Ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1978. Il suo nome è legato, in particolare, al romanzo “La famiglia Moskat”, vasto affresco della società ebraico-orientale pubblicato nel 1950. E’ cresciuto nel clima rigoroso della tradizione ebraica più osservante. Il padre era un rabbino chassidico e la madre era figlia di un rabbino. Sono queste le origini di Isaac Bashevis Singer, nato nel luglio del 1904 a Radzymin, un piccolo paese rurale polacco.
Scrittore radicato nell’identità ebraica, Singer ha respirato fin dall’infanzia le consuetudini della cultura yiddish. Ne ha interpretato gli umori più nascosti mettendo in evidenza le abitudini e i punti di forza di un mondo che rischia di perdersi. Non è stato difficile per lui raccontare le dinamiche del microcosmo in cui si è formato fin dalla più tenera età. E’ stato l’interprete di una tradizione antica che si perde nel passato. Ogni tappa della sua vita è stata costellata dalla sensibilità ebraica che lo ha seguito ed ispirato.
A tre anni la famiglia si trasferisce a Varsavia dove il padre ricopre un incarico di grande responsabilità nell’ambito della comunità. Diventa la figura di riferimento della corte rabbinica, la Beth Din. Amministra la giustizia e offre la sua saggezza per risolvere i casi più complicati. Nella Beth Din si ritaglia il ruolo di leader spirituale. Singer, peraltro, trascorre alcuni anni in un villaggio lontano dalla capitale: poche case nelle quali viene praticata la legge antica senza condizionamenti o fughe in avanti.
E’ da qui che bisogna partire per ricostruire la biografia di un intellettuale schivo che si è sempre sentito un esiliato senza una patria in cui riconoscersi. Singer, in fondo, è stato un uomo in viaggio. Ha passato molti anni in Polonia, la terra madre che ha abbandonato per gli Stati Uniti. Spesso, malgrado la sua indiscutibile appartenenza religiosa, non si è considerato un ebreo a tutto tondo. Il vincolo con la Polonia, inoltre, non è stato sufficiente a farlo sentire un cittadino polacco. Non è stato neanche un vero americano benché abbia trascorso a New York buona parte della sua esistenza. Eppure, nei suoi romanzi, riecheggiano gli stimoli e le atmosfere ebraiche che si sono sedimentate nel tempo. Amava ripetere che tutti i suoi scritti rappresentavano un frammento della sua identità. “Io sono – sosteneva – in tutti i miei libri in un modo o nell’altro”. Libri che hanno fatto ribalzare l’immagine di un popolo stretto tra la necessità di sopravvivere e il desiderio di tramandare la propria storia.
L’Accademia delle Scienze di Stoccolma, conferendogli il Nobel per la letteratura, ha espresso un giudizio netto ed indiscutibile. Singer meritava il riconoscimento “per la sua veemente arte narrativa che, radicata nella tradizione culturale ebraico-polacca, fa rivivere la condizione umana universale”. Il dato che accomuna la sua produzione letteraria è la descrizione delle attese e delle speranze di un popolo che è stato spazzato via dall’Olocausto. Ne ‘La famiglia Moskat’, primo romanzo pubblicato in inglese, il Nobel segue l’evoluzione di una grande ed articolata famiglia ebraica dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento. Nell’arco di oltre cinquant’anni, si incrociano eventi diversi e nascono amori indissolubili sullo sfondo di una Varsavia ricca e indolente. Di fatto, la narrazione procede, passo dopo passo, verso la Soluzione finale. I protagonisti della saga si muovono in un contesto alimentato da un’agiatezza antica fatto di nobiltà e di decadimento. Singer, insomma, definisce i confini di una società che cammina inconsapevole verso la sua disgregazione.
In questo senso, il mondo ebraico-orientale è il vero protagonista del libro. Un mondo sul quale spicca la figura del vecchio patriarca Meshulam Moskat, emblema incontrastato della famiglia. Guidato dai principi intramontabili dell’ebraismo più ortodosso, Meshulam Moskat accompagna da lontano le vicende dei vari membri della sua casa. Uomini e donne spinti dal desiderio di continuare a costruire il proprio il proprio futuro ma incapaci di realizzare i propri sogni. “Alla mia destra – è solito ripetere Meshulam — è Michele. Alla mia sinistra è Raffaele. Davanti a me è Uriel. Dietro di me è Gabriele. E sul capo la divina presenza di Dio”. Imprenditore potente, che ha accumulato ricchezze e proprietà ingenti, il patriarca percepisce la fine incombente. Nessuno dei suoi eredi riuscirà ad estendere il patrimonio acquisito. Nessuno si mostrerà adatto a proseguire sulla via che lui ha tracciato nel corso della sua carriera. In più, il segretario di fiducia di Meshulam allunga la sua ombra sui terreni, sulle case e sulle proprietà dei Moskat cercando di impadronirsene. Il destino della famiglia è segnato in modo irreversibile: il tracollo economico e sociale è imminente. Nulla potrà preservare i Moskat dalla rovina.
Nulla, pare dire Isaac Singer, potrà salvare la società ebraico orientale da una trasformazione che cambierà il suo destino. E’ per questo motivo che, anche in altre opere, tornano gli elementi principali che hanno caratterizzato il suo mondo: Singer cerca, attraverso la scrittura, di tramandare l’identità della sua gente. Ne “La Fortezza”, pubblicata nel 1957, riporta indietro le lancette della storia. Ambienta il suo romanzo nel 1836 inquadrando una piccola comunità abbarbicata in un lontano paese della provincia polacca. Presenta, ancora una volta, il confronto tra il passato rassicurante ed il futuro incerto e nebuloso. Il suo racconto si inscrive nella ribellione contro il dominio russo iniziata nel 1830. La società polacca è attraversata da una grande ondata di rinnovamento. Gli ebrei si adeguano con fatica alle innovazioni. Il loro vecchio mondo appare in pericolo. Si manifestano rischi sempre più gravi e devastanti che minacciano di abbattere la tradizione consolidata. Rischi che Singer segnala mettendo in scena, come hanno spiegato gli Accademici di Svezia, “la condizione umana universale”. Una condizione segnata dal suo possibile dissolvimento che supera i confini della cultura ebraica diffondendosi in molti paesi in questi ultimi tempi oscuri.