Termine che, se riferito all’ambito delle arti, indica l’insieme delle tecniche accomunate dall’utilizzo di strumenti atti a incidere una superficie. I diversi metodi di incisione si raggruppano in tre categorie, denominate rispettivamente “in cavo”, “in rilievo” e “in piano”.
Nella stampa “in cavo” – legata all’utilizzo di una matrice di metallo, generalmente rame – l’inchiostro viene fatto penetrare dentro i solchi, che risulteranno neri, mentre le parti aggettanti rimarranno bianche. Il procedimento può avvenire mediante l'”incisione diretta” della lastra metallica – con i sistemi denominati bulino, puntasecca e mezzatinta (o maniera nera) – o mediante l'”incisione indiretta” della matrice, cioè attraverso l’azione di un mordente – con le tecniche dell’acquaforte e dell’acquatinta, cui si aggiungono quelle meno diffuse del punteggiato e della morsura diretta. Nell’incisione a bulino, l’artista incide il disegno sulla tavoletta in rame per mezzo di un utensile di acciaio appuntito, denominato appunto bulino; immesso poi l’inchiostro nei solchi ottenuti, procede alla stampa, poggiando un foglio di carta sulla matrice ed esercitando una leggera pressione mediante appositi strumenti. Il primi esempi di stampe a bulino risalgono alla metà del Quattrocento, periodo in cui la tecnica si diffuse in Germania e in Italia. Tra gli artisti che si distinsero in questa pratica incisoria, sono da segnalare Schongauer, Dürer, Pollaiolo e Mantegna. Nel corso del XVI secolo le stampe a bulino divennero oggetto di collezionismo da parte di amatori e intenditori: particolare fortuna riscossero le riproduzioni tratte da opere di Raffaello e Michelangelo. La puntasecca – strumento che termina con un ago in acciaio e che viene utilizzato come se fosse una matita – incide la tavoletta metallica generando tratti molto sottili e permettendo all’artista una grande libertà espressiva. Le scorie metalliche che si creano ai bordi del solco inciso possono essere rimosse o appositamente conservate, in modo che, al momento della stesura dell’inchiostro, quest’ultimo penetri non solo nei solchi ma anche lungo le scorie, generando, nella stampa, suggestive sbavature denominate “barbe”. Inizialmente utilizzata come utensile complementare al bulino, già nel Quattrocento la puntasecca cominciò a divenire uno strumento autonomo; l’artista che più di tutti ne seppe sfruttare le potenzialità espressive fu Rembrandt.
Nel procedimento della mezzatinta, che si diffuse a partire dalla metà del Seicento, la matrice di rame viene resa rugosa con uno strumento chiamato “pettine”, che genera un diffuso strato di barbe. L’incisore traccia il disegno rimuovendo e modellando le barbe. Una volta stampata, l’immagine presenta un effetto morbido e vellutato.
Nella tecnica dell’acquaforte, l’artista, dopo aver steso sulla lastra uno strato di vernice grassa insensibile all’azione dell’acido, vi disegna la composizione con una punta di acciaio, scoprendo in parte la base metallica. La matrice viene successivamente immersa in una soluzione di acqua ed acido nitrico (una volta detto “acqua forte”), che corrode solo le zone scoperte, cioè quelle segnate dal disegno. La durata di questa operazione, denominata “morsura”, deve essere controllata dall’artista, che coprirà via via le zone della composizione considerate sufficientemente corrose. Rimossa la vernice, si procede successivamente all’inchiostratura e alla stampa. Se già Dürer e Luca di Leyda sperimentarono l’acquaforte, la tecnica raggiunse il culmine delle proprie potenzialità espressive soltanto nel Settecento, quando il processo corrosivo cominciò ad essere gestito con sistemi più sofisticati. Il metodo dell’acquatinta prevede la “granitura” della matrice, la distribuzione cioè di uno strato di granelli di resina o bitume, che, una volta riscaldato, aderisce alla lastra. Inciso il disegno su questa base irregolare, si procede alla morsura, che vedrà l’acido agire solo negli interstizi tra i grani. La tecnica settecentesca del “punteggiato” consiste nel praticare sulla matrice, con un bulino, una trama di piccolissimi buchi sulla quale viene eseguito il disegno all’acquaforte, mentre il metodo della “morsura diretta”, prevalentemente ottocentesco, prevede l’applicazione diretta dell’acido sulla lastra metallica mediante un pennello.
La procedura di incisione “in rilievo” si avvale di una matrice in legno (da cui il nome di xilografia), sostituita negli ultimi decenni da supporti realizzati con materiali industriali altrettanto morbidi al taglio, come il linoleum (da cui il termine linografia). Eseguito il disegno sulla matrice, prima a matita poi a inchiostro, si incide, con coltellino e sgorbie, la superficie rimasta libera. Mediante un rullo, si procede poi all’inchiostratura, al termine della quale risulteranno nere le parti in rilievo, corrispondenti al tracciato del disegno. La stampa si ottiene premendo un foglio di carta sulla matrice inchiostrata. Legata inizialmente alla decorazione delle stoffe, la xilografia si sviluppò, nella Germania di fine del Trecento e successivamente in tutta Europa, come procedimento adattato al supporto cartaceo. Tra i maggiori artisti che sperimentarono questa tecnica, sono da ricordare Dürer e Tiziano.
Il procedimento di stampa “in piano” si basa sull’incompatibilità tra acqua e grasso. Nella litografia, il disegno viene tracciato con una sostanza grassa su una matrice in pietra; quest’ultima viene poi bagnata e successivamente inchiostrata con un inchiostro grasso, che aderisce soltanto alle parti disegnate. Si procede dunque alla stampa.
Nella serigrafia – tecnica di origine orientale, diffusa in Italia nel corso del Novecento – la matrice è costituita da un pezzo di seta, sulla quale l’artista esegue il disegno applicando colla (o altro materiale grasso) nelle zone destinate a restare bianche; l’inchiostro, successivamente distribuito sul tessuto, aderisce solo sulle parti libere dalla colla; mediante la pressione di una apposita paletta, l’artista fa infine filtrare il colore su un foglio sottostante, sul quale appare riprodotto il disegno.