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Nel campo della storia dell’arte e della tutela artistica, il secolo che doveva chiudersi con le soppressioni napoleoniche e con la nascita del Grand Louvre a Parigi segna anche il passaggio dal collezionismo privato, principesco o dinastico al museo pubblico. La stessa gestione del patrimonio artistico diventa sempre più compito irrinunciabile dei diversi governi nazionali secondo i nuovi principi dell’utile e del decoro pubblico, della promozione delle arti, del progresso degli studi e delle scienze.
Dalle collezioni artistiche ai musei
Già nei primi decenni del Settecento Caspar Friedrich Neickel pone le basi della moderna museografia in un ampio trattato (Museografia, LeipzigBreslau, 1727) incentrato sulla catalogazione minuziosa delle raccolte esistenti nell’Europa del tempo, sulle loro diverse finalità e tipologie (dalle Kunstkammern e Naturalien und Raritatenkammem in Germania ai cabinets francesi, alle gallerie e agli studi in Italia) e sui materiali che potevano costituirle, proponendo fra l’altro una distinzione di massima fra le collezioni di storia naturale (vale a dire di naturalia) e quelle di oggetti artistici (artificialia). Solo di rado tuttavia Neickel si sofferma sui proprietari (sovrani, principi, amatori e istituzioni ecclesiastiche), dando per scontato tanto il carattere privato delle raccolte, quanto la loro relativamente facile accessibilità per un pubblico selezionato di studiosi, viaggiatori e artisti che ne avessero fatto richiesta.
Di fatto in Italia, all’aprirsi del secolo, solo quattro raccolte possono considerarsi pubbliche a tutti gli effetti: a Roma la raccolta di bronzi e statue antiche in Campidoglio, il cui nucleo costitutivo risaliva alla donazione del pontefice Sisto IV (1471); a Venezia l’Antiquarium Grimani ospitato nella Biblioteca Marciana; a Bologna il Museo naturalistico legato alla città da Ulisse Aldrovandi (1603) e successivamente arricchito con le raccolte di naturalia e artiftcialia del marchese Ferdinando Cospi (1677); a Milano l’Accademia Ambrosiana, fondata nel 1618 dal cardinale Federico Borromeo che le aveva destinato le sue ricchissime collezioni d’arte.
Il principio secondo il quale le grandi raccolte delle case regnanti per quanto spesso arricchite con la sistematica spoliazione delle più celebri pale d’altare da chiese e istituzioni cittadine costituiscono una proprietà esclusiva del principe trova ancora nel Settecento clamorose conferme con la vendita perpetrata nel 1745 dal duca di Modena Francesco III dei cento migliori dipinti della Galleria estense ad Augusto III di Sassonia (opere di Correggio, Parmigianino, Tiziano, Veronese, Annibale Carracci, Guido Reni) e anni prima con la decisione di Carlo III di Borbone di portare con sé a Napoli l’intera collezione ereditata da Elisabetta Farnese, collezione che in realtà era strettamente legata, per storia e vicende, al ducato di Parma. Questi episodi, tuttavia, sono ormai contro tendenza; in questi anni la cresciuta consapevolezza del valore didattico dell’arte e del diritto dei cittadini a una sua fruizione più allargata si accompagna, infatti, alle esigenze di una matura storiografia, trovando credito negli atti e nelle forme della gestione artistica dei monarchi illuminati. Muta allora anche l’aspetto delle raccolte principesche, ordinate non più secondo le preferenze estetiche dei proprietari ma secondo i nuovi principi scientifici e didattici dell’antiquaria e dell’erudizione, grazie ai quali le gallerie, al pari di biblioteche, accademie e teatri, si propongono quali luoghi destinati alla conoscenza e alla formazione culturale dei sudditi.
Il primato dell’erudizione: i musei accademici
A metà Settecento, i principi e le finalità del museo vengono ben sintetizzati da Diderot: “nelle raccolte di quadri in cui non si ammettano opere incerte, alterate, svisate e i cui possessori consentano l’ingresso non soltanto agli artisti, ma a tutti quelli che vogliono realmente istruirsi, senza eccezione di condizione, e nelle collezioni in cui si raccolgono e si accostano, seguendo una sorta di metodo, le opere belle, queste divengono, per le arti e per la nazione, delle scuole nelle quali gli amatori d’arte possono apprendere nozioni, gli artisti fare utili osservazioni e il pubblico ricevere alcune prime idee giuste”.
Selezione e catalogo, metodo e didattica rappresentano, prima ancora che le parole chiave del nuovo museo, i principi, a cui si ispira la moderna antiquaria e le finalità che nel Settecento consentono all’erudizione storica di riconoscersi nel novero delle scienze esatte. All’inizio del secolo, i primi musei pubblici nascono dunque a lato delle istituzioni scientifiche, delle accademie e spesso ne costituiscono il naturale prolungamento conoscitivo e didattico. A Bologna, la fondazione dell’Istituto delle scienze (1714) precede di poco la nascita dei musei universitari che finiranno per incamerare (1742-1743) le collezioni cittadine Aldrovandi e Cospi. Così l’originaria varietà di queste ultime, tipiche Wunderkammern barocche, tenderà a frantumarsi in un ordinamento che ormai privilegia la specificità delle discipline e la selezione per classi d’oggetti e materiali (naturalistici, geologici, meccanici, artistici). A Verona è l’Accademia filarmonica a ereditare dalle mani del suo creatore, Scipione Maffei, il nuovo Museo epigrafico, modello di riferimento per tutto il Settecento nel campo della museografia e dei criteri espositivi. Per la prima volta, infatti, i sistemi di catalogazione messi a punto dall’antiquaria più aggiornata ispirano l’ordinamento degli oggetti, anticipando le più vaste e complesse realizzazioni della seconda metà del secolo. Abbandonando il criterio ornamentale e simmetrico delle precedenti raccolte epigrafiche, Scipione Maffei sceglie infatti di ordinare le lapidi in sequenze cronologiche per tipologie e classi (greche, etrusche, latine, cristiane, medievali, moderne o spurie), fornendo esaurienti esemplificazioni di ogni tradizione paleografica. Dando alle stampe la Notizia del nuovo museo di iscrizioni (1720), Maffei pone le basi per una museografia fondata sul metodo conoscitivo e sulla “serie” cronologicamente coerente e progressiva, la sola in grado di restituire a ogni reperto epigrafico il proprio valore di fonte e di documento storico. Ma con la raccolta veronese, ospitata in un edificio appositamente costruito, con un porticato di ordine dorico, Maffei pone anche le premesse del museo come ambientazione, come luogo caratterizzato fin nella tipologia architettonica prescelta che sempre più, dalla fine del secolo, verrà a coincidere con l’architettura neoclassica.
Il modello romano
Il dibattito sulle forme del museo, sulla sua funzione di “ornamento” e “decoro” dello Stato, luogo di conoscenza e di istruzione, trovano naturale approdo nella Roma degli antiquari, dei collezionisti e dei viaggiatori, dove continui sono i cantieri di scavo. Inoltre, davanti all’inarrestabile crisi politica ed economica dello Stato pontificio, cresce la consapevolezza che solo il passato classico, lo sterminato “museo a cielo aperto” che Roma sa offrire agli artisti e ai visitatori, è ancora in grado di garantire alla città, come nei secoli precedenti, la sua posizione di assoluta centralità e primato in Europa.
I due volti di Roma, quella impegnata da secoli per iniziativa dei pontefici nella tutela dei suoi tesori, attraverso un sistema sempre più complesso e all’avanguardia in furopa di bandi e provvedimenti legislativi, e quella cosmopolita dei collezionisti, dei Mercanti, del flusso ininterrotto di capolavori antichi verso l’estero, sono ben rappresentati all’interno della stessa famiglia di Clemente XI (1649-1721) dai due nipoti Annibale Albani e Alessandro.
L’uno è infatti il promulgatore, nel 1726, di un editto tra i più severi del secolo contro gli scavi clandestini, il danneggiamento o la vendita di reperti classici; l’altro è invece il grande mecenate e il punto di riferimento obbligato per oltre cinquant’anni del mertato artistico internazionale in contatto con Roma. Collezionista egli stesso, dal 1757 Alessandro ha al suo fianco, in qualità di bibliotecario, l’archeologo Johann Joachim Winckelmann proprio negli anni dell’allestimento della sontuosa villa sulla Salaria, destinata a ospitare le sUe raccolte classiche.
Progettata a partire dal 1746 dall’architetto Carlo Marchionni, non come residenza né come luogo di pubblico accesso, e presto spogliata, vivo il cardinale, di parte delle raccolte per vendite inconsulte, Villa Albani si segnala come episodio museografico d’eccezione, a metà strada fra le esigenze di un gusto antiquario pronto alla manipolazione del reperto come sua ricontestualizzazione rocaille e quelle di una moderna lettura formale e tipologica delle opere. Nella villa, comunque, “si capovolge il rapporto fra gli oggetti di scavo e l’invaso spaziale: planimetria, architettura e percorsi sono commisurati per la prima volta ai reperti, che perdono la funzione esornativa di arredo e determinano il gusto dell’architettura” (Ottani Cavina). Queste scelte del resto sono tanto più significative, considerando la possibile corresponsabilità di Winckelmann e la perfetta contemporaneità fra le fasi di allestimento della villa e la stesura da parte del bibliotecario archeologo e poi curatore delle raccolte della sua fondamentale Storia dell’arte nell’antichità (1764).
La nascita della moderna archeologia e della storia dell’arte classica sancita dalla ubblicazione dell’opera di Winckelmann così come l’esempio di Villa Albani hanno un peso sull’iniziativa dei pontefici ed è solo di pochi anni successiva la fondazione in Vaticano di un grande museo pubblico ad opera di Clemente XIV (1705-1774), museo che ingrandito in seguito dal successore Pio VI (1717-1799) prenderà il nome di Pio Clementino. Allestito a pochi passi dal cortile del Belvedere che da secoli ospitava le opere più celebrate dell’antichità di proprietà dei pontefici (il Laocoonte, l’ApolIo del Belvedere), pietra miliare per lo sviluppo successivo dei Musei Vaticani, il Museo Pio Clementino rilancia l’immagine europea di Roma e del papato nella promozione delle arti e della cultura. Ma il museo è anche e soprattutto il frutto di una più incisiva politica di tutela avviata nei decenni precedenti dall’amministrazione pontificia. Il fatto nuovo che viene ad affiancarsi all’ormai secolare tradizione legislativa dei bandi e degli editti tanto puntuaie quanto poi fatalmente disattesa talvolta proprio dagli stessi promulgatori (valga l’esempio del cardinale Albani) è per i pontefici un diverso atteggiamento nei confronti del mercato artistico e del collezionismo straniero, alle cui richieste e pressioni non è più possibile far fronte con il solo strumento giuridico e coercitivo.
A partire da Clemente XII (1652-1740) che nel 1733 acquista per i Musei Capitolini un cospicuo nucleo della collezione Albani, sottraendolo così alle mire dei potenziali acquirenti stranieri, l’iniziativa diretta dei pontefici e l’istituto del museo pubblico si affermano come gli unici strumenti efficaci per legare indissolubilmente collezioni e opere d’arte alla città. I Musei Capitolini sono i primi beneficiari della nuova, decisiva presenza sul mercato del governo pontificio e nel giro di pochi anni, al tempo di Benedetto XIV (1675-1758), si arricchiscono anche di una cospicua pinacoteca, dopo l’acquisto in blocco delle collezioni Sacchetti (1748) e Pio di Savoia (1750). Col trasferimento dal Palazzo dei Conservatori al Palazzo Nuovo, i Musei Capitolini vengono inoltre dotati di una sede funzionale e, fatto del tutto nuovo, di un catalogo a stampa affidato a un erudito del calibro di Giovanni Bottari.
L’urgenza di assicurare sede stabile all’enorme quantità di materiali acquistati o ottenuti grazie all’introduzione di nuove norme giuridiche che sanciscono la proprietà del pontefice su un terzo delle opere d’arte ritrovate negli scavi, nonché la necessità di rendere ormai pubbliche anche le più antiche collezioni papali porta allora alla fondazione del Museo Pio Clementino. L’ordinamento iconografico e tipologico del museo viene affidato ad archeologi di chiara fama e di sicura fede winckelmaniana, come Giovanni Battista ed Ennio Quirino Visconti, autore quest’ultimo anche del catalogo a stampa, il cui successo nell’ambito degli studi antiquari è pari soltanto alla precedente Storia dell’arte di Winckelmann.
La galleria del principe a decoro e ornamento dello Stato
A parte il caso isolato del British Museum, istituito a Londra nel 1753 dal Parlamento con fondi pubblici e sottoscrizione popolare, le concezioni e le finalità del museo così come sono definite all’inizio del secolo vengono fatte proprie soprattutto dai governi assolutistici nella seconda metà del Settecento. Il prestigio europeo delle diverse case regnanti si gioca ora anche attraverso un’accorta pubblicizzazione delle proprie raccolte artistiche, la realizzazione di nuovi edifici funzionali e rappresentativi che possano ospitarli (sancendo la definitiva separazione fra l’abitazione del proprietario e la collezione), l’arruolamento di storici ed eruditi a cui affidare l’organizzazione e la catalogazione dei materiali. In particolare sono le quadrerie principesche il vero banco di prova e il laboratorio di una critica d’arte messa per la prima volta nelle condizioni di verificare nella scelta, nell’ordinamento e nella sequenza delle opere le proprie convinzioni e i propri metodi storiografici.
Specie nei paesi tedeschi il museo principesco prende allora a identificarsi in una specifica tipologia architettonica già prospettata dal veneziano Francesco Algarotti ad Augusto III di Sassonia nel suo Progetto organico per ridurre a compimento il regio museo di Dresda (1742), allorché si auspicava la costruzione di un “sontuoso, antico tempio” dotato di rotonda centrale e tribuna. Se la realizzazione di simili progetti tocca soprattutto i primi decenni dell’Ottocento (Glyptothek e Alte Pinakothek a Monaco, Altes Museum a Berlino), per il secolo precedente si segnala, oltre al museo di Dresda, aperto al pubblico nel 1765 e celebrato da Goethe, il Museum Fridericianum a Kassel, realizzato fra il 1769 e il 1779 e destinato a ospitare collezioni di antichità classiche e gabinetti di curiosità naturali.
Nel 1756 a Dùsseldorf la galleria del principe Karl Theodor viene trasferita in un apposito, autonomo edificio e la stessa sorte tocca alla quadreria imperiale di Vienna (1776-1778) che, per volontà di Giuseppe II, trova un nuovo ordinamento nel palazzo del Belvedere, come premessa alla sua definitiva apertura al pubblico. L’esempio viennese con gli intenti pedagogici sottesi alle scelte espositive per scuole e cronologia dei dipinti, presentati con nuove e più semplici cornici (quasi a volere annullare, nella raccolta, ogni possibile allusione a precedenti ambientazioni dinastiche o d’apparato), sono il modello immediato a cui si ispira, anche in Italia, a Firenze il riordinamento delle raccolte granducali.
È nel 1769 che il granduca Pietro Leopoldo fratello di Giuseppe II d’Austria decreta l’apertura al pubblico degli Uffizi; ma nell’ormai secolare storia della galleria fiorentina un passaggio non meno importante si era registrato nel 1737 quando l’ultima Medici, Anna Ludovica, con un atto ufficiale divenuto giustamente celebre aveva trasferito alla nuova dinastia dei Lorena l’intero e vastissimo patrimonio di famiglia, a condizione che esso venisse riconosciuto inalienabile, quale ricchezza culturale spettante alla città di Firenze. Il passaggio successivo, dunque, non poteva che essere la riapertura e il riordinamento delle raccolte fiorentine (1780) affidato a Belli-Bencivenni e a Luigi Lanzi, a cui si deve la stesura del nuovo catalogo (La Real Galleria di Firenze, 1782) e l’enunciazione dei principi che avevano guidato la selezione dei materiali.
“Il Real Museo di Firenze”, scrive Lanzi, “(è ora) ridotto quasi al sistema delle benintese biblioteche, ove ogni classe tiene un luogo separato e distinto da tutte le altre”. Prima invece “il domicilio delle Muse era diviso con Marte; e fra le sculture e le altre belle opere della pace si contavano quattro stanze piene di armi e di arnesi da guerra Tre gabinetti vi erano di pittura e scultura; ma qui avevano pur luogo idoli di bronzo e miniature e disegni e gemme e lavori antichi e moderni, tutto ammontato più tosto che distribuito: si sana detto che fossero tre raccolte di padroni diversi, ciascuna de’ quali vi andasse collocando i suoi acquisti”.
L’esperienza museografica e in particolare il riordinamento della quadreria granducale ispirato sulla traccia delle Vite di Vasari ai “progressi della Scuola fiorentina”, hanno un seguito nella stessa ricerca storiografica del Lanzi, a cui si deve il primo disegno globale della storia dell’arte italiana. Nella sua Storia pittorica (1795-1796), improntata come l’ordinamento degli Uffizi ai modelli più aggiornati della storiografia ed erudizione letteraria (la Storia della letteratura di Tiraboschi), la classificazione geografica e cronologica delle scuole si sostituisce al sistema tradizionale delle biografie artistiche, giacché come nel museo anche nella trattazione storica per ammissione dello stesso Lanzi più che l’uomo ha importanza il pittore, “anzi non tanto il pittore isolato e solitario, quanto il talento, il metodo, le invenzioni, lo stile, la varietà, il merito, il grado di molti pittori, onde risulti la storia di tutta l’arte”.
L’età napoleonica
La Rivoluzione francese e le campagne napoleoniche interrompono bruscamente l’età del riformismo illuminato. In Francia la statalizzazione delle raccolte reali, dei beni e delle proprietà ecclesiastiche, votata dall’Assemblea nazionale nel 1791, afferma per la prima volta il carattere integralmente pubblico del patrimonio storico artistico. Passata la fase del vandalismo e dell’iconoclastia rivoluzionaria contro ogni immagine del passato neofeudale (monumenti, edifici, tombe reali e statue equestri), l’istituzione della Commissione dei monumenti, della Commissione per le opere d’arte di cui fanno parte artisti come Jacques-Louis David, Jean-Honoré Fragonard, Wicar la creazione al Louvre del Musée Révolutionnaire (1793) e nell’ex convento dei Petits Augustins dell’effimero Musée des Monuments francais, voluto da Alexandre Lenoir, aprono l’epoca dell’amministrazione statale del patrimonio artistico.
Con il Musée Révolutionnaire, che ospita inizialmente una scelta delle raccolte già appartenute al re di Francia e alle principali famiglie nobiliari, si realizza compiutamente nelle strutture e nei servizi (didascalie esplicative, visite guidate, catalogo a stampa) il modello settecentesco del museo pubblico e didattico. E proprio l’immagine del Louvre come museo della ragione e della perfetta conservazione contro l’oscurantismo, il degrado cui l’arte era stata soggetta per secoli nella cattiva gestione dei monarchi e del clero, verrà spesa nel corso delle campagne napoleoniche a giustificazione delle sistematiche requisizioni di capolavori inviati a Parigi dai Paesi Bassi (dal 1794) e dagli stati italiani (dal 1796).
Con i nuovi arrivi, scelti in ogni città occupata da speciali commissioni d’esperti (in Italia si distinguono Appiani, Wicar e Moitte), il Louvre poi ribattezzato Musée Napoléon muta d’aspetto e finalità. È ora soprattutto immagine trionfalistica della supremazia politica della Francia, presentazione di capolavori assoluti di ogni epoca e scuola, assunti a testimonianza esemplare del genio e della civiltà. Sradicate dai luoghi d’origine le opere trovano nel museo una nuova giustificazione estetica, didattica e storica; il nuovo filo conduttore è lo stesso sviluppo progressivo dell’arte e dello stile esemplificato nei suoi massimi traguardi, a partire dai “primitivi” (Cimabue, Giotto, Gentile da Fabriano, Beato Angelico) le cui opere verranno scelte personalmente da Dominique-Vivant Denon, curatore delle raccolte, nel corso di un viaggio in Italia nel 1811-1812.
Nei paesi conquistati la perdita dei maggiori capolavori, che verranno recuperati soltanto dopo il trattato di Vienna (1815), doveva traumaticamente svelare il legame inscindibile fra la storia, la cultura di un popolo e il suo patrimonio artistico. Ma è ancora un volta in Francia che l’esperienza napoleonica, la pratica del déracinement, produce con le Lettres à Miranda di Quatremère de Quincy (1796) una prima fondamentale riflessione sull’opera d’arte come bene legato al contesto di appartenenza, alla civiltà che l’ha prodotta e, dunque, una prima critica al museo come luogo in cui si distruggono irrimediabilmente le suggestioni, le corrispondenze mentali, le capacità associative e i nessi della storia; tutti elementi questi che per Quatremère de Quincy, come per la successiva generazione romantica, concorrono in modo determinante al godimento dell’opera d’arte e al piacere estetico.