Dove si dimostra che usiamo anche parole derivate da miti antichissimi.
Leggi le righe che seguono. Sono state tratte da un testo di storia per la prima media (potrebbe anche essere il tuo) e raccontano quella tappa del progresso umano che trasformò i cacciatori in agricoltori determinando la Rivoluzione neolitica.
Intorno all’8000 a.C., ossia 10000 anni fa, nella Mezzaluna fertile gli uomini impararono a raccogliere le spighe dei cereali che crescevano spontaneamente nei prati. I loro chicchi si rivelarono molto nutrienti e diventarono l’elemento base della loro alimentazione.
Con il tempo essi cominciarono a osservare il ciclo di vita delle spighe e si accorsero che morivano e rinascevano esattamente come gli uomini e gli animali.
Un giorno qualcuno scoprì che dai chicchi caduti per sbaglio sul terreno stava nascendo una nuova pianta. Allora si trattenne dal mangiare tutti i chicchi che raccoglieva, selezionò i più grossi, li seminò e provocò la nascita di nuove spighe, tutte sane e ricche come le migliori di quelle che nascevano spontaneamente nei prati.
Con tremila e più anni di ritardo, a partire dal 6000 a.C., anche alcuni altri popoli stanziati in Asia, in Europa, in Africa e in America cominciarono a coltivare i cereali e a cambiare dieta alimentare.
La parola CEREALE è dunque la chiave per comprendere la Rivoluzione agricola che trasformò alcuni gruppi umani da cacciatori in agricoltori, da nomadi a sedentari.
Perché chiamiamo i “cereali” cereali? Ce lo spiega un mito greco-romano
La dea delle mèssi e dei raccolti era Cèrere.
Cèrere era bellissima; aveva i capelli biondi come spighe, labbra vermiglie come i papaveri, occhi azzurri come i fiordalisi; teneva nella mano destra una piccola falce d’oro, dono di Vulcano. Soggiornava con gli altri dèi sul Monte Olimpo e, quando scendeva sulla terra e appariva nella campagna verde, in mezzo al grano, ai papaveri e ai fiordalisi, tutto fioriva e fruttificava come per miracolo.
Cèrere aveva una bellissima figliola, Prosèrpina, che amava teneramente. Un giorno la giovanetta stava cogliendo fiori in un prato della Sicilia, alle falde dell’Etna, quando incontrò Plutone, che era uscito attraverso la bocca del vulcano per fare un’ispezione; infatti temeva che il gigante Tifeo, imprigionato da Giove sotto l’Etna, si scuotesse per sgranchirsi le gambe e causasse uno dei terribili terremoti che ogni tanto squassavano l’isola.
Plutone vide Prosèrpina e se ne innamorò all’istante. Con mossa fulminea, l’afferrò, la pose sul cocchio e ripartì al galoppo dei suoi due cavalli neri dalle fosche criniere e dalle narici fiammeggianti.
La giovinetta, atterrita, lanciava grida di disperazione, ma dopo un’impetuosa galoppata Plutone batté sulla terra con il tridente spalancando una voragine sotto di sé e vi scomparve con il cocchio e la fanciulla. Al momento di inabissarsi, Proserpina lanciò un ultimo grido acutissimo e straziante.
Cerere lo sentì e una terribile angoscia le strinse il cuore. Corse verso il prato, non vide Prosèrpina e cominciò a piangere e a strapparsi i capelli.
Giorno e notte quella madre infelice vagò per valli e per monti in cerca della sua figliola, finché incontrò Apollo
– Hai visto Prosèrpina? – gli chiese.
– Augusta Cerere – rispose Apollo – il tuo dolore mi muove a pietà e voglio dirti il vero: Plutone ha rapito tua figlia e l’ha fatta sua sposa. Così ha voluto Giove.
Allora Cèrere precipitò in un dolore senza confini. Non volle mai più risalire sull’Olimpo e, sfidando la collera del re degli dèi, pronunciò questa maledizione:
– Finché non mi sarà resa Prosèrpina, nessun germoglio si schiuderà, nessuna foglia verdeggerà, nessun fiore sboccerà, nessun frutto maturerà!
La maledizione non tardò a compiersi: la terra isterilita apparve nuda, squallida e desolata; gli alberi e i campi non produssero più frutti né messi, gli uomini e gli animali cominciarono a rischiare la fame.
Allora Giove capì di avere sbagliato e che bisognava restituire la figlia alla madre. Così mandò il suo messaggero, Mercurio, nel regno degli Inferi.
Intanto però Plutone e Prosèrpina si erano sposati e la giovane donna ormai voleva bene al marito. Abitava in una splendida reggia tempestata di pietre preziose perché il re degli Inferi possedeva tutti i minerali preziosi che si trovano nelle viscere della Terra. Quando ascoltò il messaggio di Mercurio, tuttavia, la prese una grande nostalgia per la madre e pregò il suo sposo di lasciarla andare.
Plutone la guardò con amore e disse:
– Prosèrpina, ti prego. Ti lascio tornare da tua madre, ma prima acconsenti a bere con me da questo calice.
Prosèrpina bevve il liquido vermiglio; sentì sotto i denti dei granelli, ma li trangugiò senza farvi caso. Il liquido era il succo del melograno e chi lo beveva era destinato a passare ogni anno negli Inferi tanti mesi quanti granelli aveva inghiottito. Plutone, che lo sapeva, aveva dato la bevanda alla sposa per avere la certezza di non perderla interamente.
Subito la fanciulla risalì sulla terra. La madre, felice, l’abbracciò e la baciò e per miracolo il mondo si coperse di fiori, di messi, di frutti. Ma Mercurio rivelò a entrambe il segreto del succo di melograno e annunciò che Prosèrpina ne aveva inghiottito quattro chicchi; perciò ogni anno avrebbe dovuto passare quattro mesi nel regno sotterraneo accanto al suo sposo. Cèrere si rassegnò e così fu.
In questo modo, dicevano i Romani che raccontavano questo mito, ebbero origine le stagioni e i lavori agricoli che producono i cereali, ovvero “le piante di Cèrere”. D’inverno infatti la dea, separata dalla figlia diletta, diffonde sulla Terra gelo, rigore, squallore; ma a primavera, quando Prosèrpina torna da lei, tutto fiorisce e germoglia di nuovo. E così ogni anno si rinnova il miracolo della natura che si ridesta e rivive, per la gioia e per la speranza degli uomini.