa le consegne al suo generale, Lokubeit e lasciata la divisa prende il bastone del viandante e del penitente. Ha inizio così il lungo suo pellegrinaggio senza meta, col solo intento di redimersi e di far penitenza. Ritorna per prima cosa al paese natale: qui, sotto le spoglie del pellegrino e del mendicante, apprende da un servo che i suoi lo credono disperso e che la cugina Maria se n’è andata in Germania con un ufficiale tedesco. Rivede, non riconosciuto, il padre paralitico e la madre rimbambita, e li sente estranei, come estranea gli appare la sua casa e il suo paese. Tarabas riparte senza farsi riconoscere: tutto gli è estraneo e lontano. E così continua a ramingare dormendo nei fienili o sul ciglio della strada, vivendo di una piccola pensione e soffrendo il freddo. La natura, anche se avversa, è il suo solo rifugio. Si ammala, e ormai si trascina a stento. Ma vuole ritornare a Koropta: qui trova rifugio nel convento di Lobra, dove il padre Eustachio gli offre una cella e vuole curarlo. Ma Tarabas è agli estremi. Desidera soltanto ottenere il perdono del povero Shemarjah, che abita non lontano. E il padre Eustachio va dall’uomo e lo prega di venire al convento: Shemarjah non va, ma invia il suo perdono e così Tarabas può morire tranquillo. Sulla sua tomba, a Koropta, c’è una lapide che reca scritto il suo nome e sotto “un ospite su questa terra”. L’interesse del romanzo “sta specialmente nei quadri ambientali, nell’alternarsi della religiosità col fanatismo e nella comprensione artistica e morale delle cose più opposte” (Rocca). Anche se la figura del protagonista talvolta appare sforzata, quasi un po’ convenzionale, la grande vivacità del quadro, degli orrori bellici e delle fiammate tremende della rivoluzione, l’introspezione di cui è fatta oggetto specialmente la figura secondaria, la cura del dettaglio e dello stato d’animo sono da grande narratore, assolutamente padrone dei suoi mezzi e di una scrittura disadorna e pregnante.
La marcia di Radetsky
La famiglia Trotta, di stirpe slovena e contadina, acquista lustro sui campi di battaglia di Solferino (1859), quando il luogotenente di fanteria Joseph Trotta salva la vita al giovane imperatore Francesco Giuseppe e ne riceve in ricompensa il titolo di nobiltà. L’eroe di Solferino è ricordato in tutti i libri di testo dell’Impero e trasmette agli eredi il compito di salvaguardare tale eroismo con l’assoluta devozione e il perfetto decoro di fedeli sudditi della monarchia. La vita della famiglia Trotta si svolge parallela a quella del longevo imperatore: Carl Joseph, l’irresoluto e debole nipote dell’eroe di Solferino – le cui modeste vicende di carriera e d’amore occupano buona parte del romanzo – scompare in uno dei primi scontri della guerra 1915-18; il padre, dopo avere atteso nel parco di Schonbrunn l’annuncio della scomparsa dell’imperatore, si lascia a sua volta morire nell’autunno piovoso, che suggella anche la fine di un’epoca.