Il termine “romanzo” è sostantivo che deriva del francese antico romanz, dalla locuzione latina romanice (loqui), “parlar romano”, in relazione alla civiltà culturale delle lingue neolatine.
Alle origini delle letterature moderne il termine romanzo designa un genere narrativo esteso, in lingua volgare (prosa o versi), che racconta particolari vicende, spesso d’invenzione, sullo sfondo di ambienti ora reali, ora fittizi. La materia di tali narrazioni era filtrata dal serbatoio della classicità, specie dal cosiddetto “romanzo greco” del I-III sec. d.C. (Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio,
Le avventure di Cherea e Calliroe di Caritone, Dafni e Cloe di Longo Sofista), caratterizzato da intrecci d’affetti e da peripezie a lieto fine, dominati dal caso e privi di referenzialità spazio-temporale (come il Filocolo del Boccaccio, 1336-38), oppure veniva attinta dalla più recente tradizione bretone, ispirata alla saga di re Artù e dei suoi cavalieri (Lancillotto, Tristano, Perceval), la quale peraltro si proiettava nel solco delle antiche leggende d’armi, amori e prodigi idolatrate dal Medioevo, come il Roman de Thèbe (1150 circa), il Roman de Troie (1160) di Benoit de Sainte-Maure, o il Roman d’Alexandre (sec. XII).
La consacrazione del ciclo arturiano spetta comunque a Chrétien de Troyes, autore fra il 1160 e il 1190 di un perduto Tristan, di Érec et Énide, di Cligès, di Lancelot, d’Yvain e di Perceval le Gallois, meglio noto come il romanzo del Graal.
A questi capolavori si deve inoltre la straordinaria fortuna del genere cortese, specie in forma di poema, almeno fino al Cinquecento; non mancano tuttavia popolarissimi romanzi come i Reali di Francia e il Guerrin Meschino di Andrea da Barberino (1370-1421), o l’Amadis de Gaula (sec. XVI), prima che l’universo dei valori cavallereschi finisca per essere parodiato dal “romanzo picaresco” (Lazzarillo de Tormes, 1554; Mateo Alemán, Guzmán de Alfarache, 1599-1604), dove l’eroe si trasforma in antieroe di strada (trovatello, viandante o studente, ladro, truffatore e baro), sino ad entrare in crisi con le folli allucinazioni dell’Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha (1605-15), il quale scambia ormai sistematicamente mulini per giganti, osterie per castelli, volgari contadine per avvenenti pulzelle.
Se da un lato la vena comico-realistica di Cervantes anticipa la forma moderna del romanzo, dall’altro s’inserisce in una lunga tradizione che ha la sua origine nelle licenziose favole Milesie di Aristide (II sec. a.C.), il suo sviluppo nella grottesche vicissitudini private del Satyricon di Petronio (66 d.C., circa), dell’Asino di Luciano e delle Metamorfosi di Apuleio (II sec.), dove la materia quotidiana sa però elevarsi a mistica trasfigurazione, e tocca il suo apogeo nel Gargantua et Pantagruel (1532-64) di Rabelais, in cui trionfa una visione colorita e corporea dell’Uomo, mostrato senza inibizioni nella sua gioiosa integrità fisico-spirituale grazie all’esaltazione di tutte le funzioni naturali: dal mangiare al bere, dal defecare a avere un rapporto sessuale. E l’opera rabelaisiana apre al romanzo la via del realismo.
Così, mentre il classicismo francese si attarda sul modello preziosistico pastorale-cavalleresco alla madame de Scudery (Artamène ou le Grand Cyrus, 1649-53), oppure si cimenta con altrettanto successo nel genere filosofico-educativo (François Fénelon, Les Aventures de Télemaque, 1699), prima il Roman comique (1651-57) di Paul Scarron e quindi il Simplizissimus (1668-9) del tedesco Grimmelsausen, entrambi sulla scia della picaresca, preparano la fortuna del romanzo del Settecento quale specchio sempre più serio e fedele della vita, con personaggi scelti fra la gente comune, in cui si riflettono mentalità e costumi degli ambienti rappresentati: dall’eroe di Lesage, Gil Blas (1715-35), nato da uno scudiero e da una serva, alla ladra e prostituta Moll Flanders (1722) di Daniel Defoe, dai celebri figli di nessuno usciti dalle penne di Fielding e del Voltaire, Tom Jones (1749) e Candide (1759), in cui prevale l’intento satirico, alla non meno famosa quanto disgraziata cameriera del Richardson, Pamela (1740).
Proprio la figura della giovane perseguitata affascina la morbosa sensibilità di fine secolo: la storia di una monacazione forzata ne La Religieuse (1780) di Diderot, ma anche la tormentata vicenda affettiva di Julie ou la nouvelle Héloïse (1761) di Rousseau anticipano le crudeltà e gli orrori cui saranno sottoposte sia le eroine del genere gotico, inaugurato dal Walpole con The Castle of Otranto (1764), sia le infelici protagoniste dei romanzi psicologici del de Laclos Le liason dangereuses (1782) e del marchese de Sade (Justine, 1791). Né mancano a questo stesso periodo, che saluta la nascita del romanzo autobiografico moderno con Les confessions postume del Rousseau, figure maschili lacerate tra sentimenti, natura e società, come nel più noto dei romanzi epistolari, il Werther (1774) di Goethe. L’Ottocento invece è il secolo del “romanzo storico”: Walter Scott (Waverley, 1814), Manzoni (I Promessi Sposi, 1827-40), Victor Hugo (Les Misérables, 1862), Tolstoj (Guerra e Pace, 1863-69) e Honoré de Balzac, con la sua sterminata Comédie Humaine (circa cento opere fra romanzi e racconti), ne sono forse i maggiori esponenti, mentre in Flaubert (Madame Bovary, 1857) l’osservazione inflessibile della realtà, che precorre la scrittura analitica del “naturalismo”, si unisce a un ricercato gusto espressivo, pari almeno all’inventiva di Charles Dickens (Oliver Twist, 1837-38), forse il più popolare narratore inglese insieme a Stevenson (Treasure Island, 1883), Kipling (The Jungle Book, 1894) e Conrad (Heart of Darkness, 1902).
Frattanto la letteratura americana rivela il genio inquieto e misterioso di Poe e le possenti fantasie di Melville (Moby Dick, 1851), mentre in Russia si afferma l’opera problematica e religiosa di Dostoevskij (Delitto e castigo, 1866). Nel Novecento il romanzo diventa un genere di largo consumo e d’intrattenimento, ma si dovranno ricordare almeno i capolavori di Marcel Proust (À la recherche du temps perdu, 1914-27), Virginia Woolf, James Joyce.