Il nucleo dal quale si sviluppò il romanzo, noto con il nome di Sogno di Oblomov, fu pubblicato in un supplemento della rivista Il contemporaneo il 28 marzo 1849. Questo frammento nacque forse come sforzo, da parte dell’autore, di chiarire i motivi del fallimento dell’eroe di un precedente romanzo, l’Aduev di Una storia comune. Nel Sogno di Oblomov, splendida pagina di poesia, Gončarov avrebbe voluto mostrare i risultati negativi di un’educazione sbagliata, ma questo intento in sostanza esterno all’intuizione poetica restò per fortuna sommerso: l’evocazione fu ben più ampia, toccò una “dimensione” della civiltà russa che lo stesso autore chiamò “oblomovismo”: e cioè un’apatia, una pigrizia particolare, un’incapacità quasi metafisica alla “costruzione”, all’operosità: vero è che questa pigrizia nasceva dalla storia, dalla situazione del proprietario terriero, e non solo perchè la presenza dei servi della gleba aveva avuto come conseguenza la progressiva apatia dei loro proprietari. Dietro la pigrizia di Oblomov o, meglio la sua incapacità ad accettare certe norme della vita contemporanea, c’era anche un dato “etnico”: il suo villaggio, Oblomovka, era il relitto di una economia antica, anteriore all’introduzione del denaro. Per questo Oblomov poteva non rendersi conto, anche in città, che occorreva agire diversamente: era come un “uomo allo stato di natura” trasportato nella città moderna. Ma queste sono certo interpretazioni, possibili suggerimenti, per capire la tragedia di Oblomov: uomo del resto dal cuore nobilissimo, amato e compianto, in cui l’elemento comico e anche grottesco (poi tragico) della “pigrizia universale” si unisce a dati di grande sensibilità. In questo senso non sono del tutto esaustivi i giudizi sociologici, derivati dalle considerazioni di Dobroljubov, che sono esposte nel celebre saggio Che cos’è l’oblomovismo. In Oblomov c’è un tema più universale, che esce anche dai confini della Russia: senza dubbio c’è la storia del progressivo inaridimento di un uomo, incapace di reagire alle sollecitazioni della vita, un uomo che si trasforma in una specie di “oggetto pigro”. Oblomov, dunque, figlio di proprietari di provincia, passò l’adolescenza nell’ozio, poi si iscrisse all’università, trovò un impiego statale, pensò addirittura di dedicarsi alla ricerca scientifica, per essere utile alla patria. Non ne uscì niente, si capisce: in lui i fili che collegavano l’intenzione all’azione erano tagliati. I suoi erano piccoli tentativi o, meglio, tentativi solo pensati di fare un tentativo. Poi tutto inevitabilmente rientrava nel sopore arcano di una vita che scorreva placida. Il contrario di Oblomov era Stol’c, di origine tedesca, attivo, intraprendente, un costruttore. E suo amico sincero che, per tutta la vita cercò di scuoterlo, senza risultati. Oblomov conobbe anche una bella ragazza, viva, vivace, attiva, che si innamorò di lui e volle aiutarlo, salvarlo dall’apatia, anche perchè aveva capito che Oblomov era un uomo dotato di vere qualità interiori e soprattutto era buono. Ma neppure Ol’ga riuscì a ottenere risultati: in principio il suo ardore sembrò avere qualche effetto su Oblomov, ma l’accidia ebbe il sopravvento: pigrizia, paura di interrompere il placido scorrere dei giorni, paura di inquietudini, di movimento. Tutto ciò vinse l’amore. E Oblomov, invece di sposare Ol’ga, che esigeva da lui una presa di responsabilità, sposò la sua padrona di casa (in città), una vedova, una brava donna, che aveva a sua volta capito meglio di Ol’ga la vera natura di Oblomov. La vedova, Psenicyna, era in un certo senso l’opposto di Ol’ga: con lei Oblomov potè continuare la sua vita senza storia. Certo, c’erano piccoli inconvenienti, i parenti della moglie erano invadenti e avidi, cercavano di approfittare delle ricchezze di Oblomov, ma la cosa non lo turbava molto. Stol’c nel frattempo aveva sposato Ol’ga e i due, che amavano molto Oblomov e avevano dovuto rassegnarsi al destino del loro amico, alla scomparsa di lui accolsero volentieri per allevarlo con amore suo figlio, il piccolo Andrej. Un altro personaggio, divertentissimo, con le sue lunghe e folte basette, costretto a patire per l’invadenza dei parenti di Psenicyna era il servo Zachar, pigro come il padrone (le prime pagine del romanzo sono esilaranti, impostate sul contrappunto fra l’oblomovismo di Oblomov e l’oblomovismo di Zachar). Zachar finisce per chiedere l’elemosina presso le chiese (riconosciuto da Štol’c, verrà invitato da lui, ma Zachar gli dirà che preferisce andare avanti così, girare per le chiese e ricordare il suo buon padrone). E’ il senso del romanzo questa mescolanza di pigrizia e bontà in Oblomov: il fatto che la sua pigrizia sia considerata come una specie di malattia e che tutti coloro che ne vedono la purezza dell’anima tentino di aiutarlo. Nel Sogno di Oblomov viene evocata la vita patriarcale, idealizzata: il “sereno angoletto” è Oblomovka, il villaggio, dove non ci sono nè il mare nè alte montagne, ma il sicuro tetto paterno, il dolce cielo, la dolce terra, un fiume gioioso, ridenti paesaggi. “Il cuore, spossato dalle inquietudini o ignaro di esse, desidera trovare un rifugio in questo angoletto da tutti dimenticato, e qui vivere una felicità ignota agli altri”. Non è l’età dell’oro? Oblomov sogna l’età dell’oro, l’antica terra perduta, dove ogni stagione mostra solo le sue bellezze, la terra che Dio non aveva mai punito con peste o altri castighi. Oblomov sogna la sua infanzia protetta e felice (al diavolo, dunque, i frutti dell’educazione sbagliata!), sogna la dolcezza della madre e della bambinaia, sogna il suo paese d’incanto, senza ladri, con la nutrice che raccontava le imprese “degli Achilli e degli Ulissi russi”, dove la buona gente di campagna credeva a tutto. Un luogo dove il denaro (ed è questo un particolare interessante) era ancora, in sostanza, una cosa estranea. Ma quel mondo è perduto per sempre: possiamo anche pensare che la pigrizia di Oblomov fosse una protesta più o meno conscia contro la fine dell’infanzia. Di qui gran parte dei suoi atteggiamenti. Il romanzo è senza dubbio il vertice dell’opera di Gončarov: i critici non sono tutti d’accordo sulle qualità stilistiche dell’autore, sono d’accordo nel considerare Oblomov una figura poetica realizzata, e Štol’c un personaggio più artificioso. E’ certo che Gončarov, come osserva il Pacini, “fu un grande scrittore, al quale mancarono alcune di quelle qualità che fanno lo scrittore grandissimo”: fra i difetti è un'”intrusione eccessiva dell’intelligenza”. Ma riteniamo questi difetti lievi: in Oblomov certo non possiamo trovare l’impeto tolstoiano, nè glielo chiediamo. E’ certo però che gran parte delle pagine di Oblomov si leggono ancor oggi con estremo piacere.