Tum Brutus: Orationes quidem eius [scil. Caesaris] mihi vehementer probantur. Complures autem legi atque etiam commentarios, quos idem
[quosdam cod.] scripsit rerum suarum.
Valde quidem – inquam – probandos; nudi enim sunt, recti et venusti, omni
ornatu orationis tamquam veste detracta. Sed dum voluit alios habere
parata unde sumerent qui vellent scribere historiam, ineptis gratum
fortasse fecit, qui illa volent calamistris inurere; sanos quidem homines
a scribendo deterruit. Nihil est enim in historia pura et illustri brevitate
dulcius.
Commento:
Il Brutus è opera di argomento retorico, storia della retorica a Roma composta nel 46 a. C. una delle ultime; è scritta tra il 48 e il 44, tra il ritorno di Cesare, atto di umiliazione e riconciliazione a cui Cicerone viene costretto, e la scomparsa di Cesare quando si sente di nuovo legittimato a tornare a combattere nell’agone politico e si presenta come consigliere del giovane Ottaviano. Si avverte un senso di frustrazione in Cicerone, costruire una storia dell’oratoria romana è un atto di ribellione perché è sottile la distinzione oratore-uomo politico: è questa anche una storia di certi meccanismi della politica, vi è il rimpianto delle figure emblemi di una libera oratoria che non ci sarebbero più stati, non ci sono più le condizioni politiche come quelle di Roma repubblicana che lo consentivano. Cicerone ci offre una data di pubblicazione e divulgazione dei Commentarii, nel 46 dovevano già circolare. Il Brutus è un dialogo con tre personaggi ed è ambientato in modo insistito dopo la scomparsa di Ortensio Ortalo, grande oratore che fu il suo modello e bersaglio politico; ciò si colloca subito dopo il proconsolato di Cicerone in Cilicia. Ortalo fu difensore di Verre e le Verrinae furono l’occasione per dimostrare di averlo schiacciato; i rapporti tra i due non furono tempestosi e anzi a volte essi si unirono in una diarchia nei processi o anche triarchia se si univa anche Crasso triunviro, ciò accadde nel processo a Murena. La data di composizione del Brutus o meglio di ambientazione è il 50 a. C., è l’anno precedente alla vittoria di Cesare nella guerra civile, fa da soglia ad un’era: Ortensio diventa simbolo dell’oratoria repubblicana, morendo consegna il testimone ad un’altra generazione. Cicerone è sopravvissuto e deve trasmettere alla nuova generazione quello che era stata la retorica d’un tempo che, intuisce, non potrà più tornare. Finisce un’era anche per Cicerone, il proconsolato in Cilicia è l’ultima carica che egli svolge. Non si parla di Cesare ma egli è presente come figura politica e storica. Cicerone stesso è l’io parlante, Bruto futuro cesaricida e Pomponio Attico sono gli interlocutori; essi sono un gruppo unito di due generazioni diverse, Bruto è più giovane degli altri e questo dà il senso dell’opera rivolta alle generazioni future spiegando quanto avvenuto nella retorica romana. Appare nelle vesti dell’ingenuo, Cicerone e Attico sono i più astuti ed esperti; Attico è scelto anche perché autore di un trattato di cronografia, rimette storicamente a posto i personaggi che citano gli altri dialoganti. Sono presentati oratori anche minori e minimi, il limite degli oratori da considerare è l’esclusione dei viventi, legge puntualmente disattesa da tre eccezioni: di due personaggi pur vivi si dà un giudizio chiaro, Cesare e Marcello, non scelti a caso, sono rappresentanti delle factiones cesariana e pompeiana; Marcello doveva essere figura importante, la stesura della pro Marcello è contemporanea al Brutus e otterrà al pompeiano di rientrare e avere il perdono di Cesare come Cicerone, ma viene assassinato al Pireo e non tornerà mai a Roma. Cicerone sceglie due figure politiche da far apparire nell’opera, forse più politica di molte altre; il terzo personaggio non dichiarato è Cicerone stesso, monumento che Cicerone si erige e mostra che la vera retorica è una linea retta che ha sempre puntato verso la perfezione assoluta rappresentata da Cicerone.
In questa sezione si sta parlando di Cesare, si ricorda la sua attività di oratore e pensatore (de analogia), a questo paragrafo Bruto afferma che le sue orazioni gli piacciono. Afferma di aver letto i suoi commentari del de bello gallico e civili o solo gallico, forse complures in più libri; domanda implicita su cosa ne pensano gli altri dei commentari. Cicerone afferma che sono belli perché semplici e privi di ornamento del discorso come senza una veste (venusti da Venus). Allontana le persone di buonsenso dallo scrivere quello che lui, Cesare, ha già scritto. Il commentario non è storia ma è l’atto con cui l’uomo d’azione fornisce i documenti perché lo storico possa intervenire e usarli; ma Cesare ha scritto con tanta grazia che nessuno riscriverà in modo diverso ciò che lui ha scritto se non gli stolti che crederanno di fare meglio di lui. Cesare ha usato la brevitas assoluta e luminosa, che ha effetto di dulcedo che tra le funzioni della retorica sembra delectare più che docere e movere. Nel giudizio elogia l’eloquenza di Cesare di tipo attico, frasi piane con dispositio acconcia ed elocutio fatta di parole semplici del parlato quotidiano, evita l’eloquenza asiatica con frasi di effetto roboante, Cicerone si presenta come la sintesi tra eloquenza attica e asiatica. Venustus non suona come complimento completo, è termine catulliano e sappiamo che il giudizio di Cicerone sui poetae novi non era così positivo; venustus insieme con nudus d’altronde ha effetto di improprietà. Brevitas: figura retorica che conosciamo grazie a Virgilio e ai suoi commentatori, è da essi definita arte di dire attraverso il non detto, riconosciuta da Cicerone a Cesare, insinuazione vista in atto nei capitoli precedenti, insinuazioni su una superficie narrativa apparentemente asettica.
Cesare viene riconosciuto capace di brevitas ovvero di dire attraverso il non detto dunque di far capire. Dulcedo della brevitas appropriata in opera letteraria ma fa riferimento al delectare più che alle altre due azioni, cosa non così adatta per un’opera come i commentari di istruzione. Cicerone lascia introdurre l’argomento a Bruto, giovane erudiendo, lascia a lui il compito di esaltare Cesare e interviene a correggere con termini laudativi, inevitabile nel 46 ma anch’essi nascondono punte contro Cesare. Secondo l’idea di Cicerone dell’Historia Cesare avrebbe dovuto scrivere un’opera di servizio, a caldo in presa diretta, poi lo storico avrebbe potuto raccontare nuovamente e giudicare quanto detto sfruttando il distacco temporale. Ricostruiamo la definizione di Cicerone di historia da una lettera, Cesare non assolve al suo compito di scrivere commentari perché altri se non stolidi non potrebbero riscrivere degli stessi eventi. L’historia è per lui opus rhetoricum maximum, l’aggettivo mantiene l’ambiguità del termine di abilità di parlare e mira alla espressione di un contenuto attraverso leggi che regolano la forma (inventio ecc.). Cesare farebbe passare una forma spoglia come obiettiva, non vero perché è orientata; se egli avesse dichiarato i principi retorici non avrebbe ottenuto di meglio che il sottacere e nessuno se non uno stolido potrebbe tornare sul testo cesariano a mettere in evidenza ciò che in Cesare è presente anche se sottaciuto.