Definizione di vocale: fonema effettivamente sonante per il fatto che nel nostro apparato fonatorio consentiamo all’aria dei polmoni di passare all’esterno atteggiando la parte superiore dell’apparato stesso senza occluderla; l’aria passa quindi per le corde vocali. Siamo in grado di emettere un numero elevato di vocali atteggiando in modo diverso questa parte dell’apparato, ma solo alcuni suoni vocalici sono pertinenti alla comunicazione, alcune differenze nell’atteggiare l’apparato sono irrilevanti, differenze fonetiche senza rilievo fonologico. é difficile dire quante sono le vocali del greco, anche perché vengono pertinentizzati suoni diversi da dialetto a dialetto. La stessa α lunga che diventa η in una fase non era sentita come identica alla e lunga aperta primaria; se in un’iscrizione troviamo μῆτερ significa che i due suoni erano diversi, sarebbe antieconomico avere due segni per lo stesso suono. Questo significa che anche all’interno dello ionico-attico è complicato dire quante siano le vocali, dipende dalla fase storica.
Definizione di consonante: fonema non dotato di un proprio suono ma qualificato dall’essere articolazione dell’apparato fonatorio superiore che impedisce il passaggio dell’aria per un istante, dunque l’emissione di un suono. Si dividono in momentanee e continue, dette anche occlusive e spiranti; i termini fanno capire due aspetti della differenza, momentanee / continue pone l’accento sul tempo dell’occlusione, che se si protrae non è completa; occlusive / spiranti focalizza proprio la differenza di occlusione, le spiranti hanno quasi un vero suono, cioè la percezione del passaggio dell’aria. Il greco ha pertinentizzato meno consonanti dell’indoeuropeo, facendone confluire alcune in un gruppo e non percependone altre. Le lingue indoeuropee sono divise in kentum e satem, numerali del latino e dell’antico indiano; il primo è un elemento consonantico di tipo palatale, che ha avuto in queste lingue esiti differenti generando diversi suoni consonantici. Le palatali sono una delle tre tipologie di occlusive velari presenti nell’indoeuropeo pertinentizzate: queste sono le palatali, le velari semplici o gutturali e le labiovelari, l’occlusione avviene in punti diversi della gola (canti chianti quanti). Nelle lingue kentum cui appartiene il greco palatali e gutturali sono confluite all’interno delle gutturali costituendo un gruppo unico, le labiovelari sono un gruppo a sé. Nelle lingue satem le labiovelari e le gutturali confluiscono nelle gutturali, le palatali esistono e danno origine a una specie di spirante, hanno evoluzione autonoma rispetto alle altre due. In greco esistono le consonanti occlusive dentali e labiali a seconda del luogo di occlusione. In greco è pertinentizzato il grado di articolazione, cioè l’aggiunta all’occlusione di una vibrazione delle corde vocali, opposizione tra sorde e sonore. Si può anche aggiungere all’occlusione un’appendice aspirata, anche questa opposizione è pertinente. Anche nella pronuncia delle occlusive ci sono cambiamenti nel tempo, la pronuncia scolastica suggerisce una trasformazione (φίλος si dovrebbe pronunciare πίλος occlusiva con appendice aspirata); avviene passaggio della dentale aspirata θ ad una spirante così come per l’occlusiva labale aspirata φ, ad un certo punto questi elementi diventano qualcosa di simile ad una continua. In greco non sono pertinenti e forse foneticamente non esistono le occlusive sonore aspirate indoeuropee, forse confluite nelle sorde. Di spiranti in greco esiste solo la sibilante ς. Le doppie sono fatte da due occlusioni ξ κς, ψ πς, ζ δς o σδ, forse la prima è frutto di metatesi, da ἵζω ne abbiamo la prova, deriva dal raddoppiamento del grado zero σδ σισδω ἵζω; all’inizio le doppie sono scritte con i segni scissi tra loro.
Le liquide e nasali fanno parte di un altro gruppo di fonemi, le sonanti; sono come intermedie tra vocali e consonanti, sono in grado di suonare ma insieme comportano un’occlusione, prevale di volta in volta la natura di vocale o di consonante, dunque si parla sia di semivocali sia di semiconsonanti. In greco sono pertinentizzate ι ed υ semivocaliche, le semiconsonanti liquide λ ρ e le nasali μ ν, le seconde denominate così dal passaggio dell’aria per il naso. Le semivocali quando sono secondo elemento di dittongo conservano la propria natura, per il resto questi fonemi sono o vere vocali o vere consonanti; le nasali possono diventare vocali o sviluppare vocali vicino a sé, sono o sviluppano l’elemento che suona quando ci troviamo di fronte a troppe occlusioni che rendono difficile la pronuncia. Nell’accusativo singolare della flessione atematica la ν sonantizza, cioè fa prevalere la sua natura vocalica, λαμπάδν λαμπάδα. Per capire cosa ci sia alla base delle forme greche è necessario lo studio comparativo delle lingue indoeuropee. Guardando alla struttura di un lessema o di un morfema desinenziale dovremmo essere in grado di ricostruire la forma dell’indoeuropeo, e questo è possibile ma è problematico nell’ambito del vocalismo, a volte ci sono radici che nelle varie lingue si differenziano nelle vocali; anche all’interno del greco stesso sono ammesse alterazioni vocaliche che vanno sotto il nome di apofonia o gradazione vocalica. L’apofonia può essere, modellizzando, timbrica o quantitativa; se si aggiunge alla vocale un elemento sonante si ha un nesso più complesso (λείπω λέλοιπα ἔλιπον, nei primi due casi ι è semivocale, in ἔλιπον è vocale per far risuonare il nesso); πατήρ, πατρός, πατέρα, πατράσι, in πατρός ρ mantiene la sua natura di semiconsonante, dopo ρ c’è la vocale ο e il nesso τρ suona di questa ο; ma πατρσι è un nesso che non suona, dunque ρ in quanto semiconsonante assume in parte la sua natura vocalica e si sonantizza, genera una α, πατράσι, più facile da pronunciare. Il modello funziona restando nel greco, ma il quadro è più complicato: δίδωμι δίδομεν, tema verbale ad alternanza apofonica quantitativa δω δο; forma parallele dell’antico indiano dadami dadimas, cercando il tema verbale si ha un’opposizione che non corrisponde a quella di α lungo ι, il parallelo non regge, non si può ricostruire un indoeuropeo *do do con alternanza quantitativa perché non spiega l’antico indiano. Avvertito il problema gli studiosi hanno parlato di una radice indoeuropea nella quale l’alternanza fosse tra *do con un elemento schwa che poteva allungarla, e d+schwa, che spiegava sia greco sia antico indiano: schwa corrisponde all’elemento semivocalico che si può aggiungere ed è comune ed accettabile in greco, come in λέλοιπα ἔλιπον; schwa quando è solo si traduce in vocale breve, quando si accompagna a vocale breve la allunga: δίδωμι tema δο+schwa, δίδομεν tema δ+schwa. In antico indiano ω del greco diventa a lunga, tema do+schwa, e schwa da solo si traduce quasi sempre con i, si spiega dadimas. é solo il rapporto con l’antico indiano quindi il comparativismo a spingere a cercare un’altra spiegazione. Quando gli studiosi hanno pensato a schwa era un elemento astratto, chiamato anche coefficiente linguistico; è un fonema dell’ebraico il cui nome vuol dire “una cosa da niente”, e in ebraico la lettera che si chiamava it corrisponde al nostro segno di schwa; sono state perciò distinte due serie, set e anit. Che grado è δίδωμι allora? Non si parla di grado allungato ma normale, lo schwa funziona come una semivocale; se la vocale è breve nella serie set si ha grado ridotto. Lo schwa non è dunque una vocale, fonologicamente assomiglia ad una semivocale o semiconsonante, una sorta di sonante, sospensione del giudizio. Il primo ad accorgersi che era necessario introdurre l’idea di un elemento che chiamava coefficiente linguistico per spiegare certi fenomeni come le relazioni tra suoni vocalici in indoeuropeo fu Saussure; secondo lui dovevano esserci due coefficienti che alteravano i fonemi attigui; era convinto che in indoeuropeo ci fosse solo il suono e e che tutte le altre vocali derivassero da alterazioni causate da questi due coefficienti. Questo coefficiente fu chiamato poi con il nome di laringale, articolazione che doveva avvenire a livello della laringe, sparito dall’indowuropeo ma entrato a condizionare consonanti e vocali a cui si accompagnava. Il primo a parlare di laringali fu Kurilowich, che designò tre tipi di laringali con tre segni, erano tre elementi con questa funzione di modificare vocalismo e consonantismo delle lingue derivate. Non si avevano prove dell’esistenza delle laringali quante che fossero fino alla decifrazione dell’ittita; nelle tavolette ittite, dov’erano state ricostruite le laringali, è stato trovato un segno che alludeva ad un’articolazione consonantica; pare anche che fossero foneticamente tre laringali così articolate dal punto di vista fonetico con differenze. Supporre l’esistenza delle laringali altera la percezione del rapporto tra greco e indoeuropeo, e anzi la cambia radicalmente. Saussure collocava le laringali in un sistema imperfetto e non poteva averne conferma perché non era stato ancora scoperto ed interpretato l’ittita; quelli che chiamava coefficienti linguistici modificavano per lui la e e portavano ai diversi timbri che conosciamo, tranne i ed u che nascono come semivocale nell’ambito dei dittonghi, e quando i dittonghi per apofonia si riducono alle semplici semivocali esse vocalizzano in senso stretto. Oggi si ha l’idea che in indoeuropeo giocassero i due elemento e ed o per l’apofonia, e si ritiene che le laringali colorino diversamente la vocale e, e che l’indoeuropeo conoscesse il vocalismo in a anche se le a originarie sono in numero ridotto.
Esiti delle laringali (laringale = h)
– Inizio di parola, h+vocale+consonante: se la laringale è h1 la vocale resta invariata, se è h2 la vocale si colora in a, se è h3 la vocale si colora in o. Dunque h1 sembra una laringale neutra o ad effetto e (e è la vocale di base), h2 ha l’effetto a, h3 ha l’effetto o. H1 è per alcuni linguisti un’occlusione al livello della laringe con atteggiamento vicino ad e, h2 è lo stesso con il contributo del velo come la a, h3 avrebbe il contributo delle labbra come la o; questa è una ricostruzione sulla base del risultato e non è storicamente verificabile.
– Inizio di parola, h+consonante: h1 si esprime come e, h2 come a, h3 come o. La parola ἀστήρ è connessa col latino stella con e lunga derivato da sterla per assimilazione; la a iniziale è espressione di h2 davanti alla radice *ster, e in latino non ha esito alcuno come tutte le laringali a inizio di parola. Nei verbi greci della flessione atematica c’è alternanza apofonica tra singolare e plurale, tranne il verbo ἐιμι che, si dice, si sottrae a questa logica; ma si potrebbe far rientrare nel modello se si pensasse ad una radice *es con davanti h1, dunque *h1es che alterna con h1s: l’esito è lo stesso, h1+e vocale invariata ἐστι, h1+consonante la laringale si colora in e, ἐσμεν. Questa spiegazione da meglio conto dei rapporti con le altre lingue indoeuropee, per esempio il latino in cui l’alternanza es s non è rigidamente distribuita tra singolare e plurale ma è presente.
– Interno di parola, vocale+h+consonante: h allunga la vocale e la colora solo se essa è e, se è originariamente diversa da e h allunga senza colorare.
– Interno di parola, consonante+h+consonante: h diventa vocale breve e il colore è h1 e h2 a h3 o; questo effetto si ottiene anche quando h sia in fine di parola.
– Interno di parola, vocale+h+vocale: h colora la prima vocale, cade e le due vocali contraggono.
Si è pensato che la laringale in posizione postconsonantica dopo occlusiva generasse aspirazione, teoria ormai superata.
Si è visto che in greco come in ogni lingua indoeuropea le connessioni tra fonemi producono modificazioni delle radici, e le laringali come gli altri fonemi operano in questo senso, ma poiché esse sono scomparse abbiamo dovuto ricostruirle in base ai loro effetti.
In ogni legge fonetica gioca un ruolo fondamentale il minimo sforzo, ed esse sono limitate nello spazio e nel tempo, fenomeni agiscono e smettono di agire in una certa area; spesso nelle leggi fonetiche vale il criterio analogico, che in certi casi è una loro limitazione; incorrono poi nel limite della perspicuità comunicativa, cioè non agiscono se quando agissero impedissero di farsi capire.
Definizione di dittongo: incontro tra una vocale e una sonante, dunque una semivocale o semiconsonante; infatti gli esiti sono simili in entrambi i casi.
La principale legge fonetica del greco è quella di Osthoff, secondo cui vocale lunga + semivocale o sonante + consonante si abbrevia; o meglio un dittongo con primo elemento lungo abbrevia il primo elemento stesso se seguito da consonante, le due situazioni sono sovrapponibili.
Radice *dieu (i ed u semivocaliche), latino die con e lunga, perdita di u e aggiunta della desinenza di accusativo singolare em, diem sulla base del quale si genera il resto della declinazione; dalla stessa radice in greco dj produce ζ, e lunga è η, ν dell’accusativo, ζῆν, accusativo del nome di Zeus alternativa e precedente a Δία sentita troppo breve per rappresentare la divinità, e la pesantezza delle parole ha un ruolo chiave; ζην fu percepito come tema, ζῆν ζηνός ζηνί ζῆνα forme anch’esse presenti. In greco i dittonghi con primo elemento lungo tendono ad essere eliminati, e un modo è quello di far cadere la semivocale: pensa ad ᾳ ῃ in cui ι si sottoscrive perché non viene più percepito nella pronuncia, il secondo elemento rimane nella grafia come una sorta di marcatore morfologico (contraddistingue il caso dativo). Altra modalità di eliminare i dittonghi lunghi è abbreviare il primo elemento, e questo avviene nella legge di Osthoff: sempre dalla radice *dieu aggiungi il segnacaso ς, *Ζηῦς non attestato, abbiamo Ζεῦς per legge di Osthoff, η diventa ε perché in sillaba chiusa, cioè seguito da sonante (qui semivocale) + consonante.
Aoristo passivo di φαίνω: ἐφάνην, tema φανη, participio genitivo maschile singolare *φανήντος poi φανέντος per effetto della stessa legge, stavolta la sonante è una semiconsonante nasale.
Le eccezioni alla legge di Osthoff sono dovute o ad analogia o a ragioni di perspicuità comunicativa o sono connesse con altre leggi fonetiche come quella delle contrazioni (vedi τιμῶντες, infrazione a Osthoff ma la legge delle contrazioni è recente nello sviluppo linguistico dell’attico, e quando agisce non agisce più Osthoff, qui entra in gioco la limitazione delle leggi fonetiche dovuta alla cronologia).
L’iato, incontro di due vocali, viene generalmente evitato a tutti i livelli di scrittura anche all’interno della catena fonosintattica; iati si trovano quando non è possibile evitarli, cade un elemento consonantico nel tempo e l’iato viene mantenuto (νεύος scompare υ si genera νέος e la forma si conserva; così in θεός si conserva l’iato per evitare il monosillabismo, non adatto al nome di Dio, troppo leggero un monosillabo; ἄοπλος = inerme, se si contraessero α ed ο scomparirebbe un tratto comunicativo chiaro come α privativo). Un mezzo tipico per evitare l’iato nella catena fonosintattica è di frapporre tra una fine vocalica e un inizio vocalico di parola un elemento consonantico (ν paragogico); in molti dialetti si utilizza la contrazione, diffusissima in Attica dove c’era particolare cura nell’evitare gli iati. In area ionico-attica l’incontro di due vocali di cui la prima lunga tende ad essere risolto con l’abbreviamento in tutti i casi, vedi βασιλήων βασιλέων genitivo plurale di βασιλεῦσ; qui l’iato è imposto dalla perspicuità linguistica e comunicativa. Dallo stesso tema genitivo singolare βασιληυος βασιλῆος attestato in Omero e in diverse aree dialettali, mentre in ionico-attico si ha βασιλέως, genitivo sempre con iato ma con metatesi quantitativa delle due vocali. Legge della metatesi: all’interno di iato con primo elemento lungo e secondo breve le vocali si scambiano la quantità (ma questo a livello fenomenico, in base ai testi scritti che ci sono arrivati). Il fenomeno tocca i nessi ηο ηα αο, che diventano εω εα αω; l’iato ιο rimane sempre tale (vedi iscrizione di Delo, in cui la quantità è chiarita dal fatto che si tratta di longum in un dattilo di esametro; la ι di ἰόν = dardo è lunga in tutte le attestazioni). Ma si tratta davvero di scambio di quantità? Per capire la genesi del fenomeno bisogna guardare alle sue prime attestazioni nella lingua letteraria ed epigrafica, da un canto la lingua omerica che però non ha data, dall’altro le iscrizioni più antiche che però non hanno segni che distinguono vocali lunghe e brevi. Osserva la chiusa dei versi di Il I 1 e I 423: Ἀχιλῆος, Αἰθιοπήας, entrambe forme prive di metatesi, la metrica aiuta a determinare le quantità, sono entrambi piedi finali con longum + indifferens, che in questi casi è breve; sono queste forme premetatetiche, e l’iato finale delle due parole costituisce due sillabe. Osserva la penultima parola di Il I 1 Πηλειάδεω, e l’ultima di Od IX 135 ναυτέων; il primo viene da un sostantivo della prima declinazione in alfa lungo, εω è metatetica, ησιο ηιο ηο εω; quasi identico ναυτέων anch’esso tema in alfa lungo da ναύτης, ησων ηων εων, si abbrevia la prima lunga in ionico-attico per l’iato tra due vocali lunghe (in attico passaggio successivo contrazione, ναυτῶν, ναυτέων è forma ionica; qui non c’è vera metatesi ma è caso di abbreviamento. Guardando al metro, δεω è il longum del quinto piede esametrico, dunque costituisce una sola sillaba, è in sinizesi, cosa notevole per un iato quindi fatto da due diverse emissioni di fiato ; due parole che hanno un trattamento così diverso come Πηλειάδεω Ἀχιλῆος vanno a costituire formula, sono anche di periodi diversi. Anche ναυτέων ha l’ultima sillaba con l’iato preso come una vocale, dunque anche in seguito all’abbreviamento affine alla metatesi si ha sinizesi. Il fenomeno della sinizesi è sistematico quando c’è metatesi salvo poche eccezioni quasi tutte legate a espressioni linguisticamente recenziori, forse i versi che le contengono sono interpolazioni successive e non appartengono allo strato più antico della lingua omerica. Osserva Il I 8, τίς δ’άρ σφωε θεῶν, εω è in due sillabe, ε breve finale del dattilo, ω longum del piede successivo; lo stesso in Il I 73 φρονέων stessa scansione, due brevi di dattilo e longum del successivo; idem Od XXIV 175 φιλέων altra sequenza εω bisillabica. Da questo si deduce che la sinizesi non va insieme a sequenze vocaliche identiche a quelle frutto di metatesi ma che hanno altra origine, insomma che sono etimologiche; questo è indizio del rapporto peculiare di parentela tra metatesi e sinizesi. Dosuna ha pensato che potrebbe essere avvenuta prima la sinizesi e poi la metatesi; come prova ci viene in aiuto un’iscrizione bustrofedica, cioè con l’atteggiamento dei buoi che percorrono il solco tirando l’aratro, una riga da destra a sinistra e la successiva nella direzione opposta; si trova vicino ad una statuetta dedicata ad Artemide presso il tempio di Delo, isola che ha una parlata ionica. Le iscrizioni sono composte o nella lingua del luogo del tempio o nella lingua del dedicante; in questo caso chi dedica è Nicandre proveniente da Nasso e in effetti l’iscrizione è vergata in alfabeto di Nasso ed è poetica, scritta in esametri, e questo ci aiuta sul piano della quantità vocalica; l’iscrizione data circa al 650 a. C., poco dopo la conflazione dei poemi omerici come ci sono pervenuti.
Traduzione: Nicandre mi dedicò alla saettatrice che saetta da lontano, figlia di Dinodiceo di Nasso eccellente fra le altre sorella di Deinnenes e ora sposa di Fraxos.
La velare di κόρη nel secondo verso è indicata dal segno koppa in seguito usato solo per i numerali, si preferiva a κ perché seguiva segno scuro; poi esso scompare perché non risultava economico avere due segni per un suono. Costella l’iscrizione il segno h, grosso modo corrispondeva ad η, e in questa iscrizione vale ἑ per ἑκεβόλῳ, ἑκάς significa da lontano, h indica aspirazione; ma troviamo h prima di ς, non c’era ancora lo ξ ma al suo posto si scrivevano le sue componenti, non troviamo la velare perché essa accanto alla sibilante doveva essere pronunciata più lenita, percepita come una specie di aspirazione e dunque si usa lo stesso segno usato per l’aspirata; lo stesso per ἔξοχος, invece di ξ si ha h+σ; ἔξοχος significa eccellente, con quel valore di stare nella condizione di essere fuori, stessa radice di ἔχω con grado apofonico forte. H in questa iscrizione sta anche dopo φ, in origine, non essendoci segno che indicava le aspirate, h si poneva dopo le occlusive sorde; quando è stata vergata l’iscrizione per ipercorrettismo, nonostante ci fosse fià φ, si è aggiunto anche il segno h, essa quindi è stata scritta in un momento di passaggio. Inoltre ε ed ο valgono per e breve o breve o lunga aperta o lunga chiusa: το ναξιο = τοῦ Ναξίου; κόρη era κούρη per il terzo allungamento di compenso che agisce in ionico, e il metro ci assicura che la sillaba è lunga, è il longum iniziale. Lo stesso per ε, ἀνέθεκεν è scritto con ε dopo θ ma indica e lunga aperta, ma ci sono anche delle η, nella parola κασιγνέτη che nel vocabolario avrebbe due η; questa iscrizione fa differenze tra le due η, qui il segno η indica solo le e lunghe esito si alfa lunghi, le altre sono ancora ε; le due e lunghe dovevano essere percepite diversamente come suono. Ma la trasformazione di α lungo in η è isoglossa dell’ionico attico, l’adozione di η all’inizio serviva a distinguere la qualità e non la quantità vocalica, almeno in Ionia. Confronta i termini del secondo verso Δεινοδίκηο e ἀλλῆον: il primo è genitivo singolare di tema in alfa lungo, il secondo è è genitivo plurale di pronome in cui ο vale ω, un segno solo indica tutti i suoni o, capiamo dal senso che è genitivo plurale; l’ionico tende a realizzare abbreviamento della prima vocale e allungamento della seconda se non è già lunga, (nel secondo caso la o è breve solo nella grafia); siamo in due casi di metatesi: sembrerebbe che nel primo caso non sia ancora avvenuta, e che nel secondo ci siano due lunghe; ma vediamo dalla metrica che entrambi sono monosillabici, dunque è impossibile che la sinizesi sia successiva alla metatesi, a meno di postulare che η valga e breve, a fronte di molte ε che valgono lo stesso suono sarebbe violata l’economia, non ci sono appigli per sostenere questa tesi. La metatesi qui non è segnata sul piano grafico, non sappiamo se era avvenuta sul piano fonico; ma ci è già attestata la sinizesi, e questa è la base dello studio di Dosuna. Egli propone esempi da varie lingue, ad esempio quella della famiglia bantu parlata in Uganda, in cui certi nessi hanno pronuncia per cui la prima sillaba smarrisca, l’elemento vocalico perda la sua natura di sonante e venga compensato dal secondo elemento vocalico; in luganda li-ato si pronuncia con la i molto tenue. Esempi in italiano: abete parete ariete, aumenta il peso dell’elemento E perché assume l’accento tonico; almeno due delle parole perdono la I che perde di sillabicità. Da qui Dosuna conclude che la metatesi in greco doveva essere preceduta da una perdita di sillabicità del primo elemento in certi nessi vocalici; da due sillabe distinte in prima battuta si ha una sillaba sola, cioè la sinizesi, in seguito si ha compensazione ovvero allungamento del secondo elemento. Dosuna non parla di metatesi ovvero di scambio ma di allungamento compensatorio, e l’iscrizione di Nicandre sarebbe la testimonianza di un momento di passaggio: siamo certi che c’era sinizesi e la metatesi non è marcata graficamente. Una lunga che perde di sillabicità suonava strana, egli da studioso di fonetica sostiene che è fenomeno attestato, la ritiene una procedura normale e possibile.
Legge di fondo delle relazioni tra consonanti, assimilazione: le consonanti incontrandosi istituiscono nessi di difficile pronuncia, quindi il processo tende a rendere simili due suoni consonantici o consonante + semiconsonante.
Le labiovelari in greco sono attestate nella fase più antica del suo sviluppo come ci testimonia il miceneo e nel tempo evolvono e si esprimono con modalità diverse, e ciò avviene attraverso tre fasi in tutte le aree tranne l’eolico:
1) le labiovelari vicine ad un suono u (anche ou per o lunga chiusa, suono vicino ad u) perdono l’elemento labiale e diventano velari, e furono queste le prime a cambiare mentre le altre labiovelari erano ancora tali (vedi λύκος latino lupus dove avviene il contrario; radice *kwel kwol kwl, latino colo inquilinus, greco κύκλος dal grado zero, κ è motivata da υ del raddoppiamento, βούκολος dal grado forte, chi porta in giro i buoi, anche qui κ è connesso con questa fase dello sviluppo;
2) le labiovelari seguite da vocale dentale, cioè con apparato fonatorio atteggiato sull’apparato dentale, E ed I, diventano dentali: latino que quis, greco τε τισ; latino quattuor, greco τέτταρες, ma eolico πίσυρες perché in eolico non è mai avvenuta questa seconda fase di sviluppo delle labiovelari;
3) tutte le labiovelari rimanenti in prossimità degli altri suoni vocalici e consonantici diventano labiali: latino iecur, greco ἕπαρ perché kw diventa p davanti a r sonantizzata; dietro il latino uenio e il greco βαίνω c’è una radice in labiovelare sonora *gwen gwon gwn, latino da gwen in cui resta solo l’appendice labiale, greco dal grado ridotto, la nasale sonantizza e gw subisce la terza fase di sviluppo delle labiovelari. Il verbo τίνω e il nome ποινή derivano dalla stessa radice *κωειν κωοιν κωιν, da kwoin attraverso la terza fase delle labiovelari abbiamo il sostantivo, da kwin attraverso la seconda fase deriva il verbo. Anche qui la validità delle leggi è limitata dalla perspicuità comunicativa e dall’analogia: ἕπομαι ἕπεται, non ἕτεται nonostante la presenza di e, si perderebbe un elemento radicale che permette di distinguere il verbo seguire; βάλλω βέλος non δέλος, almeno in attico.