Con Cent’anni di solitudine Gabriel Garcìa Màrquez si pone all’interno della nueva novela ispanoamericana, nell’interpretazione singolare e avvincente di un realismo magico che, filtrando i momenti reali attraverso l’affascinante dimensione fantastica, approda a un’immagine cosmica della realtà i cui sensi più profondi vanno ricercati senz’altro nell’ambito della migliore testimonianza storica. L’apparente dicotomia fra il piano leggendario e mitico della realtà, simbolicamente avvinto al proprio divenire irrazionale, e quello quotidiano e alienante di una realtà ottusamente incapace di conferire un significato fondante al caotico succedersi degli eventi, si compone mirabilmente nel romanzo di Garcia Marquez. L’invenzione diviene parte integrante della realtà, che finisce con l’apparire quale espressione irrisolta dello svolgersi incontrastato e assurdo delle passioni umane, in un unico e tragico fluire di passato, presente e futuro. Tramite la circolare temporalità delle vicende narrate, l’angusta spazialità reale sembra comunicare con il mondo magico e ancestrale della dimensione irreale, fantastica, in cui il ricordo di un passato diventa presenza ammonitrice per un futuro che sembra incombere irrimediabilmente sulle azioni del presente. In Cent’anni di solitudine l’autore narra le vicende di un paese immaginario, Macondo, allegoria delirante del pionierismo e del successivo sottosviluppo latinoamericano, attraverso la storia dei suoi fondatori, la famiglia Buendìa e i suoi discendenti, mitica incarnazione di un’umanità che nel momento in cui tenta di legittimarsi come storia decreta la propria decadenza. Macondo era stata fondata da Ursula e Josè Arcadio Buendìa, i quali fuggivano la loro colpa di essere cugini primi, perseguitati dallo spirito di un uomo che Josè Arcadio aveva ucciso. La fondazione di Macondo, che all’inizio sembra rappresentare l’utopia realizzata di una ideale “Città del sole”, si esprime ben presto come caotico interagire di forze primordiali. Lontani dal resto della civiltà, i Buendìa si comportano come se il codice morale non esistesse: i membri maschi della famiglia si innamorano delle loro zie o addirittura delle loro nonne. In questi primi anni il paese vive in uno stato di primitiva innocenza; ma, sebbene isolato, non è completamente tagliato fuori dal resto del mondo. Infatti il suo isolamento è rotto da forze esterne – la guerra civile, la ferrovia, la piantagione di banane – che trascinano gli abitanti verso le contese senza cambiarne l’eccentrica personalità. Ma il “progresso” non dura: un diluvio di quattro anni riporta Macondo al caos originario. E la nascita di un bambino con una coda di maiale, frutto di una unione incestuosa fra Amaranta Ursula e suo nipote, porta la famiglia alla fine. Macondo si svela ben presto come luogo di violenza sia fisica che morale, un mondo in balia di sentimenti negativi e dilaniato dall’odio, propenso assai più a dare spazio all’amara irrimediabilità dei rancori e delle vendette che a salvaguardare i propositi di felicità e benessere che avevano un tempo spinto alla sua costituzione. A questo mondo il futuro colonnello Aureliano Buendìa tenta di ribellarsi, ma cercando di fuggire violenza e guerra finisce per incarnarle lui stesso. Tornato a Macondo in preda allo squilibrio e alla solitudine, morirà consapevole della propria vicenda sotto il castagno cui era stato legato per anni il fondatore del paese impazzito, quasi a testimoniare la continuità di quel “naturale” che necessariamente si oppone alle aberrazioni della civiltà. Il clima di disfacimento progressivo, che fino alla scomparsa di Aureliano ha pervaso sotterraneamente la vicenda, diviene ora palese e la storia si avvia verso la decadenza totale. Chiuso nel suo destino inafferrabile, Macondo sembra ormai irrevocabilmente segnata dalla terribile possibilità della profezia. Nel clima torbido di un totale isolamento in cui la solitudine diviene l’unica realtà vivibile, gli ultimi componenti della famiglia Buenda bruciano le proprie tappe esistenziali, eleggendo la follia come unico rifugio metafisico in cui attendere, tra i presagi della fine. Fa da sfondo l’immagine spettrale di Macondo sommersa da una pioggia incessante che obbliga gli abitanti a un vegetare non solo metaforico, nella veglia attonita della propria fine. L’atmosfera mitica che accompagna la scomparsa del paese e della sua gente si esprime nelle due figure femminili principali del libro, Ursula Iguarn e Pilar Ternera, le due matriarche dei Buenda.
Mentre il paese viene avvolto dall’uragano distruttore, gli ultimi personaggi del libro sembrano umanizzarsi di fronte alla fine incipiente. Quasi a indicare, nel continuo curvarsi del tempo, il compiersi della stessa origine dell’uomo, che di fronte al proprio peccato originale (la superba indifferenza per la propria matrice naturale) è destinata ad attendere, dalla natura tradita, la possibilità dell’espiazione.