Aveva 24 anni Crane quando scrisse The red badge of courage ed era reduce da un romanzo ancor più precoce, Maggie, una ragazza di strada, scritto a 22 anni. Divenne giornalista e corrispondente di guerra, incontrò in Europa James e Conrad e morì di tisi in Germania nel 1900, lasciandoci anche delle poesie e alcuni racconti (tra cui Il mostro), mentre sulla scena del mondo compariva quella nuova forma di comunicazione, il cinema, che del racconto impressionistico ed espressionistico ne avrebbe fatto un’arte.
Il segno rosso del coraggio
Più che “un episodio della Guerra Civile americana” – come recita il sottotitolo del romanzo – Crane narra qui un’esperienza morale, il duro confronto tra coscienza e realtà. Infatti, oltre che un capolavoro della letteratura di guerra, si può definire “Il segno rosso del coraggio” un ritratto psicologico della paura. Non solo quella della battaglia concreta, del sangue, dell’ansia e dell’odio; ma anche quella che serpeggia nascosta nel quieto vivere quotidiano: la paura di non sapersi porre di fronte agli ostacoli.
È un breve (poco più di 150 pagine) classico romanzo di noviziato (il Bildungsroman alla Wilhelm Meister) che narra la storia di un ragazzo andato volontario fra i nordisti nella guerra civile americana. La vicenda si svolge tutta in tre giorni di battaglie: il ragazzo sogna d’essere un eroe, ma alla prima battaglia ha paura e si dà alla fuga. Ritorna fra i compagni nonostante il timore delle beffe. Ma i compagni non sanno che lui è fuggito. E poiché durante la fuga è stato vergognosamente colpito da un altro disertore, ritorna segnato dal “red badge of courage”, dal sangue, il distintivo rosso del coraggio. Viene così accolto amorevolmente come un piccolo eroe da un suo compagno di reggimento. L’indomani e il giorno dopo, nelle successive battaglie, il ragazzo si riscatta, ai propri occhi, con azioni di temerario eroismo e diventa un uomo.
L’azione esteriore è tutta qui. È un romanzo interiore di emozioni e sensazioni, speranze, timori, vergogne, entusiasmi, rimorsi, illusioni, disillusioni, tormenti e tutto avviene nella mente, anzi nel cuore del ragazzo, il quale ha un nome, si chiama Henry Fleming, ma è e rimane “il ragazzo”. E così i comprimari, anche se qualcuno di loro ha un nome, sono “il soldato alto”, “l’uomo stracciato”, “il soldato che parlava forte”, “l’amico”: come personaggi teatrali d’una rappresentazione privata tutta interiore al protagonista. Sono solo apparenze. E così sono voci i tuoni dei cannoni e il crepitare della fucileria: voci arrabbiate, minacciose, ruggiti, dialoghi, provocazioni, risposte, commenti, tali appaiono cioè “al ragazzo”, voci esteriori che diventano interiori.
In tre giorni di scontri continui e sanguinari tra reggimenti e divisioni, il nemico non compare mai (salvo nell’ultima pagina, nella figura di quattro prigionieri). Il nemico è un’ombra nera e indefinita coperta dal fumo degli spari e delle granate, è una massa sempre nascosta nel bosco, è un fragore minaccioso, è il bagliore giallo degli spari. Non ha corpo e voce e consistenza umana, perché è interiore al “ragazzo”, è la paura, è la minaccia, è l’ignoto. E assume, il nemico, consistenza umana solo all’ultimo, quando “il ragazzo” supera la grande paura, acquista consapevolezza di sé, diventa uomo.