La parola “vate” viene dal lat. “vates” = ‘indovino’. Poiché gli indovini rilasciavano i loro responsi generalmente in versi, “vates” passò a significare anche ‘poeta’ e ‘cantore’. In italiano la parola “vate” significa ‘profeta’ o anche ‘poeta di alta e nobile ispirazione morale e civile’. Nel linguaggio critico, l’espressione “poeta-vate” si presenta in due accezioni diverse: se riferita alla letteratura italiana dell’Ottocento indica la funzione civile e ideologica dello scrittore romantico-risorgimentale (e di coloro che ne continuano la tradizione), il quale guida il processo storico e ne anticipa e profetizza gli sviluppi futuri; se riferita invece alle letterature romantiche nordiche e a quelle simboliste e decadenti europee, indica la funzione oracolare e sacerdotale del poeta, considerato interprete privilegiato e rivelatore dei significati profondi della natura e della vita
Nel primo caso, prevale l’aspetto civile e immediatamente pedagogico; nel secondo, quello mistico, religioso ed estetizzante. Queste due situazioni possono anche fondersi, come accade alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento con Pascoli e d’Annunzio. Si noti che in Italia il poeta-vate risorgimentale (come Foscolo o il primo Leopardi) aveva una sua precisa ragione storica, guidava un processo di lotta dall’esito incerto e si batteva per sviluppi futuri di natura sociale e civile; viceversa i poeti-vate dell’Italia umbertina e giolittiana (Carducci, Pascoli, d’Annunzio) sono eminentemente poeti celebrativi: celebrano ciò che è già in atto o che si è già affermato. Di qui un rischio maggiore di retorica.