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I promessi sposi è il più famoso romanzo storico italiano, vero e proprio emblema della letteratura nazionale del primo romanticismo nonché testo fondamentale per il successivo sviluppo della prosa in lingua italiana.
L’importanza del romanzo nel panorama letterario dell’Italia dell’Ottocento non dipende solo da considerazioni di tipo culturale e narrativo, ma è giustificata anche da un punto di vista strettamente linguistico: la lingua usata da Alessandro Manzoni nella sua stesura definitiva del testo è infatti una lingua volutamente “unificatrice”, priva di inflessioni dialettali, che l’autore utilizza con l’esplicito intento di fissare un modello stilistico e linguistico del tutto nuovo, capace di diventare un punto di riferimento imprescindibile per tutti i futuri scrittori. Questa circostanza è dimostrata – oltre che da svariati appunti e lettere manzoniane che la confermano – anche dal cospicuo numero di revisioni e rielaborazioni a cui Manzoni ha sottoposto la sua opera, modificandola nel corso degli anni in modo da adattarla alle evoluzioni della sua poetica e allo sviluppo delle sue convinzioni relative al ruolo fondamentale che la lingua doveva svolgere nel processo di definizione dell’identità nazionale italiana che in quel periodo – immediatamente precedente al Risorgimento – si stava formando. La prima versione della storia, infatti, viene redatta da Manzoni nel 1823, con il titolo provvisorio di Fermo e Lucia. Questa prima stesura del testo è tanto diversa dalla versione definitiva da poter essere considerata quasi come un romanzo a se stante: oltre alla lingua – segnata dalla presenza di elementi discordanti che mescolano dialetti lombardi, latino, toscano, francese e che verranno poi eliminati – molti elementi della trama sono differenti rispetto alla versione definitiva del romanzo. Il testo, considerato nel suo insieme, è decisamente poco edulcorato, in alcuni punti decisamente violento (simile, in questo, ai romanzi gotici diffusi a quell’epoca soprattutto in ambiente anglosassone), caratterizzato dalla presenza di continue digressioni di stampo saggistico e da molti elementi tematici presenti anche in altre opere manzoniane (come, ad esempio, quello della violenza della storia che fagocita le vicende esistenziali dei singoli uomini, tema centrale anche nella tragedia Adelchi).
Manzoni, negli anni successivi a questa prima stesura del testo, rielabora le idee fondamentali in essa contenute e, nel 1827, pubblica la prima versione a stampa del suo romanzo, che uscirà con il titolo definitivo di I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni. Questa versione del romanzo è più controllata dal punto di vista stilistico e più equilibrata nella trama, che lascia meno spazio agli aspetti più grotteschi, tragici e scabrosi della vicenda, e riscuote subito un grandissimo successo, accrescendo enormemente la fama di Manzoni non solo in Italia ma anche in Europa (il testo viene infatti immediatamente tradotto in francese, e già nel 1828 viene pubblicato oltralpe). Anche a seguito di questo grandissimo successo, Manzoni decide di lavorare a un’ulteriore versione del testo, che a suo parere non è ancora completamente soddisfacente dal punto di vista linguistico: l’autore lavora a questo progetto per svariati anni, trasferendosi anche in Toscana per poter approfondire la sua conoscenza del fiorentino, finché, nel 1840, pubblica la versione definitiva del romanzo, eliminando gli elementi percepiti come troppo dialettali e sostituendoli con espressioni o termini toscani, considerati non solo più corretti, ma soprattutto più adatti alla necessità di scrivere un romanzo capace di parlare a tutti gli abitanti del nuovo stato unitario italiano. Il successo dell’edizione del 1840 dei Promessi sposi fu straordinario, e l’opera fu subito percepita da tutti come il testo che fondava la prosa italiana moderna.
Nella concezione e nella stesura dei Promessi sposi Manzoni si attiene ad alcuni principi che – secondo le sue teorie estetiche e critiche, esposte nel 1820 nella Lettera a Monsieur Chauvet – non possono essere trascurati, se ci vogliono scrivere testi davvero significativi, capaci di andare oltre il mero intrattenimento del lettore. Secondo Manzoni, infatti, ogni testo che abbia vera ambizione letteraria deve avere per soggetto “il vero”, per obiettivo “l’utile” e per mezzo “l’interessante”: solo in un testo che rispetti questi canoni può realizzarsi, infatti, quella fusione tra poesia e storia che è fondamentale per riuscire a comporre opere significative come testi storici, ma anche accattivanti e godibili, per il lettore, come testi frutto di invenzione. Storia e poesia, quindi, non devono agire in alternativa ma hanno senso solo se considerate l’una come approfondimento dell’altra: solo la cooperazione tra le due discipline può portare all’elaborazione di romanzi capaci di comunicare significati e messaggi “utili”, formativi, educativi per il pubblico di futuri lettori.
I promessi Sposi rispettano esattamente questi principi: nel romanzo, infatti, Manzoni sceglie di dare ampio spazio alla narrazione del contesto storico in cui si svolge la vicenda, servendosi di documenti originali d’epoca (come ad esempio le “grida” secentesche contro i bravi citate nei primi capitoli del romanzo), inserendo nel racconto personaggi storici realmente esistiti (come Federico Borromeo) e facendo continui riferimenti a episodi storici concreti (come la discesa dei lanzichenecchi in Lombardia e la peste di Milano). I due protagonisti del suo racconto, però, non sono personaggi storici ma un uomo e una donna comuni, la cui vicenda personale è frutto dell’invenzione dell’autore. Solo in questo modo, compenetrando realtà storica e rielaborazione poetica, Manzoni può superare i vincoli della storia e costruire una narrazione che, pur essendo precisamente collocata nello spazio e nel tempo, è resa universale dalla profondità psicologica dei personaggi posti al centro della narrazione.
Ambientazione e contesto
I promessi sposi è a tutti gli effetti un romanzo storico: composto nella prima meta dell’Ottocento, racconta una vicenda avvenuta circa due secoli prima, che il narratore dichiara di aver ricavato da un manoscritto d’epoca che ha fortunosamente ritrovato. Questa finzione letteraria consente al narratore di sdoppiare il suo racconto inserendovi una duplice prospettiva: da una parte c’è la narrazione dei meri fatti, che lui ricava dal presunto “autografo” d’epoca, dall’altra ci sono le sue considerazioni, i suoi commenti e le sue osservazioni, frutto della sua prospettiva di uomo dell’Ottocento.
La vicenda narrata si svolge tra il 1628 e il 1630, all’epoca della dominazione spagnola della Lombardia. La scelta di quest’epoca non è casuale, e Manzoni stesso, in una lettera del 1822, scrive che quel periodo storico è straordinariamente interessante e significativo perché è caratterizzato da «Il governo più arbitrario combinato con l’anarchia feudale e l’anarchia popolare; una legislazione stupefacente per ciò che prescrive e per ciò che fa indovinare o racconta; un’ignoranza profonda, feroce, pretenziosa; delle classi con interessi e principi opposti; […] una peste che ha dato modo di manifestarsi alla scelleratezza più consumata e svergognata, ai pregiudizi più assurdi e alle virtù più commoventi». Secondo Manzoni, quindi, il contesto secentesco è straordinariamente interessante perché consente di andare a scavare in un periodo particolarmente buio, violento, irrazionale della storia d’Italia, scoprendo le radici di quelli che sono i problemi dell’Italia a lui contemporanea. Le prevaricazioni, la violenza, le ingiustizie sociali del Seicento sono, nell’ottica manzoniana, la matrice da cui derivano i problemi della nazione, e descrivere e criticare quella società passata è un modo per mettere in luce i nodi irrisolti del presente, fornendo anche il modello di un’ipotetica società futura, ancora da costruire, in cui gli interessi di tutti siano tutelati da un potere centrale solido, capace di punire i tentativi di prevaricazione dei forti nei confronti degli umili ma anche di tenere a freno il popolo che, se lasciato a se stesso, dà sfogo a quelle che –secondo Manzoni – sono pericolose e destabilizzanti tendenze anarchiche.
La storia è ambientata in Lombardia, e il paesaggio lombardo caratterizza in modo inconfondibile il romanzo fin dal famosissimo incipit, che descrive il Lago di Como e le montagne circostanti che faranno da sfondo a tutta la vicenda. La descrizione del paesaggio è un elemento centrale dell’opera, dato che – come è tipico di molti testi romantici – i luoghi si rivelano spesso una proiezione dei sentimenti dei personaggi che li abitano.
Personaggi principali
L’attenzione alla caratterizzazione psicologica dei personaggi è probabilmente l’elemento più innovativo che Manzoni inserisce nel suo romanzo: la scelta di descrivere personaggi comuni, infatti, non porta l’autore a ricorrere a immagini stereotipate ma anzi gli consente di creare una galleria di personaggi che, pur essendo frutto di invenzione, sono assolutamente credibili e dotati di una profondità psicologica del tutto nuova nel panorama letterario ottocentesco. La complessità è il tratto che accomuna tutti i personaggi manzoniani: nessuno di loro, infatti, è esente da vizi e da limiti (fa parziale eccezione a questo principio solo il cardinale Borromeo, che però appare dotato di virtù quasi ultraterrene che lo rendono più simile a un santo che a un uomo), e tanto i personaggi positivi che quelli negativi sono sezionati e analizzati da Manzoni con uno sguardo che non si limita alla superficie ma che vuole mettere in luce la complessità che è propria di ogni uomo.
Lucia Mondella: protagonista della storia. Orfana di padre, vive con la madre Agnese lavorando come operaia tessile in una delle piccole aziende lombarde che si occupano di lavorazione della seta. Rappresenta, nell’economia del romanzo, l’immagine dell’eroina innocente, costretta dalla violenza dei tempi e dalle circostanze a subire ingiustizie contro cui è del tutto disarmata. L’intera vicenda narrata nel romanzo ruota attorno alla sua figura, ma Lucia non compie in prima persona quasi nessuna azione: tutti i suoi gesti (ad eccezione del voto di castità che pronuncia nel castello dell’Innominato) sono influenzati da altri personaggi, che la spingono con la persuasione o con la forza a sottomettersi alla loro volontà. La virtù principale di Lucia è, secondo Manzoni, la sua completa disponibilità ad accettare la volontà di Dio e a confidare nella Provvidenza, tratti che le conferiscono una solidità morale che nessuna circostanza esterna riesce a scalfire, e che la protegge anche nelle circostanze più tragiche della sua vita.
Renzo Tramaglino: protagonista della storia, promesso sposo di Lucia. È anche lui un operaio tessile, esponente quindi del mondo proletario, e viene descritto da Manzoni come un ragazzo buono, umile, sinceramente desideroso di fare il bene e di vivere serenamente. A differenza di Lucia, però, Renzo non accetta passivamente le situazioni in cui si trova e, messo di fronte all’ingiustizia, cerca di reagire, spesso però in modo impulsivo, ingenuo e non razionale, finendo per compiere gesti che gli si ritorcono contro. Rappresenta, nell’ottica di Manzoni, l’uomo del popolo che, pur animato da buoni sentimenti, deve essere guidato sulla retta via da un’autorità superiore che sia capace di frenare le sue tendenze irrazionali, anarchiche e pericolose.
Agnese: madre di Lucia. È una donna del popolo, pratica, semplice, animata da un sincero amore per la propria figlia e per Renzo, che vuole ad ogni costo aiutare e che è convinta di poter guidare grazie alla sua maggiore esperienza. Anche lei, come Renzo, cerca di reagire alle ingiustizie che subisce senza limitarsi ad accettarle passivamente, ma le uniche armi che ha a sua disposizione sono astuzia e furbizia, che si dimostreranno insufficienti di fronte all’arbitrio e alla forza dei personaggi più potenti del racconto. Rappresenta la figura della madre amorevole, pronta a tutto per difendere i suoi figli e sinceramente desiderosa di ristabilire equità e giustizia, ma troppo debole per cambiare la realtà delle cose e, da un certo punto di vista, troppo arrogante e sicura di sé (tratto, questo, che emerge evidentemente nell’episodio del suo incontro con la monaca di Monza).
Don Abbondio: sacerdote, è il parroco che dovrebbe sposare Renzo e Lucia ma che, minacciato dai bravi di don Rodrigo, si rifiuta di farlo, innescando tutti gli eventi successivi e costringendo i due ragazzi a scappare dal paese e a separarsi. È un uomo meschino, egoista e pavido, la cui debolezza morale emerge con particolare evidenza quando si confronta con persone migliori di lui (emblematico è, a questo proposito, il suo dialogo con il cardinale Federigo Borromeo, che gli chiede conto delle sue mancanze come sacerdote e a cui don Abbondio risponde cercando di far ricadere la colpa di quanto è accaduto su Renzo e Lucia). Rappresenta, per Manzoni, la figura dell’uomo che, sapendo di essere debole, reagisce alle ingiustizie cercando di compiacere chi ha più forza, nel tentativo di salvare se stesso anche a costo di trasgredire a qualsiasi principio morale.
Don Rodrigo: nobile violento e annoiato, la sua figura rappresenta in modo emblematico la degenerazione a cui va incontro il potere aristocratico quando si trasforma in arbitrio e in abuso contro i più deboli. È un uomo avido e capriccioso, che non sopporta lo smacco di essere rifiutato da una donna del popolo come Lucia e reagisce decidendo che deve averla a ogni costo, anche contro la sua volontà, pur di dimostrare la propria forza nei confronti di un membro di una classe sociale ritenuta inferiore. Rappresenta la violenza e l’ottusità dell’uomo di potere che agisce solo per soddisfare i propri desideri, senza prestare attenzione né a considerazioni di tipo morale (come dimostra, nei primi capitoli del romanzo, il suo dialogo con Fra’ Cristoforo che cerca di indurlo a non infastidire più Lucia) né a ciò che è stabilito dalla legge, che sa di poter piegare a suo piacimento a causa della debolezza del potere centrale. Scompare solo e abbandonato da tutti i suoi bravi che, non appena il padrone si ammala di peste, lo tradiscono e si affrettano a rubare quanto più possono dal suo palazzo, a dimostrazione della fragilità del potere terreno fondato solo sulla sopraffazione.
Fra’ Cristoforo: frate cappuccino, è il confessore di Lucia e rappresenta, nel romanzo, la figura dell’uomo di chiesa che non è disposto ad accettare compromessi con il potere e che è pronto a tutto pur di difendere gli umili. Pur essendo uno dei personaggi più positivi e più nobili del romanzo, anche la figura di Fra’ Cristoforo nasconde degli elementi di negatività: prima di diventare frate, infatti, anche lui era un nobile arrogante e prevaricatore, ed è arrivato anche a ferire per motivi futili prima di convertirsi e decidere di dedicare il resto della sua vita all’espiazione delle sue colpe. Il passato del frate è centrale per la comprensione del suo personaggio, che è caratterizzato da una spiritualità rigorosissima e dal rifiuto di qualsiasi forma di abuso e sopraffazione nei confronti dei deboli, caratteristiche che lo rendono a volte anche molto duro e intransigente. Viene colpito da peste dopo aver dedicato i suoi ultimi giorni ad assistere i malati del Lazzaretto, in una sorta di martirio autoimposto, visto come unico mezzo per potersi finalmente redimere dalle colpe del proprio passato.
Gertrude: monaca nel monastero in cui si rifugia Lucia per sfuggire a don Rodrigo, la sua storia rappresenta quasi un romanzo a se stante all’interno dell’economia dei Promessi sposi (tale caratteristica era ancora più marcata nel Fermo e Lucia, in cui il racconto della vicenda personale di Gertrude occupava circa un quarto dell’intero romanzo). Gertrude è una fanciulla che, nata in una famiglia nobile, viene costretta dai genitori a diventare suora nonostante non senta alcuna vocazione per la vita religiosa. Questa costrizione segna irrevocabilmente la sua esistenza e la rende una donna inquieta, insoddisfatta, attratta dal mondo esterno al convento e costantemente spinta a infrangere le regole a cui deve sottomettersi, per desiderio di riaffermare in qualche modo la sua autonomia personale. Questo insieme di contraddizioni e di conflitti la spingono a intrecciare una relazione con un uomo che abita vicino al convento e da cui ha anche dei figli, che lui provvede a far sparire nel nulla subito dopo la nascita. Quando una consorella scopre la tresca, Gertrude si fa prendere dal terrore e chiede aiuto all’amante, che con il suo aiuto elimina la suora e ne nasconde il cadavere. Quest’omicidio aumenta i sensi di colpa di Gertrude e, parallelamente, la sua frustrazione per la vita che è costretta a condurre, rendendola sempre più inquieta e disperata, vera e propria marionetta costretta ad agire come vogliono coloro che la circondano, siano essi i suoi familiari o il suo amante Egidio. La figura di Gertrude è una figura terribile, tragica, a tratti commovente pur nella sua negatività e nella sua crudeltà, che reagisce ai soprusi di cui è vittima riversando la sua frustrazione e la sua rabbia sugli altri, accanendosi in particolare con chi si trova in posizione subordinata rispetto a lei. Il rapporto che la suora instaura con Lucia, che le viene affidata perché la protegga, è molto particolare, e Manzoni lo descrive con grande acutezza psicologica: la ragazza, infatti, con la sua ingenuità e purezza suscita in Gertrude sentimenti contrastanti, di protezione ma anche di rabbia, che la convincono infine a favorire il rapimento della ragazza da parte dell’Innominato.
Innominato: nobile e potente signore locale, rapisce Lucia per conto di don Rodrigo mentre la ragazza è affidata alle cure di Gertrude. La figura dell’Innominato è una delle più complesse dell’intero romanzo, dal momento che rappresenta l’immagine dell’uomo che, dopo un’esistenza segnata solo dalla crudeltà e dalla violenza, si lascia redimere dalla fede e cambia radicalmente vita. La figura dell’Innominato è emblematica soprattutto per la sua capacità di essere “grande” anche nel male: a differenza di don Rodrigo, che è un nobile di piccolo rango che si accanisce sui deboli e sugli inermi sostanzialmente per noia e per meschinità, l’Innominato è crudele in modo totale, circostanza che fa sì che tutti lo temano. Dopo anni di soprusi, però, il nobile si scopre potente e temuto ma vecchio e insoddisfatto, e comincia ad essere tormentato da un sentimento che non sa mettere a fuoco ma che lo rende sempre più scontento e rabbioso: si tratta di un senso di colpa che lo conduce prima alle soglie del suicidio e che lo convince, poi, a cambiare vita. Nella sua conversione sarà centrale l’intervento di Lucia, che gli chiede pietà dimostrando di avere totale fiducia in lui: in questo modo la ragazza gli dà l’occasione di compiere la prima azione non cruenta e non prevaricatrice della sua vita, aprendo la strada al suo definitivo abbandono della violenza.
Cardinale Federigo Borromeo: arcivescovo di Milano. Di lui Manzoni scrive che è uno dei pochi uomini di ogni tempo ad aver impiegato «un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grande opulenza, tutti i vantaggi di una condizione privilegiata, un intento continuo» all’unico obiettivo di «ricercare ed esercitare il meglio». Il Cardinale rappresenta, insomma, una delle vette più alte a cui la vita spirituale può condurre, e appare dotato di virtù quasi sovrumane, ultraterrene.
Trama in sintesi
Il romanzo si apre con una breve presentazione, in cui il narratore dichiara di aver ritrovato un “dilavato e graffiato autografo” secentesco in cui era raccontata una storia che a lui “era parsa bella”, e di aver quindi deciso di trascriverla perché non fosse dimenticata. A questa premessa seguono i 38 capitoli del romanzo vero e proprio, che riportano la narrazione dei fatti intervallati da frequenti interventi del narratore, che commenta e chiosa la storia.
Capitoli 1-3: vengono introdotti i personaggi principali della storia, che si apre con l’immagine di don Abbondio che, durante una passeggiata serale nei pressi del suo paese, viene fermato dai bravi di don Rodrigo. Gli uomini gli ordinano di non celebrare il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, previsto per l’indomani, limitandosi a dire che il loro padrone è contrario alle nozze. Il vecchio sacerdote torna a casa terrorizzato e decide immediatamente di obbedire agli ordini ricevuti e, quando il giorno seguente incontra Renzo, cerca di indurlo a posticipare il matrimonio adducendo scuse poco convincenti. Renzo si infuria con don Abbondio e lo minaccia, ma poi si rassegna e comunica a Lucia che la cerimonia deve essere rinviata. La ragazza spiega allora a lui e alla madre di essere stata vittima delle attenzioni di don Rodrigo e intuisce che il rifiuto di don Abbondio di celebrare le nozze è dovuto a un intervento del signorotto locale. Spaventato, Renzo decide – su consiglio di Agnese – di rivolgersi a un noto avvocato, Azzeccagarbugli, che dovrebbe aiutarlo a far valere i suoi diritti. Quando però il ragazzo lo consulta e gli spiega di essere vittima dei ricatti di don Rodrigo, scopre che l’avvocato non ha alcuna intenzione di mettersi contro un nobile per aiutare un semplice uomo del popolo. Deluso dall’esito negativo di questo primo tentativo di risolvere la situazione Renzo torna a casa, dove decide, con Lucia e Agnese, di chiedere consiglio a Fra’ Cristoforo, confessore di Lucia e religioso in cui la ragazza ripone grande fiducia.
Capitolo 4: excursus sul passato di Fra’ Cristoforo, di cui vengono raccontate la giovinezza dissoluta e poi la conversione.
Capitoli 5-7: Fra’ Cristoforo decide di recarsi al palazzo di don Rodrigo per provare a convincere il signore a desistere dai suoi piani su Lucia. I due hanno un confronto molto teso, al termine del quale don Rodrigo insulta il frate, che risponde ricordandogli che prima o poi i suoi crimini saranno puniti dalla giustizia divina, se non da quella terrena. Convinto di non poter far altro per aiutare Lucia, Fra’ Cristoforo decide di portare lei e la madre al sicuro in convento, mentre don Rodrigo, indispettito dalle accuse del frate, è sempre più deciso a portare a termine i suoi propositi e organizza il rapimento della ragazza. Mentre Fra’ Cristoforo porta avanti la sua missione, Renzo e Agnese cercano di trovare una soluzione alternativa per risolvere la situazione: decidono, quindi, di costringere don Abbondio a sposare i due fidanzati anche contro la sua volontà sorprendendolo mentre è solo in casa e obbligandolo ad ascoltare, in presenza di testimoni, la formula di matrimonio. Lucia inizialmente è contraria a questo progetto e preferirebbe limitarsi a seguire i consigli di Fra’ Cristoforo, ma le pressioni congiunte della madre e del fidanzato la convincono ad accettare.
Capitolo 8: il tentativo di Renzo e Lucia di farsi sposare da don Abbondio introducendosi in casa sua di nascosto fallisce. Prima che i due fidanzati possano tornare a casa, però, vengono fortunosamente avvertiti del fatto che lì, ad aspettarli, ci sono i bravi di don Rodrigo, e grazie all’aiuto di Fra’ Cristoforo riescono a scappare insieme ad Agnese e a rifugiarsi in convento. Per la sicurezza di tutti, il frate consiglia ai due ragazzi di separarsi: Renzo viene inviato in un convento milanese, mentre Lucia e sua madre sono accolte a Monza nel convento di Gertrude.
Capitoli 9-10: excursus sulla storia personale di Gertrude, sulla sua infanzia e sulla sua infelice vita di monaca.
Capitoli 11-18: mentre Agnese e Lucia sono a Monza, Renzo raggiunge Milano, dove sono in corso tumulti popolari perché scarseggia il pane. Renzo assiste all’assalto ai forni da parte della folla inferocita e, dopo un’iniziale perplessità, si fa coinvolgere nella rivolta e tiene un discorso in piazza, accusando i potenti e gli approfittatori. Galvanizzato dalla situazione e dal suo successo personale rinuncia all’idea di farsi accogliere nel convento suggeritogli da Fra’ Cristoforo e passa invece la sera all’osteria, dove si ubriaca e rivela la sua identità a un poliziotto, che il giorno successivo lo fa arrestare. Approfittando del caos Renzo riesce a scappare e a confondersi nella folla, ma essendo ricercato non può restare nel territorio di Milano: attraversa quindi il fiume Adda per rifugiarsi da un cugino che vive nel bergamasco, zona sotto il controllo della Repubblica di Venezia. Contemporaneamente don Rodrigo continua a cercare Lucia, non riuscendo a sopportare lo smacco di essersela fatta sfuggire. Grazie all’aiuto di amici e parenti influenti riesce a far trasferire Fra’ Cristoforo in un convento lontano, in modo che non possa più aiutare la ragazza, e scopre infine che la ragazza è nascosta a Monza.
Capitoli 19-20: excursus sulla storia dell’Innominato, a cui don Rodrigo chiede aiuto per riuscire finalmente a rapire Lucia. L’Innominato accetta di aiutarlo e organizza il rapimento della ragazza, servendosi dell’aiuto dell’amante di Gertrude, che induce la monaca a far uscire Lucia dal convento. Lucia viene rapita e portata al palazzo dell’Innominato, in attesa di essere inviata da don Rodrigo.
Capitolo 21: Lucia, terrorizzata dal destino che la aspetta, fa voto alla Madonna e promette di rimanere vergine per tutta la vita, se si salverà dal pericolo in cui si trova. Contemporaneamente, l’Innominato è sempre più tormentato dal senso di colpa per la sua vita dissoluta e arriva a un passo dal suicidio.
Capitoli 22-25: l’Innominato, dopo una notte insonne, scopre che il cardinale Borromeo è in visita vicino al suo paese e decide di incontrarlo. Dopo un breve excursus sulla storia del cardinale viene descritto l’incontro tra i due uomini, che segna la definitiva conversione dell’Innominato e la sua decisione di abbandonare la sua vecchia vita di violenze e sopraffazioni. Al termine dell’incontro con il cardinale l’Innominato decide di liberare Lucia, che viene consegnata a don Abbondio e accompagnata in una casa della zona, dove viene temporaneamente accolta da un sarto e dalla sua famiglia. In seguito, la ragazza viene affidata a donna Prassede, una nobildonna milanese nella cui casa dovrebbe essere al sicuro per qualche tempo, in attesa di poter tornare a casa senza correre ulteriori pericoli.
Capitoli 26-27: Lucia chiede ad Agnese di far sapere a Renzo del voto di castità che ha pronunciato, invitandolo a non cercarla più. Il ragazzo, intanto, ha assunto una nuova identità e ha trovato lavoro nel bergamasco, ma non vuole rinunciare a Lucia e aspetta solo di avere un’occasione per tornare nel territorio di Milano a cercarla.
Capitoli 28-30: i lanzichenecchi invadono il ducato di Milano, portando prima la carestia e poi la pestilenza. La popolazione terrorizzata cerca di rifugiarsi nei castelli fortificati, e Agnese e don Abbondio chiedono ospitalità all’Innominato che, dopo la conversione, si adopera per il bene del prossimo mettendo a disposizione di tutti i suoi possedimenti e le sue ricchezze.
Capitoli 31-33: a Milano scoppia la peste, che porta panico e violenze inaudite. Don Rodrigo si ammala e viene abbandonato dai suoi servitori, che lo portano al lazzaretto e poi depredano i suoi beni. Anche Renzo si ammala, ma riesce a guarire e, appena riguadagnate le forze, decide di tornare nel milanese per avere notizie di Lucia, certo che nel disordine generale nessuno farà caso a lui e al suo status di ricercato.
Capitoli 34-35: Renzo arriva a Milano e scopre che anche Lucia si è ammalata di peste. Decide quindi di cercare la ragazza al lazzaretto, dove incontra Fra’ Cristoforo. Il frate si sta adoperando come può per aiutare i malati, e spiega a Renzo in che zona del lazzaretto potrebbe essere ricoverata la ragazza, ricordandogli però che le possibilità di trovarla ancora viva sono minime. Al lazzaretto Renzo incontra don Rodrigo, ormai agonizzante, e inizialmente gioisce della disgrazia toccata al suo antagonista. Dopo essere stato duramente rimproverato da Fra’ Cristoforo – che gli ricorda che nessun uomo ha il diritto di giudicare un suo simile, dato che tale giudizio spetta solo a Dio – Renzo si pente della sua reazione e lo perdona, arrivando a pregare per la salvezza della sua anima.
Capitoli 36-37: Renzo trova Lucia, ormai quasi guarita dalla peste, ma la ragazza gli ripete che a causa del suo voto di castità non può più sposarlo. Interviene a questo punto Fra’ Cristoforo, che spiega a Lucia di avere il potere di scioglierla dal voto, se è ciò che lei vuole. A questo punto il voto viene annullato e i due fidanzati si separano nuovamente con la promessa di ricongiungersi al loro paese, dopo la definitiva guarigione di Lucia. Renzo lascia Milano, su cui cade una pioggia liberatoria che annuncia a tutti la fine della pestilenza, che però prima di concludersi del tutto condannerà anche Fra’ Cristoforo.
Capitolo 38: passato il pericolo dell’epidemia, la cattura che pesa su Renzo viene annullata e si diffonde la notizia che don Rodrigo è scomparso. Don Abbondio, a questo punto, accetta finalmente di sposare Lucia e Renzo. Dopo il matrimonio la coppia si trasferisce, insieme ad Agnese, nel bergamasco. Qui i due ragazzi avviano una loro attività tessile e hanno molti figli, a cui raccontano le avventure del loro rocambolesco fidanzamento.
Temi e analisi
Manzoni concepisce I promessi sposi come un testo decisamente innovativo, destinato a cambiare per sempre la storia della letteratura italiana. Quest’intenzione è testimoniata già dalla scelta di scrivere un romanzo, genere letterario che nel panorama italiano era sempre stato considerato minoritario rispetto ad altre forme, ritenute più nobili, come la poesia lirica, il trattato, la tragedia o la commedia. Questa scelta consente a Manzoni di tradurre in pratica quei principi che, secondo lui, avrebbero potuto trasformare la cultura italiana rendendola davvero moderna, avvicinandola agli sviluppi del romanticismo che in quegli anni stava prendendo piede in Europa e rendendola capace di veicolare messaggi significativi che raggiungessero un pubblico di lettori quanto più possibile vasto e non selezionato. Per raggiungere questi obiettivi, Manzoni sceglie di raccontare una storia che, attenendosi ai principi del vero, dell’utile e dell’interessante, consente di rappresentare la realtà in maniera realistica e non astratta, descrivendo l’esistenza di personaggi concreti le cui vicende possono appassionare anche un pubblico di persone comuni a cui la letteratura di livello alto, fino a quel momento, non aveva mai pensato di rivolgersi. La scelta di un genere letterario ancora relativamente inesplorato consente inoltre a Manzoni di concedersi delle libertà stilistiche e contenutistiche che non sarebbero mai state accettate in altri contesti, permettendogli di mettere al centro del suo racconto due figure umili e di raccontarle non in chiave comica o banale, ma anzi facendole interagire da protagonisti con la Storia del loro tempo. È proprio il rapporto tra la piccola vicenda personale dei personaggi e il quadro storico in cui essi sono inseriti a rendere la storia narrata nel romanzo significativa e degna di nota: raccontando la storia di Renzo e Lucia e attribuendo ai suoi personaggi una dignità nuova e del tutto sconosciuta nella tradizione letteraria italiana, Manzoni apre la strada a un nuovo filone di letteratura di matrice più realista, allontanandosi dal culto per la tradizione e l’eterna riproposizione di generi, motivi e stilemi ricavati dal passato che aveva caratterizzato la letteratura italiana nei secoli precedenti.
Questa scelta di realismo consente a Manzoni, inoltre, di veicolare attraverso il suo romanzo una serie di precetti morali e di notizie storiche, di considerazioni personali e di ideali politici che vengono esposti nelle sue pagine con particolare efficacia. Questa volontà “educativa” non è affatto secondaria, nell’ottica manzoniana, dato che l’autore è convinto che i letterati abbiano dei precisi doveri nei confronti della società in cui vivano e debbano assumersi il compito di guida morale della nazione (idea, questa, ricavata dalla lezione dell’illuminismo). I temi più cari a Manzoni sono quelli della fede e dell’abbandono a Dio, ritenuti gli unici veri antidoti ai mali del mondo e della Storia, nonché quello della critica al potere, visto come realtà sempre violenta e prevaricatrice, sempre gestito da uomini avidi, incapaci di utilizzarlo in funzione del bene collettivo. L’attenzione a questi temi rende I promessi sposi da un lato un romanzo di formazione, in cui si descrive un percorso di crescita che porta i suoi personaggi a diventare più maturi e più consapevoli, dall’altro un romanzo di impronta filosofica, dalle cui pagine emerge un’immagine del mondo com’è e come dovrebbe essere.
È ovviamente molto evidente, inoltre, l’impianto cristiano dell’opera, in cui si afferma esplicitamente che la Provvidenza è il vero motore della storia umana e in cui si incitano i lettori ad avere fiducia nella capacità di Dio di intervenire nelle vicende umane. Il male, secondo Manzoni, esiste e domina la storia dei singoli uomini e quella dell’umanità. È sbagliato rassegnarsi passivamente a questa realtà, così come è sbagliato tentare di contrapporsi ad essa facendo affidamento sulle proprie forze umane: solo l’abbandono a Dio e la fiducia nel suo intervento consentono di affrontare realmente il male della storia, e di uscirne vincitori. Nelle pagine conclusive del romanzo, questa considerazione è espressa in modo esplicito: il narratore conclude infatti il suo racconto affermando che “il sugo di tutta la storia” sta nell’ammissione che «i guai vengono spesso perché ci si è data cagione, ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore».
Citazioni significative
Nelle pagine iniziali del romanzo, Manzoni descrive il periodo storico in cui è ambientato il romanzo soffermandosi in particolare sul clima di generalizzata violenza e arbitrio che domina nella società dell’epoca. La descrizione lascia poi spazio all’introduzione del personaggio di don Abbondio, perfetto esponente di quella società e dei suoi peggiori vizi:
L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, di essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degli’individui a tenersi collegati in classi, a formularne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. […] Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevano di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebbero bastati, e per assicurarsene l’impunità. Le forze però di queste varie leghe erano molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione familiare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun’altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere. Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccare gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. […]
Dopo aver introdotto il personaggio di don Abbondio, Manzoni presenta le figure dei due protagonisti del romanzo, che fin dalle prime battute rivelano i tratti peculiari del loro carattere. Descrivendo le diverse reazioni di Renzo e Lucia di fronte alle minacce di don Rodrigo, alla viltà di don Abbondio e alla meschinità di Azzeccagarbugli, Manzoni traccia un ritratto molto efficace dei due personaggi, descrivendo tanto l’impulsività di Renzo che la quieta pazienza di Lucia.
– Bel parere che m’avete dato! – disse ad Agnese. – M’avete mandato da un buon galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli! – E raccontò il suo abboccamento col dottore. La donna, stupefatta di così trista riuscita, voleva mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo non doveva aver saputo fare la cosa come andava fatta; ma Lucia interruppe quella questione, annunziando che sperava di aver trovato un aiuto migliore. Renzo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell’impiccio. – Ma se il padre, disse, non ci trova un ripiego, lo troverò io, in un modo o nell’altro! Le donne consigliarono la pace, la pazienza, la prudenza – Domani, – disse Lucia, – il padre Cristoforo verrà sicuramente; e vedrete che troverà qualche rimedio, di quelli che noi poveretti non sappiam nemmeno immaginare. – Lo spero; – disse Renzo, – ma, in ogni caso, saprò farmi ragione, o farmela dare. A questo mondo c’è giustizia finalmente. […] – Qualche santo ci aiuterà, – replicò Lucia: – usate prudenza, e rassegnatevi. La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n’andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: – a questo mondo c’è giustizia, finalmente! – Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.
Il personaggio di Fra’ Cristoforo interviene nel romanzo tentando, in primo luogo, di indurre don Rodrigo a non molestare più Lucia. Per farlo va di persona al palazzo del nobile, con cui ha uno scambio di battute molto teso, che culmina con una sorta di oscura profezia relativa al destino di don Rodrigo.
– Vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Cert’uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza, e sollevar quelli a cui è fatta una così crudele violenza. Lo può; e potendolo… la coscienza, l’onore… – Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario che l’offende. […] – Se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda se non so parlare come si conviene; ma si degni di ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti comparire… […] Non s’ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a de’ poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. […] – Come parli, frate? – Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. […] – Come! In questa casa! – Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e soggezione a quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a suo immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno… Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la meraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento. Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quell’infausto profeta, gridò: – escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltrone incappucciato!
Dopo la fuga dal suo paese, Renzo si trova solo a Milano, dove viene coinvolto nei tumulti popolari per il prezzo troppo alto del pane. Dopo un’iniziale perplessità il ragazzo si lascia coinvolgere dalla protesta, approfittandone anche per tenere un discorso contro gli abusi perpetrati da nobili e potenti. Sarà questo discorso a farlo identificare come uno dei principali animatori dei disordini, e a farlo poi arrestare costringendolo alla fuga nel bergamasco.
Signori miei! Devo dire anch’io il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non solamente nell’affare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacché oggi s’è visto chiaramente che, a farsi sentire, s’ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po’ più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c’è una mano di tiranni, che fanno proprio al rovescio de’ dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? Anzi, quando ne hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta? […] Mi dicano un poco, signori miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all’inferriata! E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per castigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio. […] Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi sanno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo. […] Bisogna formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie, e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera, e dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de’ meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare a’ dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico bene, signori miei?
Una delle scene più potenti del romanzo è quella che riguarda la conversione dell’Innominato. Il nobile, dopo aver accettato di rapire Lucia per conto di don Rodrigo, comincia a provare un vago senso di rimorso e di vergogna per la sua vita, che crescerà nel corso del tempo fino a fargli provare vero e proprio disgusto per se stesso. Nel corso di una notte piena di dubbi e di angoscia, dopo aver visto Lucia ed essersi lasciato commuovere dalla sua preghiera di liberarla, Innominato riflette sui suoi sentimenti, e matura la decisione di lasciar andare Lucia, scelta che anticipa la sua definitiva conversione.
Il signore s’era andato a cacciare in camera, s’era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. […] “Che sciocca curiosità da donnicciola,” pensava, “m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio: uno non è più uomo; è vero, non è più uomo! Io? Io non son più uomo, io? Cos’è stato? Che diavolo m’è venuto addosso? Che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! Non ho mai sentito belar donne?” E qui, sena che s’affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d’un caso in cui né preghi né lamenti non l’avevano punto smosso dal compiere le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell’animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. “È viva costei,” pensava, “è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi… Perdonatemi? Io domandar perdono? A una donna? Io… Ah, eppure! Se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi di dosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! Sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!” […] Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desideri, ora non aveva più nulla di desiderabile. […] Il tempo gli si affacciò davanti vuoto di ogni intento, di ogni occupazione, di ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo.
Dopo la peste, la vicenda di Renzo e Lucia si conclude con il loro matrimonio e il loro trasferimento in un nuovo paese, dove costruiscono la loro nuova vita e riflettono sul passato, ricavando dal ricordo degli eventi accaduti quello che Manzoni definisce “il sugo di tutta la storia”.
Il bello era a sentire Renzo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. – Ho imparato, – diceva, – a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere –. E cent’altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, – e io, – disse un giorno al suo moralista, – cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, – aggiunse, soavemente sorridendo, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi. Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.