Saul Bellow è sempre stato un personaggio controverso e affascinante, sebbene non facile per amici e famigliari, né, certo, per intellettuali e letterati, dei quali sì era pronto ad accettare gli elogi ma, quasi mai, le critiche.
Nato a Lachine (Quebec) il 10 giugno 1915 da genitori russi di Odessa immigrati in Canada due anni prima, vive a lungo a Chicago, città «volgare e vitale» (così la definisce in «Il dicembre del professor Corde»), dove si laurea in sociologia e antropologia nel 1937. I genitori avrebbero voluto fare di lui un rabbino, ma la sua passione è stata sin da giovane la letteratura. Insignito del premio Nobel nel 1976, ha avuto una vita sentimentale piuttosto burrascosa e tormentata: cinque mogli, numerose amanti e quattro figli, l’ultimo dei quali concepito all’età di ottantaquattro anni.
Grande creatore di personaggi, ha saputo ritrarre l’evoluzione di un’intera società, poveri e intellettuali, politici e ricchi borghesi, gangster e opportunisti, con un’attenzione particolare all’umanità sofferente degli ospedali, degli ospizi, delle carceri.
La sua opera, come ha detto Ian McEwan, il più significativo scrittore inglese della sua generazione, è «l’incarnazione della visione americana di pluralità». E Philip Roth, che insieme a Bernard Malamud e Saul Bellow forma la triade dei grandi scrittori ebrei americani, non ha esitato a definirlo il maggiore scrittore americano del Novecento insieme a Faulkner.
In opposizione al vitalismo di Hemingway, Bellow ha creato personaggi perdenti, sgangherati, grotteschi, pazzi, ignobili, meschini. La sua narrativa è una costante denuncia del “sogno americano”, di una realtà che non è fatta di libertà, uguaglianza, giustizia, democrazia, abbondanza, ma di conflitti sociali e razziali, di soprusi da parte dei potenti, di violenze e crimini quotidiani.
I suoi modelli letterari sono Conrad e Singer, che aveva tradotto grazie alla conoscenza della lingua yiddish, imparata dai genitori, e i narratori russi, Dostoevskij soprattutto. Fedele a un’idea di umanesimo e di tolleranza, Bellow ha creduto nella democrazia liberale, ha difeso l’individuo che lotta per difendere la sua anima contro la disumanizzazione e ha sempre combattuto le idee correnti, gli stereotipi, le astrazioni, la banalità e il chiacchiericcio culturale. Con una prosa fluida e avvolgente, efficace nel ritmo ma tradizionale nell’impianto, non ha mai amato Eliot, Sartre e il nouveau roman e non si è lasciato incantare dal romanzo postmoderno.
Ha scritto una dozzina di romanzi e almeno quattro, tutti appartenenti alla prima fase della sua narrativa, sono dei capolavori: «L’uomo in bilico» (1944), splendido ritratto di una sorta di dostoevskiano “uomo del sottosuolo” che non vuole nulla, è indifferente a una scelta qualsiasi e si libera dei suoi legami precedenti in attesa di andare sotto le armi; «La vittima» (1947), accanito duello tra vittima e persecutore in cui un antisemita accusa un ebreo di avergli fatto perdere il posto di lavoro e di aver provocato la scomparsa della moglie, finché questi viene accerchiato e soffocato dal ritmo frenetico di New York; «Le avventure di Augie March» (1953), un romanzo picaresco sulla scia di «Huckleberry Finn» di Mark Twain con un protagonista sempre disponibile alla ricerca della libertà; «La resa dei conti» (1960), dove un attore fallito quasi cinquantenne che «ha sbagliato tutto nella vita», in crisi con il padre e con la moglie da cui è separato, tocca in poche ore di una giornata il fondo dell’umiliazione e dello scacco.
Piuttosto disuguale e non sempre convincente «Il re della pioggia» (1959), avventure comiche e grottesche di un americano miliardario, Henderson, in un’Africa immaginaria dove diventa lo stregone di una tribù. «Forse è negli errori il senso della vita», dice il protagonista di «Herzog» (1964), sicuramente il suo romanzo più famoso e rappresentativo che gli ha dato la notorietà anche in Europa. Moses Herzog è un intellettuale ebreo, un professore deluso ma affascinante, cornuto e seduttore, depresso per il divorzio dalla seconda moglie, fallito sotto ogni punto di vista, che si salva dalla follia scrivendo lettere che non spedirà mai agli amici, ai familiari, ai protagonisti della cultura occidentale.
Libri divertenti e stralunati sono «Addio alla casa gialla» (1968), sei racconti in cui i personaggi lottano contro un mondo indaffarato e indifferente, e «Il pianeta di Mr Sammler» (1970), definito da Arbasino «una bomba ideologica-eroicomica ai danni del giovanilismo di moda». È la storia di un ricco ebreo di Cracovia che, scampato a un campo di sterminio dove ha perso la moglie, si rifugia in Inghilterra, frequenta Wells e sceglie la strada del misticismo per opporsi al mito del profitto.
«Il dono di Humboldt» (1975) è un romanzo-saggio sulla crisi dell’intellettuale, sulla noia della vita, sul denaro, appesantito però da una certa prolissità e ridondanza. Un difetto questo che caratterizza l’ultima fase della sua narrativa, «Il dicembre del professor Corde» (1976), «Il circolo Bellarosa» (1989), «Ravelstein» (1999), dove Bellow smarrisce la sua sobrietà, filosofeggia troppo, anche se ogni tanto affiora la zampata del grande scrittore.