Risulta essere certamente l’opera maggiore di Andric’, premio Nobel per la letteratura nel 1961. Venne pubblicato nel 1945, subito dopo la guerra, lo stesso anno in cui lo scrittore pubblicò altri due romanzi altrettanto ampi, e cioè Cronaca di Travnik e La signorina. Andric manifesta qui tutti i pregi della sua arte: la capacità compositiva, lo stile ampio e maestoso, la sapienza nell’alternare i momenti di tensione con quelli di pacatezza, l’amore con cui viene evocato il paesaggio della Bosnia, mondo remoto e arcaico, quasi fermo nella sua bellezza e nel suo isolamento. Si racconta la storia di un ponte, costruito sul fiume Drina, che attraversa la piccola città di Visegrad (al confine con la Serbia): la storia del ponte è il centro intorno al quale l’autore sviluppa la storia degli abitanti di quella città dalla fine del XVI secolo alla Prima guerra mondiale: è quindi un “romanzo storico” e, anzi, uno dei più riusciti e interessanti esempi di romanzo storico. Fu il pascià Mehmed Sokolovič, un serbo convertito all’islamismo, turcizzato (la Bosnia subì una profonda turcizzazione) a costruire il ponte: Mehmed era gran visir e poteva pensare anche al suo Paese.
La costruzione del ponte non fu semplice: richiese fatiche, dolore, anche sangue e tutto questo Andric narra nel libro. Il ponte venne finito nel 1571. Insieme col ponte, secondo il costume del tempo, venne costruito anche un caravanserraglio, che poteva ospitare i viaggiatori. Ed ecco che il ponte diventa il simbolo vivente della città di Visegrad, il muto testimone della storia. Per trecento anni il ponte, stabile e bello, fu come il cuore intorno al quale si sviluppò Visegrad. Elegante nella sua struttura, rimase immutabile, così come il fiume, l’acqua, le montagne circostanti. Immutabile mentre intorno si alternavano le generazioni e lo attraversavano i padri, e poi i figli e poi i figli dei figli e così via, nel fluire della vita e della storia, del dolore e delle speranze umane. Ma anche il ponte invecchiava, seppure a ritmo lentissimo. Non sempre gli uomini se ne curarono, nè pensarono a ripararlo, sovente, quando sarebbe stato necessario: il caravanserraglio, abbandonato, andò in rovina; nel 1799 ci fu una piena: e, almeno in quella circostanza, gli abitanti della città furono affratellati dalla comune sventura, e dimenticarono le divisioni in musulmani, ortodossi ed ebrei. Nel 1804 scoppiò la rivolta dei Karagjorgje e la repressione che seguì: e il ponte vide molte teste di decapitati, perchè sospetti, a torto o a ragione, di aver partecipato alla congiura. Poco tempo dopo venne chiuso, per impedire che si diffondesse ulteriormente un’epidemia di peste. Ma non solo dei drammi corali, di tutto un popolo, era testimone il ponte: lo era anche di drammi individuali, come quello della bella Fatima che fu costretta dal padre a sposare un uomo che non amava, e per questo si gettò nel fiume dove annegò.
Quando nel 1878 la Bosnia venne ceduta all’Austria, il ponte vide passare i soldati turchi in ritirata. Era incominciato un nuovo tempo: sotto l’amministrazione asburgica fu testimone di nuove vicende: la ferrovia, che nel 1900 arrivò a Visegrad, i moti degli studenti socialisti, l’annessione definitiva della Bosnia-Erzegovina all’Austria. E il 1914: la guerra, gli arresti dei Serbi, la vicinanza del fronte. Ed ecco che gli Austriaci, prima di ritirarsi, fanno saltare uno dei pilastri centrali del ponte. E’ come un sacrilegio, così dice l’imano Alihodza, commentando amaramente il fatto, prima di morire. Con la scomparsa del ponte, simbolo della città, la cui presenza diventa mitica, si conclude il romanzo. Il ponte è invero il simbolo della coesistenza, della possibilità, realizzata storicamente, di convivere con reciproca tolleranza, da parte di persone appartenenti a fedi diverse, musulmani, ortodossi, ebrei, tutti accomunati dal fatto di essere nati nello stesso Paese, di avere sofferto le stesse sofferenze, goduto le stesse gioie. Musulmani, cristiani, ebrei, nemici per tanti secoli, intorno a questo ponte si sono incontrati, hanno constatato la loro comune natura di uomini, oltre le ideologie, hanno sperimentato la possibilità di raggiungere la comprensione. Per questo ogni ponte è simbolo della possibilità di comunicazione e amore fra gli uomini.
Andric è, per dirla col Cronia, il cantore della “Bosnia romantica, storica, realistica, in cui, dalla venuta dei Turchi ai nostri tempi, si incrociano razze, religioni, concezioni spirituali e istituzioni sociali diverse e antitetiche, nel cui paesaggio, teatro di guerre, di uccisioni, di prepotenze e di sofferenze, vive ed opera una galleria svariatissima e animatissima di pascià, e visiri turchi, di ufficiali austriaci e frati cattolici, di mercanti e di duchi, di uomini e donne di ogni risma con i loro istinti e le loro passioni, con i loro usi e costumi”. Se è vero che domina, nell’opera complessiva di Andric, “il peso di un destino che si deve compiere” è però altrettanto vero che scorre sotterraneo ma forte il fiume della speranza, lo sforzo perchè oltre le divisioni di etnia e di religione, gli uomini riconoscano la loro unità. Certo, la storia ha sempre dato torto a queste speranze, però, a volte, i fatti, hanno permesso agli uomini di riconoscersi proprio in tale speranza: è di questa che il ponte sulla Drina è il simbolo poetico.