Romanzo già famoso del genovese Giovanni Ambrogio Marini (circa 1594-1650), le cui due parti sono date per stampate a Bracciano nel 1640 e a Venezia nel 1641, come traduzione dal tedesco e sotto il nome anagrammato, per l’autore, di Giovanni Maria Indris boemo.
L’intreccio è molto complicato: si tratta veramente di un’enorme macchina romanzesca, che comprende personaggi di ogni età e condizione. Molti episodi si intrecciano al fine di generare interesse nei contemporanei dello scrittore, spesso infatuati di composizioni di tal genere. L’imperatore d’Oriente, vedovo con una figlia e un figlio – il nostro Calloandro -, si innamora della regina di Trebisonda che è vedova con un figlio e una figlia, Leonilda. Costei è bella e valorosa: vestita da cavaliere compie notevoli prodezze. Non è da nascondere che dal canto suo il predestinato eroe che dà nome all’opera ne compie di altrettanto meravigliose. Tutto è reso con accorta combinazione di caratteri e di eventi. Le giostre sono all’ordine del giorno. I due si somigliano come due sosia: neanche a farlo apposta – anzi proprio per quello, per amore dell’astrologia – sono nati lo stesso giorno. Di qui derivano tante concordanze per la trama stessa delle loro esistenze. La identità delle loro fattezze crea molti imbrogli ed equivoci: ma si amano perché così è scritto nel fato, anche senza conoscersi reciprocamente di nome e senza essersi veduti se non per virtù di sogno. Comunque Leonilda – per dar novità alla trama romanzesca l’autore non disdegna questi accorgimenti – odia Calloandro che la madre e l’imperatore le promettono in nozze: ragion di più per consacrare la sua fedeltà allo sconosciuto vagheggiato in sogno. Buon per loro che la sorte, o meglio il Fato (benigno personaggio da tragedia in panni più familiari nei romanzi), aggiusta tutto. Calloandro, pertanto, diviene prigioniero di una certa duchessa, e nel castello di lei, per giunta. Leonilda, saputa in sogno tale avventura sconcertante – per lei almeno -, accorre e libera l’amato. Conosciutisi finalmente di persona, tutto si appiana mirabilmente. Gran feste quindi a Trebisonda, non solo per le nozze dei due giovinetti, ma anche per quelle dell’imperatore e della regina. Opera in complesso fortunata, oltre a manifestare elegantemente l’influsso ormai tradizionale del Decameron in molte parti del racconto, mostra una notevole idealizzazione dell’amore nella stessa società preziosa del tempo. Anche l’età doveva dare un tono a tanto racconto scompaginato e romanzesco, dinanzi a cui gli stessi poemi cavallereschi assumevano come l’aspetto di un recondito riferimento al passato. Il romanzo in altre edizioni – a cominciare da quella del 1652 – per la felice soluzione, e per certo tono moraleggiante dell’eroe, e nonostante avventure pressoché degne di scandalo nei particolari narrativi, meritò quindi il nome di Calloandro fedele. Fu proseguito dall’autore stesso nelle Gare dei disperati (1644), rifatto nelle Nuove gare de’disperati (1653) e anche negli Scherzi di fortuna a pro’dell’innocenza (1662). Fu anche tradotto, sunteggiato e imitato. Perfino il celebrato Georges de Scudéry (1601-1667) e Gautier Costes de la Calprenède (m. nel 1663) vi getteranno gli occhi sopra per le loro opere. E di esso in qualche parte anche si gioverà Thomas Corneille (1625-1709), per una sua commedia. Un certo seguito della trama si trova nel Cavaliere della Rosa di un Gilberto Onofrio napoletano, pubblicato nel 1660.
G. A. Marini, Il Calloandro fedele,
in Romanzieri del Seicento, a cura di M. Capuce, Torino, UTET, 1974, pp. 261-262
Rimasto solo, il cavaliere di Cupido si mise a spasseggiare per lo giardino, molto confuso. Andava ruminando le cose che avea vedute in sogno ed il volta del cavaliere della Luna veduto co’ suoi due occhi. Sentia di ciò nel cuore disusati moti e stravaganti; onde, meraviglia avendone, tra sé dicea: “Che è ciò, mio cuore? Che sentimenti insoliti? Ho io sognato, o pure ho veduto con gli occhi propri? Pur troppo è vero e l’uno e l’altro; ma non è quegli che m’è comparso avanti un cavaliere? Di che dunque mi dolgo? E quale affetto mi tormenta? che desiderio? Anco nell’amare un arnico si pena? E si fatta pena proverò io solo, che forse-anche solo sì pertinacemente i tormenti negava che gli altri per bella donna pur troppo esperimentar debbono. Tale forse sper’io che sia questo giovane cavaliere? Ahi, Amore: se questo fosse, hai vinto; già io milito a te, già sono amante. Ma dove fondo questa speranza? Su ch’egli mi rassomiglia? E che? son io forse donna? Ah, che questo può ben essere, posciaché mi tormenta l’affetto d’un cavaliere. No no, non ho speranza ch’egli sia femina, poiché tale non può esser guerrier si forte, e chi esser vuol virile con la duchessa. Sì sì, t’ho pur inteso cuor mia desideri ch’egli sia femina; ma chi vide mai in amore desiderar impossibili, e sentirne passione? Amore, Amore, queste sono stravaganze dello sdegno tuo contro di me; queste sono pene straordinarie mai più poste in opera nel tuo tribunale. Ma mi sottrarrò ben io dalla tua tirannide; saprò ben io schernire l’arti tue. M’hai presentato avanti gli occhi volto simile al mio, perché non ti bastava l’animo d’indurmi ad amare fuor che un altro me stesso; ed io abborrirò a tuo dispetto ogni femina, fuggirò anco l’aspetto di questo cavaliere, e comincerò ad odiar me stesso, per potere odiar lui. E che? m’obbliga forse ad amarlo il vedere ch ‘egli abbia intrapreso la mia liberazione con tanta prontezza e cortesia? Ah, che non è questa sua tutta carità, sarà amore ver la duchessa. Non sa egli racquistar la sua, fuor che nella mia libertà. […] In queste confusioni si ritrovava il cavaliere di Cupido, per la forza che sentia di genio così potente: Egli non trovava luogo né quiete; non sapeva ciò che si volesse, ciò che desiderasse, ed andava pel giardino quasi farneticando.