Alexandros Papadiamantis nacque a Skìathos [isole Sporadi] nel 1851, visse a Atene traducendo per i giornali ma ritornò spesso nell’isola natìa. La povera società di pescatori e marinai di Skìathos è lo sfondo della sua vasta opera narrativa, composta di più di cento racconti, tra i quali spicca L’assassina (1903). In essa, all’impianto naturalistico si sovrappone una analisi psicologica di grande finezza, che farà scuola presso gli scrittori delle generazioni successive. Le pagine migliori contengono squarci lirici di notevole potenza, mentre particolarmente efficace è l’evocazione del paesaggio. Papadiamandis usò la lingua greca pura, richiamandosi esplicitamente alla tradizione letteraria, anche se ricorre al demotico nelle battute dei suoi dialoghi.
Invenzione di un monaco laico dell’isola greca di Skiatos, questo romanzo cupo, duro, ma anche avvincente, è un indagine sociale e psicologica dell’opprimente futilità della vita delle donne nella società patriarcale della Grecia di fine diciannovesimo secolo. Papadiamantis racconta la sua storia con una prosa asciutta e misurata, lasciando che tutta la durezza del suo soggetto filtri attraverso il paesaggio e creando un’antieroina primordiale, anarchica e affascinante come la Medea di Euripide.
La sessantenne Frangoyannou, misera fattucchiera e levatrice prostrata dal duro lavoro e dalla nascita di fin troppe figlie, è il prodotto del suo tempo, in particolare dell’obbligo delle donne di sposarsi e di portare con loro una dote rovinosa. Attraverso varie sofferenze – una dote inutile, un marito fiaccato, un figlio criminale e delle figlie non maritabili – riesce a scovare un modo semplice di liberare dall’ingiustizia arrecata dalla nascita di figlie femmine chiunque lei tocchi.
L’assassina è un romanzo tetro che poggia sull’incredibile tensione tra il ruolo di redentrice che Frangoyannou si affibbia, le convenzioni su cui basa in modo così letterale il suo pensiero distorto e l’interpretazione delle sue azioni da parte del lettore. L’opera abita un paesaggio aspro e roccioso, impregnato di una strana magia – dalle erbe alle preghiere fino alle cappelle di collina – i cui olivi polverosi e le qui capanne in rovina hanno il potere di infestare i sogni.
L’opera fu tradotta in francese da Pierre Baudry (1908) e ultimamente (Parigi, 1934) da Octave Merlier nel volume Skiathos il grecque.