Psichiatra svizzero. Proveniente da una famiglia di medici (il nonno, Ludwig Binswanger, fu il fondatore del Sanatorio Bellevue di Kreuzlingen; lo zio, Otto Binswanger, scoprì una forma di demenza senile simile all’Alzheimer, ancora oggi nota come sindrome di Binswanger), studiò all’Università di Zurigo, dove ebbe tra i suoi maestri Carl Gustav Jung. Sempre a Zurigo compì il tirocinio psichiatrico sotto la guida di Eugen Bleuler. Nel 1907 conobbe Sigmund Freud, di cui rimase amico fino alla scomparsa di questi. Per oltre quarant’anni fu direttore del Sanatorio Bellevue, carica da cui si dimise nel 1956.
A partire dagli anni Venti si dedicò all’approfondimento della fenomenologia di Edmund Husserl e della filosofia esistenziale di Martin Heidegger, i cui principi volle applicare allo studio e alla cura della malattia mentale. Fu quindi tra i primi fautori, insieme a Eugène Minkowski, di un indirizzo fenomenologico-esistenzialista in seno alla psicologia e alla psichiatria.
Alla luce della Daseinanalyse heideggeriana, le malattie mentali vengono interpretate da Binswanger come altrettante possibili modalità in cui si declina l’essere-nel-mondo dell’uomo. Anche i sintomi, pertanto, non sono solo i segni di una disfunzione, ma anzitutto la chiave che permette l’accesso al peculiare modo di essere nel mondo di un paziente, per svelare la norma su cui tale progetto di mondo si regge.
Tra le sue opere si ricordano Introduzione al problema della psicologia generale (1922), La fuga delle idee (1933), Forme fondamentali e conoscenza dell’esistenza umana (1941), Melanconia e mania (1957).
Delirio. Antropoanalisi e fenomenologia.
Binswanger, con la sua antropoanalisi, ci avverte che bisogna risalire ai nodi di significato che si addensano e si stratificano nei sintomi delle “psicosi”. Riconoscendo l’inadeguatezza del pensiero medico oggettivante, che ha dominato e continua a dominare la psichiatria, Binswanger va alla ricerca di quell’universo simbolico che “tematizza” la malattia, che la sottende, la interpreta e la ordina; ridà coerenza ad un’esperienza che fino a quel momento veniva interpretata come la negazione stessa del senso.
Il dato interessante che emerge dalla letteratura binswangeriana è che da un lato il delirio viene sempre metaforizzato in relazione alla estrazione culturale e sociale dell’individuo, e dall’altro costituisce la ricerca di una idea capace di ridare coerenza alle sue azioni e alla sua nuova visione del mondo.
Infatti ad una prima fase di spaesamento in cui tutto perde di significato, ne segue una in cui il mondo riacquista la sua coerenza (anche se è una coerenza condizionata da quell’idea dominante che muta la forma del mondo e dell’io che lo guarda).
E’ qui che si può rintracciare la volontà dello psicotico di tornare ad un mondo significativo e ad un io operante. L’alienista svizzero, consapevole che la psichiatria si muove tra scienze della natura e scienze dell’uomo, parte da una vera e propria analisi dell'”esser-ci” attraverso cui mostrare l’ “apriori esistenziale”, ovvero i progetti di mondo che condizionano le psicosi.
Alla luce di quanto detto, queste ultime, lungi dal rappresentare l’insensatezza, rivelano una logica interna che si fonda su di un universo simbolico alternativo a quello dei comportamenti normativizzati. Se da un lato è possibile dunque parlare di “caduta dal piano storico”, dall’altro la scienza medica organicistica non è in grado di offrire una reintegrazione, proprio perché non riconosce la vera e propria “alterità” che sottende le psicosi.
Che cosa significa e che cosa comporta ridare coerenza, quindi una propria razionalità, all’esperienza psicotica?
Provando a storicizzare criticamente o, in termini foucaultiani, andando alla ricerca delle strutture profonde dell’occidente (archeologia del sapere), questa volontà razionalizzatrice nasconde quel continuum della storia del pensiero filosofico occidentale che, per la sua stessa sopravvivenza, riduce ad identità ogni differenza. Il soggetto che rifiuta questa riduzione rischia la degradazione nel non-senso e nell’insignificanza. Per una sorta di autodifesa, nella mediazione dell’incontro, il soggetto va alla ricerca di se stesso nell’altro e dell’altro in sé, escludendo così ogni possibilità di alterazione.