Il termine ‘barocco’, mai usato durante il XVII sec., è stato utilizzato da principio per definire uno stile architettonico maturato a Roma e propagatosi in altri paesi. Dall’architettura il termine è stato esteso alla scultura e alla pittura, nonché ad altre forme della produzione artistica contemporanea.
Benché le date del b varino dall’uno all’altro paese, si è d’accordo nel collocarlo, nel suo insieme, tra l’inizio del
XVII sec. e la prima metà del XVIII.
Barocco e Controriforma
All’inizio del XVII sec., l’Europa era divisa in seguito alle guerre di religione. Le forze innovatrici della borghesia e della Riforma minacciavano l’Europa degli Asburgo. Stati come l’Olanda, l’Inghilterra, la Svezia, le città mercantili e una Francia che, malgrado l’assolutismo dei suoi monarchi, trovò la sua forza nella ricchezza della sua borghesia, si scontrarono con un mondo in pieno auge, ma già prossimo al declino. La Germania era divisa in piccoli regni a struttura ancora feudale. La Spagna era stata quasi rovinata dalle guerre di Filippo II, dall’espulsione dei ceti moreschi e dalla debolezza dei suoi re. Nel bel mezzo di quest’Europa in guerra, Roma godeva un periodo di pace. E qui maturò la cultura del b: arte trionfale ma anche arte atta ad illustrare; segnerà l’apoteosi di una chiesa universale, che già universale non era piú. Benché non si possa ridurre il b al solo aspetto religioso, non può trascurarsi il fatto che si è diffuso soprattutto nei paesi per i quali la sottornissione al Concilio di Trento costituiva un fondo culturale comune, e che ha incontrato vive resistenze in tutti i paesi riformati, l’Olanda in particolare. Occorre guardarsi dall’identificare b e Controriforma. Tuttavia, dal punto di vista della storia delle idee, non va dimenticata l’importanza della difesa e della rivalorizzazione delle immagini: da un lato esse favorivano, all’opposto della Riforma, lo slancio dell’opera d’arte religiosa; dall’altro garantivano la continuità della tematica e della forma del Rinascimento. Se il b non era l’arte dei gesuiti, non va sottovalutato l’influsso degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, soprattutto all’inizio del
secolo.
La pittura barocca a Roma
Nel XVII sec. Roma era un crocevia di esperienze pittoriche. Caravaggio, opponendosi alla tradizione, e i Carracci, rinnovando l’arte dell’affresco, aprirono la strada alla sperimentazione di linguaggi nuovi. Il primo, in nome della realtà, si liberò dalle raffinatezze manieriste trasformandole in contrasti tra luce e ombre. Egli iniziò il rinnovamento profondo dell’inconografia religiosa sostituendo a una visione agiografica della storia una visione viva e drammatica. Il secondo artista che a Roma contribuí alla definizione del linguaggio della pittura barocca fu Annibale Carracci. Tra il 1597 e il 1604 eseguí la decorazione della Galleria Farnese, punto di partenza della grande decorazione barocca. Le scene sono ancora suddivise secondo gli schemi compositivi manieristi dei «quadri riportati», ma sono unificate da un ritmo dinamico che annuncia il rinnovarsi del linguaggio. Una vigorosa corrente classicistica (R. Wittkower impiega il termine di «barocco classico») dominò la prima metà del secolo. Gli allievi dei Carracci – il Domenichino, Guido Reni, il Guercino – eseguirono a Roma grandi cicli decorativi. Il successo ottenuto da Lanfranco rispetto al classicismo del Domenichino rivelò la trasformazione del gusto. Nella cupola di Sant’Andrea della Valle (1621-25), Lanfranco, aboliti gli schemi di partizione decorativa, si impegnò in una complessa prospettiva illusionistica ispirata al Correggio di Parma. Nel 1621 il Guercino eseguí l’Aurora sul soffitto del Casino Ludovisi – antitesi di quella dipinta da Guido Reni nel Casino Rospigliosi – composta in fregio secondo il principio del quadro riportato. Il Guercino adottò una prospettiva illusionistica con architetture che si aprono verso il cielo. Pietro da Cortona dipinse gli affreschi piú complessi per «invenzioni» e tecnica
illusionistica. Pittore, architetto e decoratore fu contemporaneo di Bernini e di Borromini. In una delle sue opere maggiori, il soffitto di palazzo Barberini (1633-39), le architetture e le sculture finte si fondono in un effetto di pittura totale, e le complesse allegorie vengono unificate dal movimento, cosí che il contenuto didattico si trasforma in puro ritmo. Nello scomparto principale la Divina Provvidenza, in trono sulle nuvole al di sopra di Cronos e della Parca, riceve dalla mano dell’Immortalità una corona di stelle e indica lo stemma dei Barberini. Il poema emblematico dettato da Bracciolini prosegue sulle quattro scene intorno alla cornice centrale e illustra l’opera temporale del pontefice. È cosa notevole che anche le forme proseguano senza essere interrotte dalla cornice, mascherata dagli atlanti in stucco dipinto, oltre la quale sconfinano i personaggi troneggianti sulle nuvole. La cornice fa dunque parte integrante del quadro, e l’intero spazio si trova ad essere profondamente unificato. Il colore, influenzato dai veneziani, è caldo e sottolinea l’unità dell’opera. Il contrasto dei complementari viene impiegato sapientemente per evidenziare non soltanto rapporti formali, ma anche centri di significanza: cosí nell’alternarsi dei rossi e dei verdi delle Muse che sostengono la corona d’alloro, i cui intervalli cromatici ritmano il volo dei potenti personaggi in scorcio. Il cerchio che rappresenta la gloria dei Barberini si trova sull’orbita di un altro movimento circolare piú generale, che ha come centro la luce divina. Tutta questa concatenazione di significati emblematici, quasi metafore intessute, viene unificata dal movimento. In questo poema sacro tutto si fa ritmo puro, e le forme sembrano generarsi spontaneamente l’un l’altra. Nel suo Trattato Pietro da Cortona confronta l’affresco al genere della poesia epica, con un tema principale ma con diversi episodi che sono necessari per collegare i gruppi. Queste teorie, che illustrano bene la concezione unitaria della pittura barocca, sono combattute da Sacchi e dai suoi discepoli, che dànno il cambio alla generazione classicizzante degli allievi di A. Carracci e che, in nome della leggibilità dell’opera, confutano il gran numero di personaggi che l’«unità multipla» giustifica. Gaulli, detto Baciccio, riprende le idee sostenute da Cortona contro Sacchi. Nella sua decorazione del Gesú (1674-79), influenzata da Bernini, statue vere di angeli e l’architettura della chiesa si fondono con l’affresco. Si costituisce cosí un’entità pittorica ove non esiste piú alcuna frontiera, ma integrazione, tra i diversi mezzi espressivi. L’artista cerca di sorprendere lo spettatore mediante quest’esplosione della cornice, ove la realtà non si distingue piú dall’illusione. L’occhio non può soffermarsi sui personaggi, ma attraversa zone di luce e d’ombra. Non si distinguono piú masse e colori: la concezione mistica della luce divina conferisce al soggetto un’unità ineffabile. Nel 1691 padre Pozzo, autore di un Trattato della prospettiva, scenografo e virtuoso della quadratura, illustra nella volta di Sant’Ignazio l’opera missionaria dei gesuiti. Qui il soggetto vero è costituito dalle gigantesche architetture finte, che prolungano quelle vere e fra le quali si sperdono minuscole figure.
La pittura barocca in Italia fuori di Roma
Il b romano non fu l’unico b esistente in Italia. Si svilupparono scuole assai ricche e molto diverse fra loro: soprattutto a Genova, con G. B. Castiglione, B. Strozzi, G. de Ferrari, A. Magnasco; a Napoli, feudo caravaggesco ove operavano lo spagnolo Ribera e i suoi allievi; a Milano, ove Morazzone e Cerano erano influenzati dalla dottrina borrominiana. A Venezia, la cui produzione figurativa del precedente secolo aveva vitalizzato tutta la pittura europea dell’epoca, brillarono le «ultime fiamme» del b: la festa si dissolse nel tocco «impressionistico» dei suoi pittori. Gli affreschi di Tiepolo fanno già parte di un’epoca diversa.
La pittura barocca nei Paesi Bassi spagnoli
Rubens, personalità di livello europeo, incaricato spesso d’importanti missioni diplomatiche, si stabilí ad Anversa dopo un soggiorno a Roma dal 1600 al 1608. La sua pittura si riallaccia da un lato all’arte fiamminga e dall’altro assimila la novità delle ricerche che da Michelangelo, attraverso gli artisti di Parma e di Mantova, arrivano a Tintoretto. La composizione geometrica rinascimentale, fatta di contrasti multipli ed equilibrati, non resiste alla vitalità dell’arte di Rubens. Ogni stabilità viene abolita e l’eterogeneità dell’universo
viene colta nel mutare di esso. Gli intenti apologetici dei committenti favoriscono l’esplosione di questo mondo grandioso e turbinante, ove la storia diviene allegoria vivente. I quadri della Galleria de’ Medici, fatti per il palazzo del Lussemburgo (Parigi, Louvre), sono un bell’esempio del modo in cui Rubens ha saputo trasfigurare i fatti della cronaca contemporanea. Nel Ratto delle figlie di Leucippo (1618 ca.: Monaco, ap), lo scorcio e la torsione si associano a un lirismo straordinario del colore. Rubens non rispetta piú i sistemi del chiaroscuro italiano, ottenuto con l’aggiunta del nero: le ombre brune sono rese incandescenti da un po’ di rosso, soprattutto negli incarnati chiari. I corpi delle donne, madreperlacei e ravvivati dal carminio, si contrappongono ai corpi bruni dei rapitori in un gioco di curve e controcurve, il cavallo baio e quello pomellato sono integrati in una spirale le cui opposizioni sono prese in un ritmo generale turbinante. A partire dal 1620 Rubens eseguí le grandi composizioni dei Magi di San Michele ad Anversa, dell’Assunzione della cattedrale, dello Sposalizio mistico di santa Caterina, e dei grandi cicli di San Carlo Borromeo ad Anversa e a Whitehall in Inghilterra; disegnò pure gli arazzi per i carmelitani di Madrid. La sua influenza, immensa in tutta Europa, contrassegnò particolarmente la pittura fiamminga, senza che alcuno abbia saputo raccoglierne l’eredità grandiosa per intraprendere nuove ricerche.
Van Dyck, che lavorò nella bottega di Rubens intorno al 1618 prima di percorrere l’Italia e l’Inghilterra, fu soprattutto il ritrattista d’un’aristocrazia raffinata e languente. Nei suoi quadri
il movimento è sospeso, ma la resa dei materiali tocca la perfezione nello sfavillio delle luci e nel riverbero delle sete.
Il realismo di Jordaens rappresenta soprattutto il tema della fine del banchetto, e in questo lavoro a tutto corpo il tocco leggero che Rubens possedeva si trasforma. Le altre botteghe di Anversa sono suddivise tra la tradizione di Bruegel e il caravaggismo.
La pittura barocca nell’Europa centrale
La guerra dei trent’anni ritardò la fioritura della pittura barocca nell’Europa centrale. L’Italia, attraverso padre Pozzo, che operava a Vienna, fu l’ispiratrice principale della decorazione dei soffitti, ove si moltiplicano le false architetture in trompe-l’oeil. Le grandi realizzazioni di soffitti dipinti in Austria furono il frutto della collaborazione tra l’architetto Fischer von Erlach e il pittore J. M. Rottmayr nel castello di Vranov in Moravia (1695). Nella chiesa di San Mattia a Breslavia Rottmayr unificò le tre volte architettoniche in una grande composizione pittorica ellittica, forma privilegiata del b. Una progressione guida l’occhio dal bordo dell’ellissi, che rappresenta una balaustra cui si appoggiano alcuni personaggi, fino al centro, ove risplende il chiaro alone del nome di Cristo. D. Gran dipinse il soffitto della Biblioteca nazionale di Vienna nel 1726. Con P. Troger, la scuola viennese rafforzò il suo trionfo avviandosi verso il rococò. I fratelli Asam, E. Quirin, architetto e scultore, e Cosmas Damian, pittore, proseguirono a Monaco di Baviera, nella chiesa di San Giovanni
Nepomuceno, l’illusione ottica tra pittura e architettura. Il potente scorcio del soffitto dipinto della cattedrale di Praga concorse ad accentuare lo slancio determinato dalle colonne
tortili che partono dalla prima galleria. Gli effetti d’ombra e di luce sono fatti risaltare dall’illuminazione naturale proveniente dalle finestre, che unifica l’atmosfera. Le linee architettoniche contribuiscono alla messa in scena del dipinto collocato sul fondo della galleria.
La pittura barocca in Francia
La Francia del XVII sec. rimase essenzialmente classica; ma anch’essa ha un «suo» b, o quanto meno qualche affinità con questa estetica. Poussin stesso, durante i suoi primi anni a Roma, fu sensibile ad esso. Vale la pena di confrontare le sue due visioni dei Pastori d’Arcadia. Nella prima versione (1629-30: Chatsworth, Gran Bretagna), i pastori hanno un moto di sorpresa dinanzi a un monumento funebre che hanno appena scoperto. Sul sarcofago, che esce dalla cornice, figurano un teschio e l’iscrizione «Et in Arcadia ego». La composizione è dominata dalle diagonali: quelle dei corpi dei pastori, del sarcofago, degli alberi e della stessa inquadratura del dipinto. Tutto è movimento, il tocco è brioso, la luce drammatica, il colore caldo e tizianesco. Nella seconda versione (1640 ca.: Parigi, Louvre), le diagonali sono scomparse e con esse il movimento, e il colore si è raffreddato: anziché intensificare il tono caldo del suo complementare, come i veneziani, Poussin lo tempera mediante un tono freddo. Il sarcofago, donde è scomparso il teschio, è divenuto un blocco classico rettangolare, intorno al quale i personaggi immobili si raccolgono come in un bassorilievo. L’iscrizione è divenuta il centro reale e ideale di una composizione chiusa ove la sorpresa si è trasformata in meditazione filosofica. Poussin rifiuta volontariamente il suo precedente movimento barocco a favore di una composizione sempre piú controllata. I pittori
francesi che, a Roma, erano risolutamente barocchi, ritroveranno in Francia le influenze classiche. Cosí è per S. Vouet. Durante il suo soggiorno a Roma, dal 1614 al 1627, rimase influenzato da Caravaggio, dall’arte decorativa dei napoletani e dal modellato saldo del Domenichino; tornato a Parigi, temperò la propria eloquenza, come mostra la Presentazione
al Tempio (1641: Parigi, Louvre), ove le diagonali sono equilibrate dalle verticali delle architetture, e la rappresentazione è meno emotiva di altre volte. Nondimeno il movimento agita queste sontuose rappresentazioni, e l’esecuzione resta rapida e briosa. Vouet ebbe popolarità immensa, e gli vennero affidati numerosi lavori di decorazione, in particolare quello dell’Hôtel Séguier, ove egli è memore dei procedimenti veneziani e dell’illusionismo del Correggio. J. Blanchard e F. Perrier subirono anch’essi influssi romani, e persino in Le Brun, pittore ufficiale del regno, garante della dottrina classica, si possono scoprire tratti barocchi. All’inizio del secolo, i Rubens del ciclo di Maria de’ Medici al Lussemburgo suscitarono scarso interesse; per converso l’artista fiammingo influenzò una parte della pittura degli ultimi anni del XVII sec., soprattutto in seguito alla querelle tra i poussinisti, sostenitori del disegno, e i rubensiani, difensori del colore. Charles de La Fosse venne influenzato dal colore dei veneziani meditato attraverso Rubens. Il suo schizzo per il soffitto del salone di Apollo nei grandi appartamenti di Versailles (Rouen, mba) si organizza secondo schemi compositivi barocchi, ma lascia già intravedere la leggerezza, la chiarezza e la grazia rococò. La Fosse riassume le tendenze di pittori come Jouvenet e A. Coypel, che cooperavano con lui nella decorazione della cappella di Versailles e degli Invalides. Il gusto del re e della Corte mutò negli ultimi anni del secolo, aprendo spiragli al b: le tendenze romane, giunte attraverso le stampe, furono accettate soprattutto nei polittici di provincia. Tuttavia lo stile barocco si diffonde in Francia piú particolarmente nella decorazione effimera per feste e apparati funebri, di cui gli incisori ci hanno trasmesso il ricordo.
La pittura barocca in Spagna
La Spagna tiene fermo con rigore alle idee controriformistiche. La canonizzazione di molti santi e la campagna in favore dell’Immacolata Concezione fissano un’iconografia nuova. Gli incarichi degli istituti monastici furono importanti quanto quelli dei palazzi. I particolarismi regionali e i legami col passato erano tanto forti che è difficile definire le relazioni di questa pittura, che si evolve seguendo i propri ritmi, col b. I ritratti statici e scultorei di Zurbarán rivelano una continuità con l’arte del secolo precedente e si collocano nella linea dei polittici e delle sculture sivigliane. Murillo contrapponeva alle mistiche sublimità di Zurbarán una pietà piú amabile. È il pittore favorito del ramo piú popolare dell’ordine di San Francesco, i cappuccini, che caldeggiano una devozione tenera ed espansiva. Velázquez, pittore di corte, era invece in contatto continuo con la pittura europea: incontrò Rubens nel 1628, fu a Venezia e a Roma (1629 e 1649). È dunque al centro di tutte le ricerche pittoriche contemporanee. Nelle Filatrici (1657: Madrid, Prado) la realtà osservata e quella intessuta s’incontrano in un’unità di atmosfera e di tono, il tocco non rispetta piú il contorno e riduce i volumi a pure macchie di colore. In Las Meniñas (1656: ivi), opera che riprende in particolare il tema degli specchi, le forme si dissolvono nel gioco della luce e dell’ombra: in questi giochi dello sguardo la pittura si riduce, come osserva Lafuente Ferrari, «a pura apparenza, pura visibilità, realtà soggettiva, fino al limite estremo in cui sembra dissolversi». Durante il regno di Carlo II, la pittura rifletté caratteri piú nettamente barocchi. Francisco
Herrera il giovane studiò a Roma e dall’Italia riportò il gusto per la pittura d’altare a colonne tortili, gli scorci, le diagonali. Carreño de Miranda, influenzato dalla tecnica di Rubens, riletté in tono minore il fasto pomposo e triste della corte di Carlo II. Valdés Leal, dopo aver dipinto con tecnica focosa opere in cui il movimento si concerta con un colore brillante, interpretava con macabra violenza il tema della fuga del tempo e delle decadute grandezze in Los Jeroglificos de nuestras postrimerias. Finis gloriae mundi et in ictu oculi (Siviglia, ospedale della Caridad). Le architetture della sacrestia dell’Escorial si prolungano nella Sagrada Forma, in cui C. Coello crea un’illusione di specchio. In realtà, ad eccezione di F. Rizi, sono soprattutto gli italiani ad eseguire in Spagna le pitture a soffitto. Nel 1692, alla morte di Coello, i cui affreschi sono scomparsi in un grande incendio, il napoletano Luca Giordano, che deve alla sua celerità il soprannome di «Luca fa presto», proseguí l’esecuzione degli affreschi dell’Escorial. Se il termine ‘barocco’ è anzitutto sinonimo di «architettura», esiste realmente una pittura che merita questa qualifica. Concepita in funzione di un edificio, che essa modifica o assimila, si compiace dell’illusionismo delle pareti forate, dell’espansione e del movimento, degli apparenti squilibri che dissimulano una coerenza interna rigorosa. Sia che si tratti del soffitto Barberini che dell’universo di Rubens, questa pittura, di decorazione o di cavalletto, ha creato un nuovo spazio dinamico che realizza l’unità nel molteplice e la permanenza nel movimento.
Definizioni
Fu J. Burckhardt, nel Cicerone (1860), a riabilitare il termine ‘barocco’, senza tuttavia superare i pregiudizi dei classicisti: «L’architettura barocca parla lo stesso linguaggio di quella del Rinascimento, ma è un linguaggio degenere». Quest’opinione fortunatamente è cambiata. H. Wölfflin la attenuò qualche anno dopo in Renaissance und Barock, dove sosteneva che il b non è un periodo di decadenza dello stile classico, ma uno stile autonomo; tale tesi prosegue poi nella sua opera maggiore, Principi fondamentali di storia dell’arte (1915). Egli suddivide la storia dell’arte in cicli, e per il periodo che gli serve di esempio, tra la fine del XV sec. e l’inizio del XVIII sec., mette in rilievo due modalità di visione totalmente diverse nelle arti figurative: il classicismo rinascente e il b del XVII sec. La sua analisi resta uno tra gli approcci piú raffinati al b, e in particolare alla pittura, che per sua stessa natura è difficilmente riducibile al rigido schema d’una definizione. Wölfflin fissa cinque categorie stilistiche: 1) Lo stile classico è lineare, si riferisce ai limiti dell’oggetto definendolo e isolandolo. Lo stile barocco è pittorico, i soggetti si riferiscono in modo del tutto naturale all’ambiente. 2) Lo stile classico è costruito per piani, il b in profondità. 3) Il classicismo è forma chiusa, il b è forma aperta. 4) L’unità dello stile classico è ottenuta nella chiara distinzione dei suoi elementi; quella del b è un’unità indivisibile. 5) Il classicismo mira anzitutto alla chiarezza, mentre il b subordina l’essenza dei personaggi alla loro relazione. L’opposizione intorno a cui si concentra l’analisi di Wölfflin è quella che contrappone tattilità e visualità: rispettivamente
l’essenza scultorea del classicismo e l’essenza visuale del b. Sulla sua scia, la critica tedesca estese il concetto di «barocco» a tutte le forme della vita spirituale del XVII sec. Nel 1921, in Der Barock als Kunst der Gegenreformation (Il barocco arte della Controriforma), W. Weisbach definí l’arte barocca come l’espressione della Controriforma trionfante e dell’assolutismo politico, ai quali deve i suoi caratteri di eroismo e di misticismo. Nel 1932 E. Mâle isolava, nel suo studio iconografico sull’Art réligieux après le concile de Trente, i temi specifici della Controriforma: martirio, visione, estasi, morte. E. d’Ors, in Du Baroque, definiva lo stato d’animo all’origine della cultura barocca come interprete di quanto la misura e la norma reprimono. Il b va ricollegato al fenomeno di civiltà che contrappone razionalità e sensibilità, maschile e femminile, apollineo e dionisiaco.
Dalla preistoria al giorni nostri d’Ors individua non meno di ventidue forme dell’eterno barocchismo. H. Focillon, che non ha dedicato al b opere specifiche, vede in questo fenomeno un «momento della vita delle forme» nel quale esse, liberate dalla necessità di rapportarsi al tutto, vivono di per se stesse. Le caratteristiche della fase barocca sarebbero dunque
l’indifferenza rispetto alle funzioni, la controcurva, l’enfasi decorativistica, l’espandersi dello spazio. Lo storico V.-L. Tapié, nel 1957, con Baroque et Classicisme, ha proposto un approccio sociologico al b studiando il propagarsi dello stile della Roma triumphans nelle zone a organizzazione terriera in cui la società, sorretta da una solida struttura agricola, è fortemente gerarchizzata. Le zone di diffusione minore sarebbero quelle a struttura borghese. P.-H. Minguet, nella sua ipotesi sull’Estétique du Rococo (1966), sosteneva che l’architettura tedesca del XVIII sec. non può essere identificata con il linguaggio barocco vero e proprio ma piuttosto con lo stile rococò, e proponeva una definizione positiva di tale stile. In Le Mirage baroque (1967), P. Charpentrat non giunge fino a proscrivere il termine ‘barocco’, ma ne auspica un uso ristretto.