Nel suo soggiorno romano del 1630, Galileo fu ospite dell’ambasciatore di Toscana, Francesco Niccolini, nella magnifica residenza di Villa Medici (accanto a Trinità dei Monti), sede dal 1903 dell’Accademia di Francia. Vista di lì, Roma era sicuramente splendida. Una volta scesa la gradinata, lo spettacolo si rivelava molto meno gradevole. Ecco la descrizione che ne ha fatto un giornalista, Almo Paita, autore di saggi e trasmissioni televisive di divulgazione storica: «Una plebe affamata e cenciosa si agitava nei vicoli sporchi e angusti della città alla ricerca del pane. Quando si spegnevano le luci del grande teatro, nei popolosi rioni di Roma tornavano a imporsi le dure leggi della fame, delle malattie e della miseria. Lo spettro della peste aleggiava costantemente nelle strade della città. E con la peste malattie misteriose, che la medicina del tempo non riusciva a guarire. Né potevano giovare alla cura di quei mali gli stravaganti rimedi che intraprendenti ciarlatani reclamizzavano nelle piazze. Non restava allora che il ricorso ai santi patroni, l’estrema speranza dei disperati. Prodigi e miracoli, superstizioni e paure, alimentate dai foschi sermoni di predicatori esaltati, creavano ondate di religioso fanatismo e di incontrollabile isteria collettiva. Una giustizia sovente raccapricciante e spietata tentava di imporre le regole di un’ordinata convivenza, mentre il Sant’Uffizio, con metodi altrettanto severi, si affannava a salvare le anime di coloro che si ponevano al di fuori dell’ortodossia sancita dal Concilio di Trento. Ma quelle macabre e spettacolari esecuzioni, che pure esercitavano sulle folle un fascino sinistro, non sembravano riportare risultati apprezzabili. Bande di uomini armati e di bravi, al servizio di potenti signori o di influenti cardinali, si aggiravano impunite per le strade di Roma, pronte in ogni caso a rifugiarsi nei quartieri franchi delle ambasciate, che godevano di generose immunità».
Le vie del centro erano attraversate dai cortei di carrozze degli aristocratici e dei diplomatici stranieri in visita nella capitale dello Stato della Chiesa, ma brulicavano anche di accattoni e di vagabondi, accorsi dalle campagne circostanti per difendersi dalla malaria e dalle carestie ricorrenti. Negli ultimi anni del secolo precedente, una carestia più tragica delle altre aveva spinto a Roma da tutto lo Stato ecclesiastico un numero rilevante di disperati che — scrisse un testimone del tempo — «si vedevano cascar per le strade per la fame, cosa che dava orrore». E un altro diarista dell’epoca annotò: «A Roma non si vedono che mendicanti, e sono così numerosi che è impossibile camminare nelle strade senza averli attorno». Erano state approvate misure molto severe per arginare il fenomeno. Ma la gravità delle pene (frusta, berlina, bando perpetuo da Roma, galera) non riuscì a frenare l’accattonaggio, che era — in moltissimi casi —l’unica alternativa alla fame. Per altri era un’attività lucrosa, ai confini della malavita. Una specie di racket, nel quale i questuanti erano inquadrati in regole e specializzazioni precise.
Un verbale di polizia del febbraio 1595 racconta le circostanze nelle quali fu arrestato un accattone di appena quindici anni che stava importunando i fedeli durante la messa nella chiesa di San Giacomo degli Spagnoli, in piazza Navona. Durante l’interrogatorio, sostenne di non conoscere alcun mestiere. Ma rivelò l’esistenza (a lui conosciuta) di ben nove “compagnie” di accattoni, ciascuna con una propria specializzazione: i grancette (tagliaborse), gli sbasisti (finti malati), i baroni (finti disoccupati). Esisteva anche una compagnia di donne, le lagnarde, che estorcevano denaro usando belle parole. Era frequente che queste bande alternassero l’accattonaggio con il furto vero e proprio. Nel 1623 il governatore di Roma diramò un editto al riguardo, «essendosi avuta la confessione di alcuni rei che per le chiese e altri luoghi di Roma e fuori andavano rubando denari, borse e fazzoletti di saccoccia». Il rigore della legge non rappresentava né un deterrente né tanto meno una soluzione del problema. Tanto è vero che undici anni più tardi fu emanato un nuovo editto, «essendosi stati commessi da alcuni ladri bursaroli de quali se ne ritrovano alcuni carcerati, più e diversi furti in diverse chiese e palazzi». Persino alcuni cardinali furono vittime di furti nei loro appartamenti. Un bando del 1641 prometteva una lauta ricompensa a chi avesse fornito notizie utili per catturare i responsabili delle «robbe rubbate» a vari principi della Chiesa. Fu anche fornito un elenco della refurtiva: «Un paro di sottocoppe d’argento, una saliera tonda d’argento, una corona di coralli grossa rossa, un paro di calzette di seta cremisina, una camiciola di fustagno, cinque camicie da donna».
Girare per strada era pericoloso, e non solo per ragioni di sicurezza. Le condizioni igieniche erano deplorevoli. Un editto del 1637 proibiva di lasciar circolare i maiali: «S’ordina e si proibisce a tutte le singole persone di qual si voglia stato, grado e conditione, che per l’avvenire non ardischino, né presumino tenere, né mandare in qualsivoglia modo per le strade e altri luoghi della Città, porci, né grandi, ne piccioli; sotto la pena della perdita d’essi e anco di scudi dieci per ciascuno e altre pene etiam corporali a nostro arbitrio». «Era vietato», racconta Almo Paita, «condurre nell’abitato mucche e bufali senza tenerli per la cavezza; era proibito macellare o esporre la carne macellata all’aperto; friggere pesce e cuocere pasta nelle vie e nelle piazze». Ma bandi ed editti restavano sulla carta.
Le autorità ordinavano di rimuovere dagli spazi pubblici banchi e baracche di venditori e bottegai, di non scaricare immondizia nelle strade, di mantenere pulito e in buono stato il selciato dinanzi alle case. Erano prediche inutili. Non era facile, del resto, dar retta ai bandi dei maestri delle strade, che erano anguste e tortuose, umide e buie, in parte prive di selciato, soggette quindi a un fastidioso avvicendarsi di fango e di polvere. Cumuli di rifiuti si aggiungevano spesso agli inconvenienti dovuti al variare delle stagioni, rendendole impraticabili. Le piazze non stavano meglio e non si salvavano neanche quelle famose come piazza Farnese, Campo de’ Fiori, piazza Navona.
Un’altra testimonianza diretta dello stato di degrado di Roma nel XVII secolo viene da una lettera inviata al papa da un certo Lorenzo Pizzati, che frequentava i palazzi del potere (anche se non si sa a quale titolo). «Roma», scrivesenza mezzi termini Pizzati, «è diventata una Babele, dove si vive in un continuo frastuono. A mio parere noi non viviamo più a Roma, ma, con tua licenza, in una stalla. Dopo esserci affaticati in ogni modo, giorno e notte, con l’anima e con il corpo, per guadagnarci il pane, avremmo bisogno, per nostro sollievo e sanità, di vie lattee; ma quando usciamo dalle case, dalle chiese, dalle botteghe e dai mercati per ristorare lo spirito esausto, dobbiamo cercare, come i maiali, la pace nel letame, la serenità nell’immondizia, il riposo nella totale confusione delle strade in dissesto. A che serve vivere in una città eccelsa come Roma, se siamo costretti a muoverci più come bestie che come esseri umani? Ti supplico, Santo Padre, togli il povero dallo sterco». Se le strade fossero ben sistemate, «non sarebbe necessario ripararle ogni anno; fogne e tubazioni non si romperebbero così spesso, se le acque piovane potessero scorrervi; sono invece ostruite da un coagulo di sporcizia e di rifiuti dell’intera città».
All’inizio del Seicento, Roma aveva una popolazione che si avvicinava ai 100 mila abitanti. Era una metropoli, se si tiene conto che erano appena cinque, in Europa, le città che superavano tale quota: Londra, Parigi, Milano, Venezia e Napoli. È il caso di chiarire che nessuna di queste città (come anche Lisbona e Palermo, che avevano più o meno gli abitanti di Roma) offriva garanzie di sicurezza e di igiene. Erano cresciute male, più o meno tutte le città, anche perché avevano storie antiche, e nessuno si era preoccupato di ristrutturarle da un punto di vista urbanistico (una preoccupazione che sorse soltanto nell’Ottocento). Si calcola che a quei tempi la grandissima maggioranza dei romani vivesse raggruppata in una zona molto ristretta dell’area compresa nelle Mura Aureliane: i quartieri occupati erano quelli raccolti intorno all’ansa del Tevere, fra piazza del Popolo, il Campidoglio e l’Isola Tiberina. Tutto questo, naturalmente, a svantaggio della vivibilità. Le casupole dei più poveri erano sorte a fianco dei palazzi dell’aristocrazia, senza soluzione di continuità. La zona abitata, oltretutto, era quella maggiormente soggetta ai periodici straripamenti del Tevere (ai quali si pose rimedio soltanto dopo l’Unità d’Italia con l’innalzamento degli argini).
Riferiti tutti i problemi irrisolti, va detto che agli occhi del mondo intero Roma era considerata la più bella città presente sul pianeta, quella (per chi ne avesse avuto le possibilità) da visitare almeno una volta nella vita. Era più bella di un secolo prima, perché era stata completata la costruzione della nuova Basilica di San Pietro, erano stati costruiti nuovi splendidi palazzi, e si affacciavano i grandi architetti del Seicento (Bernini e Borromini, in primo luogo) che avrebbero reso ancor più splendida la città. I papi, negli ultimi due secoli, si erano preoccupati di costruire strade, chiese e dimore principesche.
E poi era una città cosmopolita. Montaigne giunse a dire che gli ricordava Parigi per la quantità di francesi che vi s’incontravano. La popolazione di Roma era estremamente eterogenea. La sua natura di città capitale nello stesso tempo dello Stato della Chiesa e del mondo cattolico comportava inevitabilmente una costante presenza di numerosi prelati, di rappresentanti diplomatici, di viaggiatori e di pellegrini. Di gente che vedeva nella città il proprio futuro. Non solo stranieri: anche italiani. Erano presenti moltissimi artigiani lombardi, che esercitavano il mestiere di spadari, scalpellini, architetti e capomastri, richiamati nella città dei papi dai numerosi cantieri aperti. La Curia pontificia, a sua volta, con il miraggio di una comoda nicchia nella sua solida burocrazia, esercitava una grande attrazione tra i preti di lontane parrocchie e tra le folte schiere di piccoli intellettuali, di aspiranti scrittori e poeti della vasta provincia dell’impero dei papi.
La città pullulava di artisti: accanto ai pittori più celebrati e famosi, vi si potevano incontrare scapigliati e bohémiens. Tra essi, «molti franzesi e fiamminghi, che vanno e vengono e non li si può dar regola».
Degli indigeni, molti erano nobili, o imparentati in qualche modo con le famiglie aristocratiche, che superavano il numero di duecento: e molti altri dipendevano comunque da quelle famiglie come servitori, artigiani o artisti. Non tutti i nobili erano ricchi; molti casati si fregiavano di un titolo puramente platonico, messo in ombra da una nobiltà più recente e aggressiva cresciuta all’ombra della Curia: parenti dei papi o di autorevoli prelati, che si erano arricchiti con lucrosi affari finanziari.
Non c’era una vera e propria borghesia, anche se esisteva un ceto di artigiani, professionisti, commercianti, che potevano contare su un tenore di vita decoroso. C’era infine una massa crescente di lavoratori precari, di gente emarginata e priva di redditi, che campava di assistenza, di beneficenza pubblica e di accattonaggio. I miserabili.