Durante la seconda guerra mondiale partecipò al movimento di Resistenza polacco e dal 1945 al 1950 fu membro del servizio diplomatico del suo paese. Dopo una permanenza a Parigi, dove aveva chiesto asilo politico, nel 1960 emigrò negli Stati Uniti e fino al 1978 fu docente di lingue slave e letteratura polacca all’Università di Berkeley, in California (scrisse fra l’altro un manuale di Storia della letteratura polacca). Dopo il 1989 tornò in Polonia, stabilendosi a Cracovia.
Le liriche delle prime raccolte, Poema del tempo congelato (1933) e Tre inverni (1936), sono pervase da un sentimento di generale e disperato fatalismo. Successivamente la sua poesia assunse toni meno cupi e pessimistici; in Salvezza (1945), ad esempio, che comprende la produzione del periodo bellico, alla condanna della guerra si accompagna una seppur cauta speranza sul futuro dell’umanità. Tra le altre raccolte di poesia si ricordano Luce del giorno (1953), Trattato poetico (1957), Città senza nome (1969), Dove sorge e dove tramonta il sole (1974) e Davanti al fiume (1989). Tra le opere in prosa si segnalano i due romanzi, ampiamente autobiografici, La presa del potere (1953) e La valle dell’Issa (1955).
All’attività di poeta e romanziere Miłosz affiancò quella di saggista e traduttore. La più celebre delle raccolte di saggi è La mente prigioniera (1953), che denuncia la passività degli intellettuali polacchi di fronte al totalitarismo staliniano; del 1977 è La terra di Ulro, una riflessione sul senso della poesia e sul mestiere dello scrittore, e del 1998 Il cagnolino lungo la strada, sorta di autobiografia in cui a frammenti di discorsi filosofici e teorici sulla poesia e l’arte di scrivere si alternano aforismi e poesie. Alla fine degli anni Settanta tradusse in polacco alcuni libri dell’Antico Testamento.
La mia europa
L’idea di questo libro è nata nel solaio di una casa sulle rive del lago di Ginevra. Camminando su tavole di legno scricchiolanti o su pavimenti di mattonelle rosse un po’ consunte, davanti a vecchi cassettoni dipinti, Milosz sentì che qualcosa gli stava parlando dal suo passato. Ma subito si accorse di essere muto. “Il profumo di quel solaio mi era familiare, lo stesso dei nascondigli della mia infanzia, ma il paese dal quale provenivo era distante e, simile a un diavoletto che scatta dalla scatola, io mi muovevo secondo le leggi di un meccanismo impenetrabile per i miei amici ginevrini”. Che cosa di preciso poteva significare la parola Lituania per i suoi ospiti? E che cosa sapevano in quella Europa idilliaca di quell’altra Europa, dove Milosz aveva trascorso decenni di una vita segnata da una successione di orrori dinanzi ai quali “la parola non può non essere perdente”?
Così Milosz pensò a un libro che lo obbligasse a svelare almeno una parte di quell'” amaro sapere incomunicabile agli occidentali” che si era accumulato in lui; un libro che non fosse soltanto di memorie personali, ma geografiche: il fantasma possente di certe terre che avevano fatto parte del Granducato di Lituania, quando esso era una potenza ben maggiore di quella russa, avrebbe continuato a mostrarsi attraverso le vicende della sua “vita di poeta”, e ogni scena si sarebbe prolungata in un cespuglio di digressioni storielle. Con umiltà, usando i propri sentimenti quasi come pretesto per evocare quel fantasma di popoli, boschi e vicoli, Milosz ha scritto un libro prezioso, il primo forse che dovrebbe prendere in mano chiunque voglia sapere qualcosa di quella immensa Europa “sequestrata”, dove è d’uso ormai cancellare la storia, il tempo, i nomi, ma dove la complessità e gli intrecci delle civiltà erano tali che “pressoché ogni uomo che si incontrava era diverso dall’altro, non per una sua peculiare specificità, bensì quale rappresentante di un gruppo, di una classe o di un popolo”.
Chi si è trovato a vivere, come Milosz, in quelle terre durante la prima metà del secolo ha dovuto forzatamente attraversare tutte le trappole e le tensioni dell’epoca, e ogni volta nella loro forma estrema. Un dolente, incompreso sorriso appare in un tale uomo quando l’Occidente vuole sorprenderlo o sconvolgerlo. Perchè ogni volta si tratterà, al più, di una ripetizione attenuata di qualcosa che laggiù è già avvenuto.
E parte della grandezza di Milosz aver conservato intatta la forza del ricordare. Guidati da quella forza, siamo qui spinti a immergerci, con stupore, in una selva di dettagli che la storia ha condannato. Così le strade di Parigi come l’intreccio delle generazioni e dei caratteri finiscono per fissarsi in immagine, re addormentati in un groviglio di gigli di pietra, simili a disseccati insetti invernali.