Indice
Forma di governo nella quale il potere (in greco krátos) è detenuto dai “migliori” (in greco áristos), cioè da coloro che vantano eccellenza di nascita o superiorità intellettuale e morale.
L’aristocrazia degenera in un’oligarchia quando la minoranza al governo opera a proprio esclusivo vantaggio e contro gli interessi della comunità; si distingue dalla monarchia, in cui l’autorità suprema appartiene a una sola persona, e dalla democrazia, in cui la sovranità risiede nel popolo o nei suoi rappresentanti.
Delle tre forme di governo storicamente esistenti, monarchia, aristocrazia e democrazia, ciascuna si distingue dalla corrispondente forma deteriore proprio per l’osservanza delle leggi.
Così il governo di uno solo è monarchia se è retto dalle leggi; è tirannide se è senza leggi. Il governo dei pochi è aristocrazia quando è governato da leggi, oligarchia quando è senza leggi e la democrazia può essere retta da leggi o governata contro le leggi. Il miglior governo, prescindendo da quello perfetto delineato nella Repubblica, è quello monarchico, il peggiore è quello tirannico. Tra i governi disordinati (cioè privi di leggi) il migliore è la democrazia.
Nell’antichità il più celebre esperimento di governo aristocratico fu effettuato a Sparta; in Asia l’esempio più noto è quello della dinastia giapponese Fujiwara. L’indagine storica e sociologica ha poi impiegato il termine in riferimento al ceto nobiliare dell’epoca feudale e di quella moderna. Nell’uso corrente si definisce aristocratico un gruppo privilegiato in qualsiasi contesto sociale, economico o culturale.
Nobiltà
Ceto sociale investito ereditariamente di vari privilegi nell’Europa medievale e moderna. Sinonimi di nobiltà sono anche aristocrazia, che ricorda l’analogo ceto nelle poleis della Grecia antica, e patriziato, termine con cui però, sul modello del ceto nobiliare romano, si preferisce indicare le famiglie della grande borghesia urbana dal secolo XVI in poi.
Origini ed evoluzione nella storia
Benché quindi già nell’antichità classica greca e romana esistessero ceti nobiliari, la nobiltà in senso proprio si formò quando il feudalesimo subentrò alle strutture del governo imperiale romano nell’Europa delle invasioni barbariche. Nel periodo di instabilità economica, sociale e militare che seguì, nel V-VI secolo, al crollo dell’impero romano d’Occidente, i guerrieri germanici più forti e prestigiosi, investiti dai loro re di estesi poteri su un determinato territorio con relativa popolazione, concedevano l’usufrutto di parte dei loro territori a dei vassalli, dai quali esigevano determinati servizi, primo fra tutti quello militare, creando così una catena gerarchica formata di nobili di rango diverso.
Le particelle ‘de’ nei nomi dei nobili francesi e spagnoli, ‘de’ o ‘di’ in quelli italiani, ‘von’ in quelli tedeschi, e ‘of’ in quelli inglesi esprimono spesso l’idea della proprietà terriera, elemento fondamentale nel concetto feudale di nobiltà.
Consolidatasi nel Medioevo con la conquista dell’ereditarietà dei feudi, la nobiltà subì mutamenti significativi tra il XIV e il XVI secolo, quando i suoi poteri furono insidiati dalla borghesia da un lato e dalla monarchia nazionale dall’altro. In età barocca, tra XVII e XVIII secolo, riprese fasto e importanza presso le corti regie, assumendosi soprattutto compiti militari e diplomatici. Il prestigio dei titoli nobiliari era tale che anche le maggiori famiglie patrizie, e soprattutto i signori italiani, fecero di tutto per ottenerli.
Il progressivo superamento del sistema feudale e la proliferazione delle repubbliche democratiche seguiti alla Rivoluzione americana e alla Rivoluzione francese comportò l’abolizione ufficiale dei titoli ereditari in molti stati. Negli Stati Uniti la nobiltà non c’è mai stata e la Costituzione vieta a chiunque ricopra cariche governative di accettare titoli nobiliari da sovrani stranieri senza l’esplicito consenso del Congresso.
I titoli nobiliari in Europa
In Francia, con il decreto che aboliva i diritti feudali (4 agosto 1789) la nobiltà fu privata dei suoi privilegi; nel 1790 tutti i titoli ereditari furono aboliti. Napoleone I invece creò una nuova classe nobiliare, concedendo titoli e proprietà; dopo la sua caduta, Luigi XVIII restituì alla nobiltà prerivoluzionaria molti degli antichi privilegi. La Seconda Repubblica (1848-52) abolì nuovamente la nobiltà, e Napoleone III la riportò in auge; la Terza Repubblica (1871-1945) la cancellò definitivamente.
In Germania i titoli nobiliari esistenti fin dall’Alto Medioevo furono aboliti nel 1918 con l’avvento della repubblica. In Russia, titoli nobiliari simili a quelli delle nazioni dell’Europa occidentale furono istituiti dallo zar Pietro I e durarono fino alla Rivoluzione bolscevica. In Spagna i titoli nobiliari esistono ancora: i membri dell’alta nobiltà portano il titolo di ‘Grandi di Spagna’; i nobili di rango inferiore invece sono conosciuti come ‘los titulados de Castilla’. In Belgio e in Portogallo esistono titoli di cortesia.
In Gran Bretagna il sovrano può ancora concedere titoli nobiliari, pur senza benefici. L’aristocrazia è suddivisa in nobiltà superiore, detentrice di seggi ereditari alla Camera dei Lord, e minore, comprendente baronetti e cavalieri, titoli puramente onorifici.
In Italia la Costituzione repubblicana non riconosce i titoli nobiliari e prevede che, come in Francia, i predicati di quelli antecedenti il 28 ottobre 1922 possano costituire parte integrante del cognome. Fino al 1946 era il sovrano a detenere la prerogativa di concedere titoli di nobiltà, secondo principi fissati, a partire dal 1869, dalla Consulta Araldica.
Il concetto di classe nobiliare è diffuso anche in paesi extraeuropei, come ad esempio in Cina, in Giappone e in India: qui, nobiltà e casta chiusa vengono a coincidere nella classe sociale chiamata ksatriya.
I più importanti titoli nobiliari europei sono: principe, duca, marchese, conte, visconte e barone, in un ordine gerarchico che può variare da nazione a nazione e che, come ha magistralmente spiegato Marcel Proust nella Recherche, spesso non dipende dal titolo ma dall’antichità di sangue.
Istituzioni di Sparta
La tradizione racconta che la voce dell’oracolo di Delfi dettò a Licurgo, legislatore spartano, la costituzione di Sparta. In realtà, si trattò di un lungo processo politico, economico e militare, durato presumibilmente tutto l’VIII secolo a.C., a dare forma a quell’insieme di leggi che regolò la vita della città-stato greca durante l’antichità. Commistione di elementi democratici (assemblea del popolo o apella), aristocratici (consiglio degli anziani o gherusía) e monarchici (diarchia), la costituzione lacedemone venne considerata tra gli antichi come modello di governo della città greca.
Spartiati
La società spartana era rigidamente divisa in tre classi sociali: gli spartiati, i perieci e gli iloti. Solo i primi, discendenti dagli antichi Dori che avevano conquistato e sottomesso il Peloponneso, godevano di pieni diritti civili e politici. Dediti esclusivamente all’arte militare, alla quale venivano educati fin da bambini, vivevano delle rendite delle proprietà terriere, nelle quali gli iloti lavoravano in condizioni di semischiavitù. Gli spartiati non si fusero mai con le popolazioni indigene e il loro numero decrebbe costantemente; nel IV secolo a.C. se ne contavano non più di 700.
Gherusía
Consiglio degli anziani, la gherusía era composta da trenta membri (ghérontes) eletti a vita. Ventotto venivano nominati per acclamazione tra gli spartiati di oltre sessant’anni; i restanti due erano rappresentati dai re che facevano parte di diritto del Consiglio. Principale organo politico, la gherusía proponeva le leggi e giudicava i crimini più gravi, che potevano essere puniti con la condanna, con l’esilio o con la perdita dei diritti civili e politici. Le assemblee plenarie tra geronti ed efori costituivano un’alta corte che poteva giudicare anche l’operato dei re.
Apella
L’apella era l’assemblea popolare e riuniva gli spartiati al di sopra dei trent’anni. Tra i suoi compiti vi era l’elezione dei geronti e degli efori e la votazione delle proposte presentate dalla gherusía, dagli efori e dai re. Il ruolo effettivo dell’apella, che si riuniva una volta al mese, era più formale che reale; le proposte presentate all’assemblea potevano essere o accettate o respinte in blocco.
Re
A capo della società spartana era posta una diarchia. Discendenti delle due famiglie reali di Sparta (gli Agiadi e gli Euripontidi), i due re governavano collegialmente, comandavano l’esercito e svolgevano mansioni sacerdotali. Nel V secolo a.C. il comando dell’esercito venne affidato a uno solo dei due sovrani. Progressivamente estromessi dalla vita politica, i re continuarono a esercitare una profonda influenza sullo stato in quanto membri di diritto della gherusía.
Efori
“Coloro che osservano”, gli efori rappresentavano i magistrati dell’antica Sparta. Sacerdoti o capi tribù scelti in origine dai re per esercitare le loro funzioni durante i periodi di guerra, divennero in seguito un consiglio di cinque magistrati, eletti annualmente dall’apella, l’assemblea popolare. Rientravano tra le loro funzioni: convocare e presiedere le assemblee, riscuotere le tasse, dichiarare la mobilitazione in caso di guerra. Essi inoltre formavano insieme ai membri della gherusía un’alta corte davanti alla quale anche i sovrani potevano essere chiamati. Questi poteri, considerati “smisurati e quasi tirannici”, venivano però compensati dalla collegialità del ruolo e dalla sua durata annuale.
La nobiltà cinquecentesca
La nobiltà cinquecentesca detiene ancora stabilmente nelle proprie mani le leve del potere culturale, sociale ed economico, mentre il suo ruolo politico, ridimensionato dalla presenza di monarchi a livello europeo, si limita al controllo e al condizionamento delle realtà cittadine e regionali. Queste caratteristiche rendono la nobiltà una delle principali protagoniste della storia del Cinquecento.
Un nuovo assetto politico e sociale
La pace di Lodi firmata tra Firenze, Venezia e Milano nel 1454 cerca di ripristinare una politica di equilibrio tra i maggiori principati italiani dopo le guerre d’Italia e ridefinisce l’assetto del sistema politico e sociale nella penisola italiana che durerà fino alla fine dell’Antico Regime. La fine delle guerre tra Francia e Inghilterra e la riunione dei regni della penisola ispanica con il matrimonio di Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia danno un nuovo assetto alla politica europea. La transizione fra XV e XVI secolo è caratterizzata dalla crisi e dal tramonto del vecchio mondo medievale e da profonde trasformazioni che si riflettono nel mutamento di tutto il quadro istituzionale europeo, e in particolare nel cambiamento della situazione italiana e nei nuovi equilibri politici e sociali che questo determina nelle singole realtà statali e all’interno di ciascuna di esse.
All’inizio del Cinquecento appare chiaro che il vecchio sistema comunale, feudale e particolaristico del basso Medioevo è decaduto, sostituito dalle monarchie nazionali e dagli Stati regionali, sottoposti in varie maniere all’influenza e al controllo dei sovrani nazionali e dell’imperatore che con Carlo V d’Asburgo estende i suoi domini su tutta l’Europa e anche oltre.
All’interno dei singoli Stati italiani si notano profondi mutamenti: i nuovi assetti tipici del XVI secolo si rivelano soprattutto rispetto alla struttura sociale. Durante tutto il Rinascimento, caratterizzato dallo splendore della vita delle corti e dal fiorire delle arti, al vertice della scala sociale ritroviamo ovunque la nobiltà come classe dominante. Questa, per conservare un ruolo predominante sia in campo politico-sociale che in campo economico, paga il prezzo di orafo- de trasformazioni all’interno delle proprie fila e mutamenti dei propri valori guida.
Questi cambiamenti si caratterizzano in vario modo, a seconda dei momenti e dei luoghi, ma hanno come elemento comune l’accentuazione dei valori ideologici e culturali dell’aristocrazia, come pure la chiusura e l’esclusività di questo ceto inaccessibile agli altri componenti della società. Durante il basso Medioevo, nella pratica della vita sociale, la nobiltà aveva avuto molteplici radici e secondo queste linee di evoluzione essa era arrivata alle soglie dell’età moderna; vi era una nobiltà di origine feudale, ovunque presente, che traeva origine da concessioni sovrane o imperiali e che trovava la propria ragione di forza nel controllo del sistema feudale e nell’esercizio della milizia, anche mercenaria. Era diffusa, ma si tratta di un fenomeno massimamente italiano, una nobiltà di origine cittadina e comunale che si era sviluppata acquistando un ruolo egemone nell’ambito delle città più importanti, accumulando ingenti ricchezze, conquistando ruoli economici di primo piano nel campo della mercatura, del commercio e della finanza, e legittimando il proprio ruolo di preminenza con titoli acquisiti con diverse modalità. Vi era una nobiltà che delle proprie origini militari aveva fatto la propria ragione di esistenza, mettendosi nelle continue guerre e lotte al servizio di signori potenti, e trovando nell’esercizio delle armi nelle compagnie di ventura e nelle condotte la via per acquistare o conservare gloria e ricchezze. Inoltre, la creazione degli Stati nazionali e degli apparati burocratici a essi connessi determina una via ulteriore per raggiungere lo status di nobile; attraverso la via degli uffici si crea un ceto di uomini al servizio del sovrano in campo politico e finanziario che ben presto rivendicheranno la qualità di nobili a tutti gli effetti. La nobiltà italiana ed europea nel XVI secolo ha al proprio interno tutti questi filoni di origine e presenta un quadro molto variegato. Anche ai contemporanei riesce difficile ritrovare un elemento comune e un’unica ragione e giustificazione all’essere nobile.
Rimane sempre valido, nonostante il passare del tempo, l’ormai vecchio pensiero del giurista Bartolo da Sassoferrato (1314-1357) che, nell’impossibilità di dare una spiegazione unica di nobiltà, sostiene che è nobile chi viene considerato tale dagli usi del luogo. Questa definizione dà ragione, da una parte, dell’estrema varietà delle situazioni italiane che non possono essere ricondotte a un’unica radice e, dall’altra, dell’impossibilità di trovare un elemento unico per definire un fenomeno che si presenta sotto molteplici facce. Il Piemonte e gli Stati sabaudi sono caratterizzati da una forte presenza di nobiltà feudale che trova le proprie radici nei vasti domini delle valli alpine e che mano a mano si va stringendo intorno alla dinastia sabauda, conservando il proprio carattere di società rigidamente strutturata secondo moduli ancora medievali. La Lombardia, l’Emilia e le Marche, che hanno visto in pieno il fiorire della civiltà delle corti umanistiche nel XV secolo, si affacciano al Rinascimento con il peso di regimi politici legati a piccoli Stati che stanno perdendo importanza e ruolo politico e che verranno eliminati o trasformati. I grandi principi che guidano questi staterelli (i Medici, gli Este, i Gonzaga) rappresentano il modello del principe dell’Italia del Rinascimento che, pur fondando il suo potere su una vasta rete di concessioni feudali, fa della politica il proprio mezzo di sopravvivenza, adoperando le armi della diplomazia, della cultura e, così come viene descritto e diffuso dal Machiavelli, le armi stesse.
Sulla falsariga di questi, si diffonde il modello del nobile cortigiano che, in virtù di una propria eccellenza di comportamento, ha la possibilità di vivere presso le corti e di porsi alla guida dello Stato o in prima persona o al servizio del principe, in virtù della propria cultura e del proprio comportamento, così come viene descritto da Baldassare Castiglione nel suo Cortegiano.
I limiti di questo modello coincidono con i limiti del sistema politico che lo hanno visto nascere: tramontata nella prima metà del secolo la stella degli Stati cittadini, anche la figura del nobile cortigiano è destinata a isterilirsi e a tramontare, o a rifugiarsi nell’ideologia del proprio “particulare”, come illustra Francesco Guicciardini. Altro modello è rappresentato da Venezia che, in virtù dell’antica tradizione risalente al XIII secolo con la serrata del Maggior Consiglio, vede affidato a un ristretto numero di famiglie nobili il governo della città.
Il mito di Venezia è quello della repubblica nobiliare, di una città che grazie alla sapienza della propria aristocrazia non ha subito l’onta della tirannide. Tuttavia il complesso sistema di governo veneziano, pieno di controlli incrociati, ha un sapore medievaleggiante più forte di quanto sembri e consiste in una repubblica aristocratica in cui i bilanciamenti del potere fra le diverse fazioni sono stati così forti da non permettere lo sbocco principesco.
È invece a Firenze che, prima in maniera nascosta, ma poi in maniera giuridicamente definita, a partire dal 1530 i Medici diventano i signori della città, trasformando definitivamente la vecchia repubblica aristocratica in un ducato soggetto all’imperatore; così la nobiltà fiorentina abdica definitivamente al suo ruolo di classe di governo.
Differente è la situazione del Regno di Napoli, dove la nobiltà conserva il suo carattere di detentrice di grandi feudi, anche se i vari passaggi di dinastie causano la rovina di alcune fra le famiglie più importanti, come ad esempio i Sanseverino. Una situazione particolare si trova all’interno dello Stato della Chiesa, dove l’aristocrazia è rappresentata dai cardinali, i principi della Chiesa, dalle loro corti e dalle loro famiglie che tendono a occupare posizioni di privilegio anche sull’arco di più generazioni: nascono e si rafforzano all’ombra del soglio pontificio le dinastie dei Borgia, dei Farnese, dei della Rovere e dei Carafa. In definitiva, l’ampliarsi del panorama politico agli Stati regionali e nazionali, l’apertura a Francia, Spagna e impero come referenti politici necessari, toglie ai ceti aristocratici dei potentati italiani la possibilità di porsi come protagonisti di avvenimenti a dimensione nazionale.
Parallela alla perdita di un ruolo politico propulsivo all’interno delle città italiane, vi è la profonda crisi economica rappresentata dalla perdita di slancio dell’economia dei Paesi affacciati sul Mediterraneo e dall’inflazione dei prezzi; le classi emergenti e anche quei nobili legati al mondo produttivo e finanziario rispondono alla crisi ritornando a forme d’investimento legate alla terra. La terra e la proprietà fondiaria diventano così le vere basi della ricchezza e del potere, accomunando vecchia aristocrazia feudale, nobiltà cittadine e nuova borghesia degli uffici. Ben diversa è la situazione all’interno degli Stati nazionali europei che hanno conosciuto solo in parte nei secoli precedenti lo sviluppo in senso borghese della società: in Francia, in Inghilterra e nei Paesi di lingua tedesca, la nobiltà di origini feudale e militare continua a costituire il nerbo dello Stato e un forte polo di attrazione anche per le frazioni emergenti delle classi borghesi. Nelle principali vicende del secolo, come il diffondersi della Riforma protestante nei Paesi di lingua tedesca, le guerre di religione in Francia, le difficili fasi della successione in Inghilterra, la grande espansione politica della Spagna, il ruolo svolto dalla nobiltà è determinante, anche se le monarchie tendono sempre più verso l’assolutismo, per svincolarsi dai condizionamenti di classi nobiliari troppo potenti.
L’accesso alla nobiltà
Il controllo politico all’interno degli Stati è definitivamente in mano alle classi nobili, in cui si sommano la vecchia fazione aristocratica, le punte più alte del commercio e della finanza, e i protagonisti delle grandi carriere burocratiche. L’acquistare un titolo nobiliare diventa quindi un elemento fondamentale per accedere al governo cittadino ed è per questo che i nobili spingono ovunque i ceti aristocratici a serrare le fila e a rendere sempre più difficile l’accesso alla nobiltà. L’aggregazione alla nobiltà costituisce uno dei più gravosi problemi di quell’epoca e diventa il perno di tutte le lotte politiche del periodo. La chiusura oligarchica consiste da una parte nel riservare ai nobili il governo delle città e degli Stati, e dall’altra nel rendere sempre più difficili le condizioni per l’attribuzione della qualifica di nobile. La discussione su questi elementi rende sempre più complessi e difficili i rapporti con gli altri ceti, in particolare con quelli popolari, che si vedono esclusi dal governo e dal controllo delle redditizie attività economiche, legate alla fiscalità cittadina e statale.
La nobiltà cinquecentesca si identifica sempre più come il ceto che detiene le leve del potere economico e capitalizza i guadagni in sicuri investimenti fondiari. Con la provincializzazione della vita civile cade il prestigio delle armi, anche se nelle genealogie resta l’elemento che maggiormente conferisce l’aura di nobiltà. In opposizione a ciò viene considerato indegno della nobiltà tutto ciò che ha a che fare con le arti meccaniche, considerate ignobili. Al nobile si contrappone anche l’uomo di legge, il burocrate, colui che è legato al signore o al governo della cosa pubblica da un rapporto di “officio”. La nascita dello Stato moderno porta ovunque alla nascita della nuova nobiltà di toga, con la quale i rapporti della vecchia nobiltà di spada, o dei più recenti patriziati urbani, non saranno mai facili e si risolveranno solo con la fine dell’antico regime, quando verrà meno il concetto che il potere è un privilegio esercitato per diritto di sangue.
Con il passare dei decenni la fisionomia della società italiana, legata a forme gerarchiche non più in evoluzione, assume un carattere sempre più immobile, e si assiste a uno sclerotizzarsi della vita civile e sociale in forme vicine, anche nella cultura, alla vita dei cortigiani.
Qui sono le radici culturali della definizione di nobiltà: si passa dal concetto umanistico della nobiltà come eccellenza dell’uomo, al concetto rinascimentale che si viene elaborando attraverso tutte le vicende politiche sociali ed economiche del secolo. Nobiltà è chiarezza di sangue, ovvero appartenenza a stirpi che possono dimostrare di essere ricche e potenti da più generazioni: nobiltà è dignitas hominis che si evolve nella casistica dell’onore nei suoi vari aspetti, fino alle complicazioni cavalleresche o pseudo cavalleresche del punto d’onore; l’operosità mercantile e cittadina viene così sostituita dall’esaltazione della vita in villa e dall’otium signorile.
Anche nel resto dell’Europa, nel Cinquecento la nobiltà viene caratterizzata da un processo di rifeudalizzazione che significa da una parte la perdita delle ambizioni politiche per questo ceto, dall’altra il possesso definitivo della principale fonte di ricchezza che è la terra. La nobiltà cinquecentesca si presenta in definitiva come una classe che detiene ancora stabilmente nelle proprie mani le leve del potere culturale, sociale ed economico, anche se il ruolo politico, ridimensionato dalla presenza di monarchi a livello europeo, viene limitato al controllo e al condizionamento delle realtà cittadine e regionali. Con tali caratteristiche il ceto nobiliare è uno dei principali protagonisti della storia di questo secolo.
La nobiltà nel seicento
La nobiltà vive nel corso del Seicento una fase di profonda trasformazione. Alla riduzione dei privilegi, alla diffusione del fenomeno della vendita dei titoli, corrispondono una riorganizzazione dell’influenza politica dei suoi membri, a livello locale e centrale, e una trasformazione qualitativa della sua base economica. La persistenza dell’immagine tradizionale del nobile, che disprezza il lavoro e gli affari, si scontra con il fenomeno dell’accumulazione nelle mani di famiglie di antico lignaggio di immense fortune, derivanti da attività commerciali e finanziarie.
Tra decadenza e inflazione
Negli ultimi decenni del XVI secolo la nobiltà appare divisa e inquieta. L’accumularsi di tensioni nei confronti dei principi e l’emergere di nuovi ceti sulla scena politica fanno da contrappunto alla crisi economica e alla complessiva restrizione dei privilegi. Un ambasciatore veneziano rileva nel 1622 che in Inghilterra i nobili sono soprattutto odiati “per la loro vana ostentazione, più conveniente alle loro vecchie prerogative di potere che alla loro presente condizione”. La fisionomia cetuale è meno netta e stenta a tradursi a livello politico mostrando difficoltà e sovrapposizioni. Il monopolio del potere politico e la supremazia sociale, su cui si fondava l’ordine, sono erosi dalla crisi e messi in discussione dalla nascita dello Stato assoluto.
La stessa immagine della nobiltà come casta di uomini superiori su cui si fonda l’intero ordine dell’universo è in decadenza: l’identità nobiliare non è conferita soltanto dalla nascita e dalla famiglia, ma preservata da matrimoni attentamente combinati e rigidamente endogamici che conferiscono continuità alla vicenda genealogica e rafforzano la solidità della stirpe.
Nobile è, secondo il Dictionnaire dell’Académie francaise, colui che è innalzato a un livello più alto di quello comune in virtù dei suoi natali o “in virtù delle patenti del principe”.
La nobiltà reagisce alla decadenza serrando le proprie fila, riaffermando la propria egemonia sul piano locale e instaurando una rete sovranazionale di rapporti clientelari e familiari: la parentela resta sempre il principio organizzatore e unificante. Il lignaggio è definito dallo scrittore francese Antoine Furetière “una successione di parenti in gradi diversi discendenti da un medesimo capostipite”.
Sul piano economico, nonostante le difficoltà della congiuntura, la nobiltà riesce a far fronte alla crisi e a preservare i propri beni: la terra resta il fondamento della ricchezza, ma l’attività economica si diversifica. Anche l’integrazione politica nelle strutture dello Stato e la capacità di condizionare il potere del re sono elementi per stabilizzare il patrimonio.
Secondo alcuni storici alla fine del XVIII secolo in Polonia i nobili rappresentano il 15 percento della popolazione e in Spagna il 7-8 percento mentre in Russia la consistenza numerica della nobiltà non supera il 2-3 percento e in Francia, negli stessi anni, l’1 percento. Più incerte sono le cifre relative all’Inghilterra dove, alla fine del Seicento, è documentata la presenza di 20 mila famiglie nobili, tra nobiltà in senso stretto e gentry. Per l’area italiana, a Milano all’inizio del Settecento si contano 297 famiglie patrizie, circa l’1 percento della popolazione. Tale percentuale rimane più o meno invariata a Venezia, dove il patriziato urbano è costituito da duecento famiglie (0,7-0,8 percento) e a Napoli (130 famiglie di “nobiltà di piazza”).
Alla diversa consistenza numerica e al diverso peso politico della nobiltà corrisponde una sostanziale omogeneità dell’identità nobiliare, conferita dalla nascita e dalla famiglia di appartenenza: le espressioni “sangue nobile”, “nobile stirpe”, “antico casato” rimandano a un passato in parte mitico, in parte storico che si lega al presente e lo legittima. Giacomo I d’Inghilterra (1566-1625) sostiene che la disposizione alla virtù è connaturata alla stirpe nobile. A Napoli, pochi anni prima di una delle più violente rivolte antinobiliari del Seicento (1648), lo scrittore Camillo Tutini esamina l'”essentia della nobiltà” affermando che “il suo vero fonte sieno le virtù”. Alla virtù e all’onore, requisiti insiti nella nobiltà di sangue, corrisponde il dovere di servire lo Stato nelle posizioni di comando dell’esercito. Raramente coloro che non sono di nobili natali possono superare il grado degli ufficiali subalterni.
L’esaltazione della nobiltà di sangue come l’unica degna d’onore nasconde una polemica nei confronti dei sovrani che hanno reso la nobiltà oggetto di mercato: l’inflazione dei titoli e la vendita dei feudi alterano profondamente il binomio sangue-virtù. Filippo IV sottolinea nel 1625 la necessità della monarchia di distribuire onorificenze: “senza ricompense e punizioni nessuna monarchia può conservarsi. Ora le ricompense possono essere finanziarie o onorifiche. Noi non disponiamo di denaro, e così abbiamo ritenuto giusto e necessario riparare questo difetto accrescendo il numero delle onorificenze”.
Così a Napoli il numero di baroni titolati cresce di oltre il 300 percento tra il 1590 e il 1669; in Inghilterra, Giacomo I nomina nei primi quattro mesi del suo regno, a titolo gratuito, 906 nuovi cavalieri; in Svezia la regina Cristina (1626-1689) in dieci anni doppia il numero delle famiglie nobili.
Nobiltà ed economia
Il Seicento è il secolo delle genealogie, con cui i tanti nobili nuovi, malgrado i “compri onori”, tentano di farsi accogliere nell’universo nobiliare riaffermandone in tal modo lo statuto ideologico e la connessa gerarchia sociale. Ben più complessa sul piano teorico è la rivendicazione della non onorevolezza di alcune professioni, considerate ignobili e vili.
In realtà, l’autorappresentazione della nobiltà, nelle sue diverse stratificazioni, per cui “la richezza ereditaria è più onesta di quella acquisita, considerato che quest’ultima è frutto di vile guadagno” (Sardo), l’immagine dell’hidalgo che non compromette il proprio onore con il commercio e lo speculare giudizio di una nobiltà oziosa e parassitaria non trovano un riscontro nella realtà storica.
Secondo alcuni storici l’aristocrazia inglese ricopre un ruolo con cui nessuna altra classe, nè la piccola nobiltà né i ceti mercantili, riesce a rivaleggiare; in Francia una clausola del codice Michau, dovuto a Richelieu e a Marillac, afferma che “tutti i nobili che direttamente o indirettamente hanno quote di partecipazione di navi e del loro carico, non perdono la loro condizione nobiliare”.
La ricchezza nobiliare è legata soprattutto alla terra, fonte di rendita e di materie prime, la cui integrità nella successione viene difesa dal maggiorascato e dalla primogenitura.
Anche lo Stato può però essere fonte di ricchezza: nella relazione sui propri redditi redatta nel 1622 dal duca di Lerma su un’entrata complessiva di 120.000 ducati, quasi i due terzi sono compensi di servizio e solo un terzo proviene dalla terra. In Francia, il patrimonio del maresciallo d’Ancre supera, nel 1617, i sette milioni di franchi, di cui sei provenienti da cariche e da altre fonti pubbliche di reddito. L’integrazione politica della nobiltà produce ricchezza. Fondamentali per la nobiltà sono il governo del territorio e le alleanze sociali con cui realizzarlo: per questo l’immensità del patrimonio terriero e gli alti privilegi a esso congiunti non possono non essere connessi con la lotta politica.
La nobiltà nella società del XVIII secolo
Alla fine dell’ancien régime la nobiltà attraversa un periodo caratterizzato da molte contraddizioni. Da una parte essa difende le proprie prerogative giurisdizionali e il potere che l’assolutismo dei sovrani e la spinta delle classi borghesi tendono a sottrarle, dall’altra partecipa al movimento riformista che propugna un diverso assetto della società fondato sulle sole differenze “naturali”. Alla fine del secolo la nobiltà costituisce comunque ancora una classe privilegiata, soprattutto sul piano economico, e rappresenta ovunque, con l’eccezione dell’Inghilterra, una forza conservatrice.
La nobiltà
L’età barocca lascia in eredità al XVIII secolo, in tutti gli Stati europei, un sistema politico il cui perno è ancora il sovrano con il suo potere assoluto; accanto al re dominano la scena politica e sociale le classi aristocratiche e l’alto clero, i cui componenti molto spesso appartengono alle medesime famiglie. Gli elementi caratteristici della nobiltà sono l’appartenenza per nascita a un antico lignaggio, l’esercizio di determinate funzioni all’interno della società garantite dalla tradizione e dal diritto, e il possesso di cospicue ricchezze, per lo più di carattere fondiario. La nobiltà del Settecento appare comunque composita; per quanto durante il secolo precedente si sia verificata una tendenza all’omogeneità, si deve distinguere fra nobiltà antica e nobiltà nuova. In tutti i Paesi europei continua a esistere una nobiltà investita della funzione militare, che si è distinta sui campi di battaglia e può vantare una discendenza illustre, da una stirpe che risale talvolta al Medioevo. A questa si aggiunge una nobiltà di più recente formazione, nata all’ombra del potere politico e che trae le sue origini dall’esercizio delle funzioni amministrative.
Non sono nobili soltanto coloro che hanno ricevuto direttamente il loro titolo dal sovrano, ma anche coloro che lo hanno acquistato attraverso gli uffici e l’accumulazione di ricchezze finanziarie. La società del XVIII secolo è ancora una società di ordini e di gruppi, ognuno con i suoi privilegi e le sue prerogative, e la nobiltà è all’apice di questa scala. Essa si sente una classe al servizio del re e della patria, ma separata dagli altri ceti, da cui la dividono concezioni politiche e ricchezze. La base dell’accesso alla nobiltà è comunque il privilegio, e cioè il rapporto preferenziale e diretto che il re instaura con alcuni dei suoi sudditi, i quali in conseguenza di ciò si ritengono separati dal resto della popolazione. Nel tentativo di concentrare il potere nelle loro mani e di evitare rivendicazioni politiche, i sovrani convocano i nobili e li raccolgono nelle corti; si forma così una nobiltà cortigiana che attornia il sovrano in corti sfarzose, come Versailles, ma ai titoli pomposi non corrisponde alcuna effettiva possibilità di contrastare la volontà del re.
L’assolutismo di Luigi XV e degli altri sovrani europei non può però prescindere dalla nobiltà che conserva sostanzialmente intatto il proprio ruolo e il proprio peso politico
soprattutto nelle province. L’ancien régime si fonda sulla preminenza delle classi nobili che rappresentano il vero gruppo dirigente. La nobiltà è sempre legata al feudo, alla signoria e all’espletamento di una serie di funzioni giurisdizionali che le assicurano prestigio e cospicui proventi. Le aristocrazie conservano il loro potere economico grazie alle leggi di successione e ai maggiorascati, che vengono usati per perpetuare le ricchezze e trasmettere gli onori e i titoli al primogenito. Anche accorte politiche matrimoniali, che coinvolgono talvolta donne di rango inferiore ma di famiglia ricca, vengono utilizzate per mantenere il livello di vita tipico dell’aristocrazia. Due sono le immagini della nobiltà che ci giungono dal XVIII secolo: una nobiltà oziosa e nulla facente, dedita agli svaghi e al gioco, come ad esempio quella di Venezia, dove l’aristocrazia è in completa decadenza, e una nobiltà dedita al servizio del sovrano, aperta alla cultura illuminista e al progresso delle scienze.
La nobiltà nei diversi Paesi europei
La nobiltà comunque differisce molto nei diversi Stati europei. I nobili rappresentano percentuali molto variabili della popolazione, dallo 0,5 percento circa della Svezia al 10 percento e più della Polonia, e possiedono quote molto diverse della ricchezza totale. Anche all’interno dello stesso Paese, le differenze fra famiglie nobili possono essere considerevoli quanto a possedimenti e rendite.
In Francia, dopo il periodo di Luigi XIV, la nobiltà è molto cambiata, ma rappresenta sempre l’ago della bilancia della società per la sua ricchezza e la sua influenza politica; essa è formata dai discendenti delle grandi famiglie e dalla nobiltà di toga, relativamente recente. L’esponente più celebre di quest’ultima è Montesquieu, che elabora, sul modello proposto dalla nobiltà francese, la dottrina politica di una monarchia assoluta temperata dalla presenza e dall’aiuto dei nobili.
La Gran Bretagna vede la classe aristocratica divisa nelle due fasce della nobiltà di più alto livello, che entra di diritto nella camera dei pari, e della gentry, la piccola nobiltà di campagna: ambedue sono protagoniste del grande balzo in senso moderno che il Paese compie con la rivoluzione industriale. La nobiltà prussiana e quella tedesca sono integrate nello Stato e sono sottoposte a una severa disciplina dovuta anche alla forte impronta militare del governo degli Hohenzollern.
In Russia la nobiltà si sviluppa all’ombra di un forte potere centrale e autocratico, che vede il suo fondamento in una nobiltà rigidamente inquadrata nel sistema di privilegi feudali. La situazione nelle campagne — basti pensare alla servitù della gleba — è totalmente condizionata dal sistema di privilegi aristocratici.
In Spagna la nobiltà è costituita dalla classe dei feudatari che hanno ancora nelle loro mani il controllo sociale di gran parte delle popolazioni delle province tramite il possesso della terra e l’esercito di funzioni giurisdizionali.
Nell’Italia settentrionale e centrale, nella Germania meridionale e occidentale e nei Paesi Bassi i patriziati urbani conservano il controllo sull’amministrazione, nonostante i vari tentativi di riforma, fino alla Rivoluzione francese e alle leggi di Napoleone. I privilegi sociali ed economici della nobiltà vengono attaccati da molti fronti. Emergono nuove classi sociali e si diffondono le idee dell’Illuminismo che, proponendo un nuovo egualitarismo e una nuova giustizia sociale, si oppongono al sistema politico fondato sul privilegio nobiliare.
Ma i nobili dimostrano una notevole duttilità: non solo adottano la cultura delle riforme ma anche, a volte, modelli comportamentali che fondano la preminenza non più solo nella nascita ma sul merito. Inoltre adeguano le loro scelte economiche alla situazione dei diversi Paesi e finiscono per consolidare la loro posizione. In Inghilterra, per esempio, i nobili si arricchiscono, tanto che i pari, che all’inizio del Settecento possedevano il 15-20 percento dei beni fondiari, alla fine del secolo ne possiedono il 20-25 percento. La reazione nobiliare in Francia, che blocca le riforme fiscali e impedisce la convocazione degli Stati generali, e l’attenzione per i miglioramenti produttivi in Inghilterra sono due modi di assicurare la propria sopravvivenza in contesti diversi.
Le classi aristocratiche, sotto i colpi delle rivoluzioni borghesi di fine secolo, devono tuttavia prendere coscienza dell’avvenuto distacco da quella società che in passato avevano saldamente controllato e finiscono per essere travolte dalla caduta dell’ancien régime, perdendo il ruolo di classe politicamente egemone, ma conservando, in compenso, un ruolo di primo piano nella vita economica di tutti i Paesi europei che durerà fino al secolo successivo.
La cultura aristocratica
Pur restando la testimonianza tangibile della posizione del nobile, cambiano in questo periodo il modo di vivere degli aristocratici e la loro dimora, e, soprattutto in Italia, i nobili vanno ad abitare in campagna. Al severo palazzo barocco al centro della città chiusa dalle mura si sostituisce l’ariosa villa, nei luminosi colori del rococò, vicina alla città, utilizzata per la villeggiatura — una moda recente che si va diffondendo — e spesso al centro di un’avviata azienda agricola.
In tutti i paesi si assiste a una ripresa della vita in campagna; la vita all’aria aperta, vicina al mondo dei contadini, trova riscontro nella cultura figurativa ispirata alla gioiosa luce della vita campestre in cui i nobili si travestono da contadini o da pastori.
La cultura arcadica prima e poi il classicismo, influenzato anche dai ritrovamenti archeologici, sono i canoni maggiormente seguiti dal gusto delle classi aristocratiche e ispirano, nell’architettura e negli arredamenti, il nuovo stile rococò dai colori chiari e dalle linee aggraziate, e il neoclassicismo, che si richiama alla ragione illuminista. Le classi aristocratiche sono influenzate dalla moda francese, che porta a un cambiamento anche nel modo di vestirsi.
Non più i severi abiti che costringono la persona, ma abiti più sciolti e più colorati nei nuovi tessuti in organzino di seta più consoni alla vita in villa, ben rappresentata in Francia nei quadri di Watteau e di Fragonard.
Si diffonde una musica, non più di ambiente ecclesiastico, ma di chiara ispirazione laica, adatta a intrattenere i frequentatori dei ristretti circoli dei salotti. I più importanti presenti nelle città capitali sono legati a nobili e a grandi dame e si affermano come centri di informazione, di diffusione della cultura e sono teatro di alleanze politiche e culturali.
Attraverso i salotti si diffonde la cultura illuminista, che trova molti seguaci fra i nobili, che vi vedono una possibilità di trasformare la monarchia in centro motore delle riforme.
Alcuni nobili, come Montesquieu o Pietro Verri, sono vere figure di spicco del riformismo settecentesco. Negli ultimi decenni del secolo la cultura riformista verrà fatta propria da quelle fasce di nobiltà che contribuiranno a preparare la rivoluzione.
Il trionfo della borghesia
Tra la fine del Settecento e la prima guerra mondiale, il continente europeo assiste a l’ascesa e all’affermazione di una classe che – pur differenziata secondo tipologie nazionali, politiche e ideologiche – si dimostra capace di plasmare, con la propria irresistibile ascesa, un intero periodo storico, definito appunto “l’età della borghesia”.
L’impiego del termine “borghesia”
“I rappresentanti della borghesia sanno di essere borghesi, la maggior parte di loro non ha tuttavia alcuna idea di che cosa significhi esserlo e soprattutto nessuno è in grado di indicare i borghesi o di delineare le caratteristiche della borghesia”. Con questa affermazione della studiosa francese Adeline Daumard ci troviamo di fronte ai problemi definitori che l’uso della parola “borghesia” comporta nell’ambito della ricerca storica. In effetti il termine, tutt’altro che univoco, présenta l’ambiguità tipica dei significanti comprensivi di una massa di significati disposti su un lungo arco spaziale e temporale.
Nell’Inghilterra della prima metà del XIX secolo la parola burgess, che nel Medioevo indica l’abitante dell’insediamento cittadino, è ormai soppiantata dalla locuzione middle class, densa dei caratteri acquisitivi che fanno della borghesia una classe nuova, intermedia. tra l’aristocrazia e i lavoratori manuali. D’altro canto in Prussia, nucleo portante della futura Germania imperiale, il vocabolo Biirger mantiene una forte valenza giuridico-corporativa legata alla società cetuale e soltanto intorno al 1870 il ricorso al neologismo Bùrgertum permette di connotare i processi innescati dalle inedite dinamiche di produzione e di scambio. In Francia invece l’appellativo bourgeois, entrato nell’uso comune dopo gli anni della Rivoluzione francese con l’affermazione della monarchia costituzionale di Luigi Filippo d’Orléans, è accompagnato sempre più spesso da aggettivi che sottolineano il differente peso sociale, economico e politico delle diverse componenti: petite bourgeoisie, moyenne bourgeoisie, bonne bourgeoisie. Il termine “borghesia”, a lungo adoperato al singolare con riferimento a un modello metastorico e assoluto, nella percezione dei contemporanei non indica sempre un aggregato compatto .e omogeneo. Semmai – rispetto all’analisi avanzata da Marx ed Engels intorno alla metà del secolo, per cui l’identificazione del borghese ottocentesco con il capitalista avviene in base ai “rapporti di produzione” instaurati da quest’ultimo— i livelli di reddito egli atteggiamenti culturali delle borghesie europee testimoniano una realtà molto più vischiosa e frammentata.
Il quadro generale
Quali e quante sono allora le borghesie che attraversano lo scenario continentale fino all’inizio del nostro secolo? Prima del 1850, sia nella “prima nazione industriale”, la Gran Bretagna, sia nei Paesi che arrivano secondi all’appuntamento con l’industrializzazione, la Germania e la Francia, la cifra comune alle classi borghesi è quella di un’affermazione della loro presenza. Ciò avviene attraverso un insieme di canali — la stampa e l’associazionismo, la scuola e le dottrine economiche e sociali capaci di declinarne l’alterità di fronte alle altre componenti del corpo sociale — verso l’alto, rispetto ai principi e ai modelli di vita del ceto nobiliare, detentore del potere per privilegio ereditario, verso il basso, nei confronti delle classi subalterne tradizionali e del proletariato industriale di recente formazione. In questo periodo, lo spirito di conquista delle borghesie riesce a relegare in secondo piano la frammentazione degli interessi, l’eterogeneità delle posizioni ideologiche e politiche, la variabilità dei comportamenti sociali.
A partire dal 1830-1840 il termine stesso di “classe”, che fino al secondo decennio dell’Ottocento indica semplicemente il livello occupato nella società, oltre a individuare una comunanza di interessi finisce per esprimere la coscienza collettiva delle diverse borghesie.
Differenze significative separano comunque la città —visibile eccezione in un mondo nel quale la campagna rappresenta indiscutibilmente la norma — dall’universo circostante. Nel mondo rurale dell’Europa nord-occidentale il protagonista indiscusso dell’ascesa borghese è il proprietario terriero imprenditore: da un lato egli pone le premesse della rivoluzione industriale, assicurando un aumento della produttività tramite l’applicazione intensiva del fattore lavoro e con cambiamenti decisivi nelle tecniche di coltivazione; dall’altro, grazie anche al parziale miglioramento delle vie di comunicazione, asseconda le richieste di consumo dei centri cittadini in continua espansione. Anche il polo urbano, raffigurato da buona parte della letteratura coeva come la sede per eccellenza della promozione sociale e del successo individuale, racchiude al suo interno un’ampia tipologia. Alla città-fabbrica, che colpisce l’immaginazione degli osservatori in maniera inversamente proporzionale alla sua marginalità statistica, si affianca la città dei ministeri e delle università, dei giornali e della politica, in grado di fondere la tradizionale funzione amministrativa con nuove vocazioni. Nel corso dell’Ottocento lo spettro delle variabili si ampia e si dilata sempre più. Attorno alle tradizionali attività artigiane e commerciali, in alcune città prende corpo il settore terziario; in altre sono le banche e i terminali finanziari delle imprese ad alimentare la scommessa modernizzatrice; in altre ancora, da tempo immemorabile punto d’incontro informale per il reclutamento della manodopera rurale, perdura la dimensione di “città del silenzio”.
Dalla seconda metà dell’Ottocento, comunque, in tutte le città — e soprattutto nelle capitali — si assiste a un processo in virtù del quale il regime, che dopo la Rivoluzione francese era stato definito come antico, si integra con uno nuovo. Si tratta di un’osmosi che non interessa soltanto le fasce superiori delle borghesie e alcuni settori della nobiltà, ma coinvolge una parte notevole dell’intera classe. Anzi, quando il volgere del secolo sostituisce al “sacro principio” della libera concorrenza la parola d’ordine dell’intervento pubblico, quel fenomeno sembra assumere proporzioni e intensità inedite, accomunando nelle richieste categorie diverse: finanzieri e possidenti, bottegai e impiegati privati, funzionari statali e liberi professionisti. È una dinamica che sposta le barriere e i livelli delle gerarchie, ma non le sopprime: al contrario, la società europea alla vigilia della prima guerra mondiale non appare fondata sulla totale distruzione dell’antica, ma a fianco o a partire da questa.
I casi nazionali
Il mito della perfetta borghesia inglese, elaborato dai sostenitori di un culto laico del Progresso e imposto dal prestigio della classe dirigente, sul terreno dell’analisi concreta cede il posto a un’evoluzione più articolata. ll fatto che la Gran Bretagna raggiunga tra le nazioni europee il maggior equilibrio tra lo sviluppo economico e l’evoluzione politico-istituzionale non elimina la difficoltà di individuare un percorso che delimiti con precisione le classi borghesi. “Senza dubbio è in Inghilterra — scrive Marx nel Capitale — che la società moderna nella sua struttura economica ha raggiunto il suo sviluppo più ampio e più classico. Tuttavia la stratificazione delle classi non appare neppure lì nella sua forma pura. Fasi medie e di transizione cancellano anche qui tutte le linee di demarcazione […]”. Del resto, anche se unificata da parametri come il livello del reddito, lo stile di vita e le aspirazioni, la “grande borghesia” dei ricchi imprenditori e dei commercianti facoltosi, dei professionisti affermati e dei finanzieri d’assalto rappresenta pur sempre un’élite davvero esigua: circa l’1 percento della popolazione nel 1840, appena il 2 percento nel 1870 e poco di più nel 1890. Solo includendo le categorie dei bottegai e degli impiegati agiati, dei fittavoli e degli ufficiali dell’esercito, nel penultimo decennio dell’Ottocento le borghesie si dilatano, fino a raggiungere il 25 percento del totale. Queste, però, rimangono escluse dall’esercizio diretto di un potere politico che, anche dopo la prima guerra mondiale, rimane privilegio esclusivo di un’oligarchia borghese capace di eliminare il limite superiore che la divide dall’aristocrazia.
L’avvio ritardato del processo di sviluppo economico in Germania, che ha inizio dopo il 1830, porta con sé anche la debolezza degli ambienti borghesi, limitati alle città anseatiche, a Berlino, Francoforte e Dresda. Tuttavia in alcune città c’è una radicata presenza di medici, avvocati, professori e maestri artigiani già prima che inizi la rivoluzione industriale. Sono queste borghesie “di tipo tradizionale” a perpetuare le tradizioni e la cultura del passato, sia che si conservino intatte oppure si uniscano agli esponenti del commercio e dell’industria. Capitani d’impresa, finanzieri e banchieri, dal canto loro, con una cura spiccata per la qualità dei prodotti e con un’accorta politica degli investimenti accrescono in misura considerevole i loro profitti. Le fonti fiscali prussiane rivelano che, tra il 1852.e il 1867, la quota parte del loro reddito imponibile sale dal 16 percento al 22 percento, mentre numericamente essi non sono che poche decine di migliaia, meno dell’Il percento della popolazione. A partire dalla fine degli anni Settanta la fondazione del Reich e la forte concentrazione monopolistica delle attività produttive e creditizie producono un effetto moltiplicatore delle fasce impiegatizie pubbliche e private, dei tecnici e dei quadri intermedi: nel 1870 esse rappresentano il 15 percento e nel 1900 salgono al 25 percento della popolazione.
Ma all’inizio del XX secolo la classe dirigente si recluta ancora nelle file dell’aristocrazia, sia tra i proprietari terrieri della Prussia e della Sassonia, sia nel ceto professionale che ha accumulato una larga esperienza nella carriera amministrativa.
A differenza delle borghesie tedesche e in parte anche di quelle inglesi, in Francia le borghesie esercitano un’influenza politica decisiva sulla società. Fin dal periodo rivoluzionario gli avvocati, i professori, i medici e gli alti funzionari sono presenti in tutte le assemblee, si tratti di occupare un seggio in un Consiglio generale di dipartimento o alla Camera dei deputati di Parigi. II precoce predominio sulla nobiltà si rivela probabilmente uno svantaggio dopo il 1830, quando i ritmi della trasformazione economica già avviata non toccano i livelli raggiunti in Germania e in Gran Bretagna. La forza delle professioni si mantiene intatta in pieno Ottocento e fino al declinare del secolo l’immagine del borghese è legata alle figure di redditieri, proprietari terrieri e avvocati “di grido” piuttosto che a quella del grande imprenditore capitalista. Nel 1880, al termine di un periodo di transizione economica e sociale, il 4,5 percento delle famiglie, vale a dire 500 mila capifamiglia, detengono un terzo dei redditi dell’intero Paese, circa 7 miliardi di franchi, con un’entrata media di 14 mila franchi mensili. L’alimentazione assorbe circa 3000 franchi, l’affitto 2000, l’abbigliamento 2000, il salario di due domestici una parte variabile del rimanente, mentre almeno un terzo viene risparmiato. Ma la società francese non produce soltanto queste fasce di alta e media borghesia; al di sotto di esse esistono numerosi gruppi intermedi che dopo il 1870 arrivano a oltre 4 milioni di persone: piccoli imprenditori, negozianti, funzionari di livello inferiore, impiegati di aziende e imprese. È soprattutto per loro tramite che i comportamenti sociali della nobiltà, assimilati dai bons bourgeois parigini e rielaborati sulla base dei propri modelli politici e culturali, sopravvivono alla fine del “lungo Ottocento” borghese.
Borghesie in ritardo: Italia, Russia, Austria-Ungheria
Rispetto alla Gran Bretagna, alla Germania e alla Francia in altri Paesi europei, quali l’Italia, la Russia e l’Austria-Ungheria, il processo di affermazione delle borghesie inizia soltanto nell’ultimo quarto dell’Ottocento e avviene comunque nell’ambito di una società che vede la persistenza di mentalità, istituzioni e meccanismi economici tipici dell’ancien régime.
Il quadro generale
I profondi cambiamenti che la rivoluzione industriale inglese e la Rivoluzione francese producono nella struttura sociale ed economica di Francia e Gran Bretagna, e in buona parte della Germania, non comportano affatto la scomparsa delle categorie più tradizionali; si verifica invece una crescente differenziazione, in virtù della quale l’affermarsi di nuove figure non avviene sempre e comunque a detrimento di altre. Dunque, a fine Ottocento, la società di questi Paesi si presenta molto più variegata e frammentata rispetto a un secolo prima, e appare comunque plasmata dalle differenti borghesie.
Nella fascia geografica delimitata dalle Alpi e dal bacino del Mediterraneo a occidente, dal Volga e dagli Urali a oriente, le dinamiche del cambiamento si innescano con ritmi e modalità differenti rispetto alla Gran Bretagna, alla Germania e alla Francia. In Italia, in Russia e in Austria-Ungheria, infatti, fino all’ultimo quarto del secolo l’ammodernamento del settore agricolo non è altrettanto intenso, né l’applicazione della tecnica alle imprese così rapida o lo sviluppo delle attività terziarie ugualmente deciso.
Nelle campagne, ben oltre la metà del XIX secolo, prevale la figura del grande proprietario aristocratico che pur non conducendo direttamente i propri fondi ne percepisce i redditi; il legame tra il mondo rurale e la città più vicina mantiene i caratteri di un’osmosi governata dai circuiti tradizionali del consumo piuttosto che da nuovi fattori produttivi.
Le industrie non riescono a uscire dalla loro dimensione artigianale e, quando ciò avviene, il salto di qualità dipende dall’indispensabile sostegno statale in favore dei pionieri dell’industrializzazione. Alla figura dell’imprenditore privato si affianca dunque quella onnipresente del funzionario statale, preposto al controllo e alla destinazione degli investimenti pubblici.
In Italia, in Russia e in Austria-Ungheria, la debole presenza di una borghesia legata ai circuiti bancari e creditizi, alla finanza e alla grande distribuzione commerciale si accompagna a una limitata o inesistente tecnicizzazione delle funzioni statali. Le figure di ingegneri e architetti, ragionieri e statistici — necessarie per l’adempimento di alcune mansioni amministrative in altre aree d’Europa — qui si affermano con difficoltà e ritardo, anche perché il ruolo riservato all’istruzione tecnica dalle classi dirigenti tradizionali rimane marginale fino al tardo Ottocento; i professionisti riescono solo in misura limitata a svolgere una funzione di raccordo ideologico e di giuntura sociale tra i differenti segmenti borghesi.
Trovandosi nell’impossibilità di offrire a un mercato ancora embrionale le loro prestazioni specializzate, essi continuano a impiegarle al servizio di una pratica d’ufficio consolidata e di un impegno politico talvolta esercitato per delega; sono i rappresentanti tipici di un mondo geograficamente vasto e diversificato al proprio interno che alla vigilia della prima guerra mondiale si trova ancora sospeso tra persistenza e innovazione.
Italia
In Italia la formazione delle classi borghesi avviene, molto più che in Germania, in stretta connessione con il processo di unificazione nazionale. Già dopo il 1835, in effetti, nel settore agricolo iniziano ad affermarsi i primi proprietari imprenditori che tendono a diversificare le fonti di reddito e ad allargare l’orizzonte tradizionale alla nozione di profitto. Si tratta tuttavia di una categoria limitata al solo Lombardo-Veneto — un’entità territorialmente omogenea — e in particolare al delta padano, dove l’integrazione di fasce borghesi con una nobiltà intraprendente consente la costituzione di un’élite sociale capitalistica. Se questa si dimostra capace di integrare gli introiti agricoli con i guadagni derivanti da attività imprenditoriali, come la coltivazione del gelso e la produzione della seta, al sud la situazione è ben diversa. Di origine aristocratica o meno, gli agrari meridionali si comportano quasi tutti da autentici rentiers, godendo di un elevato tenore di vita, dovuto ai pesanti sacrifici richiesti ai contadini piuttosto che ai progressi attuati con investimenti produttivi. Mentre al nord la propensione verso uno sfruttamento intensivo delle colture aumenta notevolmente nel periodo successivo all’unificazione, devono trascorrere alcuni decenni perché anche nel Meridione si faccia strada una forte borghesia industriale e commerciale. Se all’inizio degli anni Ottanta compare un primo nucleo industriale, non più legato unicamente ai comparti tessile e cotoniero, gli imprenditori del settore meccanico in realtà non operano una rottura drastica con le antiche strutture: soprattutto nel Mezzogiorno, ma non soltanto, le unità produttive sono a carattere domestico e i loro impianti tecnologicamente in difficoltà di fronte alla concorrenza estera. È soltanto al termine del ventennio iniziato nel 1887 con il varo del protezionismo doganale e conclusosi con la crisi economica del 1907 che in settori all’avanguardia, quali la chimica, l’elettricità e i mezzi di trasporto, emerge una nuova classe imprenditoriale. Questa si muove come una ristretta élite all’interno di una società piena di contraddizioni: nelle medie e piccole borghesie degli impieghi e del commercio, delle professioni urbane e della rendita fondiaria, la nozione di “classe” si sostituisce o si sovrappone, di volta in volta, a quella di “famiglia”, ma rimane comunque fondamentale il ruolo svolto dallo Stato, per la creazione di nuovi orientamenti e nuove attitudini culturali che favoriscano lo sviluppo della società.
Russia
All’indomani delle guerre napoleoniche, nonostante l’innegabile presenza di una borghesia manifatturiera, la Russia è ancora un Paese agricolo e artigianale. Il progresso economico e industriale del XVIII secolo non è accompagnato da una trasformazione sociale, poiché la moltiplicazione delle manifatture awiene grazie ai grandi proprietari terrieri che intensificano lo sfruttamento del lavoro servile. Senza dubbio la ritardata comparsa di un ceto borghese risente della mancata volontà dell’autocrazia zarista di condurre a termine una radicale riforma agraria, indispensabile per la formazione di una classe di contadini agiati e di un nuovo spirito d’iniziativa. Nel 1825 il romanziere e cronista Bestujev nota: “in qualsiasi altro luogo classe influente e rispettata, i borghesi da noi sono disprezzati, miserabili, oppressi dalle tasse e privi di mezzi di sussistenza”. Benché espressa nella prima metà dell’Ottocento in riferimento ai rampolli dei mercanti arricchiti, che non hanno altra ambizione se non quella di entrare nei ranghi di un’amministrazione statale monopolizzata dalla nobiltà, l’affermazione rimane valida per molto tempo. Si deve infatti attendere ben oltre l’abolizione della servitù della gleba nel 1861, perché si affermi una classe di “contadini ricchi” e perché il secondo periodo di forte crescita industriale, tra il 1906 e il 1914, porti alla ribalta un gruppo ristretto ma importante di imprenditori. L’erosione degli antichi valori terrieri agisce lentamente, ma finisce per incidere sulla società russa, anche se è difficile indicare la qualità della stratificazione sociale. Secondo un censimento del 1897 — il più attendibile tra quelli ufficiali dal punto di vista giuridico — le caste in cui è ancora divisa la Russia sono così ripartite: 1,22 milioni di nobili ereditari, 600 mila nobili di prima generazione, 342 mila ecclesiastici, 342 mila “cittadini onorari”, 281 mila mercanti, 13,4 milioni di meshchanin, 96,8 milioni di contadini. I criteri di appartenenza a ciascuna di queste categorie sono molto labili: l’antica aristocrazia comprende non solo i proprietari fondiari, ma anche i ranghi superiori dell’esercito e dell’impiego statale, nonché buona parte delle professioni liberali; vi è poi un’enorme distanza, soprattutto di reddito, tra il ricco commerciante e l’esponente delle corporazioni più povere; quanto ai meshchanin, essi accomunano il piccolo negoziante, l’industriale e la maggioranza della classe operaia. Di fronte a uno Stato onnipresente la società civile inizia comunque a articolarsi seguendo dinamiche proprie che non rispondono più alle suddivisioni tradizionali e consolidate.
Austria-Ungheria
In Austria-Ungheria all’abolizione della servitù della gleba, decretata alla fine del Settecento, non si accompagna quella delle corvée prestate dai contadini. La nobiltà continua a essere la classe dirigente per tutto il secolo successivo, inquadrando nelle strutture della grande proprietà la popolazione rurale e imponendo agli abitanti dei centri urbani in forte crescita il proprio stile di vita e i propri valori sociali. A metà dell’Ottocento, tuttavia, lo scenario sociale non è completamente immobile: in Moravia e nella Bassa Austria la tendenza dei contadini ad affittare lavoratori agricoli che svolgano per loro conto le mansioni stabilite nella corvée sembra diventare generalizzata; nei villaggi boemi lo scarto sociale tra contadini ricchi e salariati senza terra aumenta, soprattutto in virtù dell’intraprendenza commerciale dei primi; mentre nella Slesia, nella pianura ungherese e nella stessa Boemia il livello medio della produttività agricola viene decisamente incrementato grazie all’adozione dell’agricoltura scientifica da parte di alcuni esponenti dell’aristocrazia. Il fatto che gli ambienti nobiliari sviluppino un atteggiamento mentale favorevole al progresso economico e investano nell’industria già nella prima metà dell’Ottocento finisce per ostacolare l’affermarsi di borghesie imprenditoriali, le sole a cui sia consentito svilupparsi liberamente. La carriera negli alti gradi dell’amministrazione asburgica rimane, infatti, come in Russia, quasi del tutto preclusa alle aspirazioni dei gruppi in ascesa; del resto, il sistema economico continua ad accusare i vincoli e le divisioni interne inerenti all’ordinamento politico anche quando, dopo il 1870, la rivoluzione industriale inizia a trasformare visibilmente il tessuto sociale. Anche allora l’impero soffre per alcuni anni della mancanza di grandi circuiti bancari e della debolezza delle società per azioni, mentre l’aristocrazia del merito — banchieri come Rothschild, industriali come Liebig e Leitenberger — stenta a ottenere lo stesso prestigio sociale della nobiltà di sangue e non riesce a sostituirla come classe dirigente. Alla vigilia della prima guerra mondiale l’Austria-Ungheria rimane un Paese gerarchizzato, ma segnato in varie zone dall’avanzare di un’industrializzazione che contribuisce a mettere in crisi un ordine sociale superato, ormai incapace di creare consenso attorno alla duplice monarchia.