Teatro rinascimentale: Espressione che indica lo sviluppo della letteratura e della pratica teatrale durante il Rinascimento. Dopo la lunga stagione del dramma liturgico medievale, nel Quattrocento gli umanisti italiani riscoprirono i classici della letteratura, della poesia e del teatro.
LA DRAMMATURGIA
Nel 1498 Giorgio Valla tradusse dal greco in latino la Poetica di Aristotele, di cui nel 1549 apparve anche una versione italiana, e vennero così fissati i rigidi canoni del teatro cinquecentesco: l’esigenza della verosimiglianza e di un insegnamento morale, la purezza dei generi (erano da evitare contaminazioni tra tragedia e commedia), il principio delle tre unità aristoteliche di azione, tempo e luogo riaffermato nel 1570 da Lodovico Castelvetro (1505-1571). Applicando tali principi il dramma doveva avere una trama unitaria, svolgersi in non più di ventiquattr’ore ed essere ambientato in un unico luogo; doveva inoltre essere suddiviso in cinque atti.
Oltre alla Poetica, si rivisitarono le tragedie di Seneca e le commedie di Plauto e Terenzio. Ludovico Ariosto con Cassaria (1508) scrisse la prima commedia in italiano ispirata ai modelli classici; sulla stessa strada lo seguì Bernardo Dovizi detto il Bibbiena (1470-1520) con Calandria (1513), mentre la Mandragola (1518) e Clizia (1525) di Niccolò Machiavelli si svincolarono dal modello classicista in favore di un’azione più semplice e lineare e caratteri più definiti. Sofonisba (1526) di Gian Giorgio Trissino fu la prima tragedia scritta in italiano secondo il modello classico con coro; Giambattista Giraldi Cinzio scrisse tra l’altro la senechiana Orbecche (1541).
Un genere peculiare e molto frequentato fu il dramma pastorale, rappresentazione di un mondo idilliaco popolato di ninfe e pastorelli, anticipato da Orfeo (1480) del Poliziano e portato a piena maturità da Torquato Tasso con Aminta (1573) e da Giovanni Battista Guarini con Il pastor fido (1590). All’estremità opposta, Angelo Beolco, detto Ruzante dalla maschera delle sue commedie, ritraeva in dialetto padovano la realtà cruda ma estremamente vitale del mondo contadino in La moscheta (1528) e Betìa (1523-1525).
LA RAPPRESENTAZIONE TEATRALE
Durante il Rinascimento, anche i luoghi della rappresentazione si adeguarono al modello classico. Nel 1414 fu riscoperto e nel 1486 stampato il trattato De Architectura di Vitruvio (I secolo a.C.), le cui illustrazioni fornirono il modello della scena a venire, confortate dalla nuovissima pittura prospettica, di cui summa restava il trattato Della pittura (1435) di Leon Battista Alberti, mentre Sebastiano Serlio dedicava il secondo dei Sette libri dell’architettura (1545) ai problemi dell’allestimento scenico.
L’aspetto privilegiato restava quello della collocazione del principe in prima fila: il dramma infatti si svolgeva prevalentemente a corte, anche se cominciavano a sorgere teatri aperti al pubblico come l’Olimpico di Vicenza, il più antico esempio sopravvissuto di edificio teatrale rinascimentale su progetto del Palladio per l’Accademia Olimpica: un’esatta ricostruzione in interni di un teatro romano in miniatura con una vertiginosa fuga prospettica nelle scene.
La ricchezza delle corti cinquecentesche consentiva l’allestimento di parate analoghe a quelle degli antichi romani, rielaborate nei trionfi, fastosi cortei di carri mobili con figure classiche o allegoriche e meravigliose coreografie, mentre gli sfarzosi intermezzi delle commedie ricchi di musica e danza e le rappresentazione pastorali accompagnate dai flauti preparavano la stagione del melodramma e dell’opera secentesca di Monteverdi.
D’altro canto, le mascherate carnevalesche, il teatro di burattini e l’evoluzione in senso professionistico del giullare preparavano l’inizio della stagione della Commedia dell’Arte, che a partire dalla seconda metà del Cinquecento si impose su scene e piazze d’Italia ed Europa con il gusto dell’improvvisazione su canovacci o scenari e la definizione di ruoli fissi o maschere.