Il glottologo Graziadio Isaia Ascoli è considerato il padre del metodo storico-comparativo e si distingue, in anni in cui predomina una concezione naturalistica del linguaggio, oltre che per il rigore del metodo, per la costante tendenza a storicizzare i problemi linguistici e per il riconoscimento di dignità di lingua ai dialetti.
Di origine ebraica, figlio di ricchi mercanti, studia da autodidatta. Nella sua formazione hanno un ruolo fondamentale l’ambiente di Gorizia, dove convivono italiano, tedesco, sloveno, veneziano, friulano, e l’incontro con gli studiosi tedeschi che lo introducono alla grammatica comparata e alla filosofia del linguaggio. Nel 1860 diventa professore di Grammatica comparata e lingue orientali all’Accademia scientifico-letteraria di Milano, prima cattedra di linguistica comparata in Italia, incarico cui si dedica pienamente fino al 1896 quando viene nominato senatore. I suoi primi contributi sono costituiti dal I e dal II fascicolo degli Studi orientali e linguistici (1854-5), che raccolgono commenti e traduzioni da testi sanscriti, studi sul semitico e sui dialetti italiani, oltre che notizie sull’attività dei linguisti tedeschi; ad essi segue nel 1860 il I volume degli Studi critici sul dialettologo Bernardino Biondelli. Nel decennio seguente Ascoli si occupa di etimologia, della lingua degli zingari, del nesso ario-semitico e soprattutto di fonetica indoeuropea (Lezioni di fonologia comparata del sanscrito, del greco e del latino è del 1870) con gli studi sulle consonanti sorde e sonore aspirate indoeuropee e l’attribuzione delle tre serie di consonanti velari all’indoeuropeo. Nel 1873 fonda la rivista Archivio Glottologico Italiano, in cui inserisce i Saggi ladini. Nelle successive opere continua a occuparsi di linguistica romanza e indoeuropea con studi sul franco-provenzale, sul celtico, sulle parlate italiche e sui dialetti italiani. Fondamentale in questi testi è l’applicazione del principio del sostrato etnico (l’azione esercitata dalla lingua vinta su quella dominante) e l’impiego del concetto di isoglossa per individuare un’area linguistica.
La critica mossa da Ascoli alle tesi linguistiche di Alessandro Manzoni rappresenta, inoltre, il momento culminante della questione della lingua nel secondo Ottocento. Lo scrittore milanese in una relazione al ministro Broglio del marzo 1868 (Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla) sosteneva la necessità dell’unità linguistica in Italia tramite la sostituzione di un idioma comune ai diversi dialetti in uso, tentava di dimostrare che tale idioma era da identificare nel fiorentino e proponeva come suo strumento di diffusione un vocabolario. A questa proposta il linguista replica nel Proemio al I numero dell’ “Archivio” opponendo ragioni di ordine storico-culturale. Ascoli ammette che la lingua italiana dei testi letterari è il toscano, e più propriamente il fiorentino trecentesco, fissato e poi codificato nella tradizione scritta; ma il fiorentino moderno non è altro che l’ “ultimo momento” di una parlata municipale e non può essere assunto arbitrariamente e astoricamente come modello unico per la lingua nazionale.
In Italia, tra la conquista romana e l’unificazione politica, non avevano agito forze capaci di accrescere o almeno di salvaguardare l’omogeneità linguistica delle diverse regioni: non c’era stato, cioè, uno stato unitario con una capitale a creare un accentramento demografico, politico, economico, intellettuale e in grado di imporre anche un modello linguistico al resto del paese. Così era avvenuto in Francia, dove la centralizzazione a Parigi e la monarchia avevano contribuito a diffondere una lingua letteraria nella nazione. Ma la Firenze del XIX secolo non aveva tale predominio. Secondo Ascoli, per operare un confronto con la situazione linguistica italiana, bisogna guardare invece alla Germania, dove all’assenza di un unico centro di potere ha sopperito un fenomeno come la Riforma: Lutero con la diffusione della Bibbia “ruppe l’unità della fede e creò l’unità della nazione” soprattutto a livello linguistico, accendendo con il dibattito su temi religiosi in ogni regione tedesca la circolazione di idee, diffondendo l’istruzione elementare e la lettura dei testi sacri.
Secondo Ascoli, dunque, deve essere abbandonato il culto del modello fiorentino, riflesso di una preoccupante inerzia mentale e al tempo stesso indizio di un nuovo formalismo; non si deve accogliere la nomenclatura fiorentina imposta da un programma astratto e chiuso alle ragioni della storia, bisogna fondare, aprendosi a tutte le componenti culturali della nazione, una lingua che corrisponda ai bisogni di una società moderna.
La via da percorrere è indicata nella lotta diretta contro l’antico, “doppio inciampo della civiltà italiana”, nella “scarsa densità della cultura e [nel] l’eccessiva preoccupazione della forma”. Il metodo e la lingua, al momento possesso esclusivo di un piccolo numero di colti – gli “operaj dell’intelligenza – devono diventare patrimonio comune; l’unità linguistica è la derivazione naturale del progresso culturale di una nazione.
Ascoli pone, dunque, l’esigenza di una lingua partecipe della cultura nazionale ed europea e di una cultura diffusa nel popolo. L’unità linguistica nazionale può essere raggiunta soltanto attraverso quel ” moto complessivo delle menti” che consegue allo scambio e all’organizzazione culturale; questo perché l’unità della lingua è “unità di pensiero e parola”, ovvero è il risultato di un’omogeneità culturale, primo obiettivo della nazione costituita e fattore esclusivo capace di modellare uno strumento reale di comunicazione.
La sostituzione del criterio normativo di Manzoni con un giudizio fondato su una consapevolezza storica prefigura, in effetti, una situazione realizzatasi in Italia a distanza di un secolo, in cui diffusione e buon uso di una lingua unica si rivelano dipendenti da un’ampia condivisione delle conoscenze.