Il Timeo è uno degli ultimi dialoghi di Platone che contiene una delle più grandi visioni cosmologiche dell’antichità, la cui eco risuonerà in tutto il pensiero tardo antico e medioevale.
Nella fase più matura del pensiero platonico trova posto anche la natura, se non nella forma di una conoscenza vera e propria, in quella di una storia, un racconto verosimile, un passatempo moderato e ragionevole, scrive lo stesso Platone velando d’ironia la riflessione sulla razionalità di un mondo che, come dirà Leibniz molti secoli dopo, è il migliore fra i mondi possibili proprio perché reale.
Ma vediamo come e dove si colloca la conoscenza della natura all’interno della filosofia platonica.
Il mondo sensibile sfugge all’indagine razionale, di esso non si può avere una conoscenza definitiva proprio perché diviene continuamente. Le cose nascono e muoiono non esistendo mai veramente, a differenza delle idee che sono eterne, fisse e immutabili. Non per questo Platone nega dignità al mondo che viviamo, che comunque esiste, in maniera imperfetta se paragonato al mondo delle idee, ma sempre perfettibile. Il Bene di questo mondo è sempre circostanziale, approssimato e relativo, mai assoluto, ma è l’unico possibile in questo mondo. Ed è possibile proprio perché legato a una causa superiore della cui natura porta i segni. Ragion per cui il mondo fisico non può essere oggetto della scienza – oggetto della dialettica sono, infatti, le Idee -, del mondo si può solo narrare. Ecco che ancora una volta a soccorrere Platone è il mito, veicolo di verità che la ragione intuisce confusamente e che se da un lato sono ipotesi verosimili, dall’altro si avvicinano all’esattezza della conoscenza filosofica se si assume l’esistenza nella natura di una struttura razionale, di un modello che ha presieduto alla sua formazione. Nel Timeo si legge
Trovare il costruttore e il padre di questo universo è proprio un’impresa, quel che è certo è che l’artigiano, cioè il demiurgo, ha guardato a ciò che è eterno.
Timeo di Locri, da cui l’opera prende il nome, è un filosofo difensore delle tesi pitagoriche. I pitagorici, che Platone conobbe e frequentò personalmente, basti pensare ad Archita, affermavano che le cose sono numeri, anzi che il numero è l’essenza di tutte le cose, introducendo così l’esattezza e l’ordine, propri della geometria e delle tecniche che le sono sorelle, nel mondo naturale. Il nostro filosofo visse in un periodo di grande sviluppo della geometria, matematici di genio, come Eudosso di Cnido, furono chiamati a insegnare all’Accademia, non è un caso che la formazione dei filosofi-governanti della Repubblica prevedeva lo studio delle scienze matematiche, propedeutiche alla conversione dell’anima verso il mondo delle Idee, a quella che nel mito della caverna è rappresentata come la visione del Sole fuori la caverna.
Ma perché la matematica è fondamentale nell’iniziazione alla conoscenza filosofica?
Nella linea della conoscenza platonica, la matematica si colloca fra il mondo sensibile che può solo essere opinabile e il mondo intelligibile oggetto della scienza più alta, la dialettica. Gli elementi della matematica non sono ancora le Idee così come la matematica non è la filosofia, da sola, infatti, non basta alla conoscenza, ma ha un ruolo fondamentale nel preparare l’anima nel suo viaggio verso il mondo ideale, nel preparare lo schiavo alla visione abbagliante del Sole fuori la caverna. I numeri, le figure geometriche e le dimostrazioni della matematica possiedono una maggiore universalità e certezza delle cose sensibili perché, come le Idee, non sono soggette al divenire e consentono di andare oltre il mondo delle apparenze sensibili, in attesa della visione delle Idee eterne, fisse e immutabili. Pensiamo al triangolo: molti sono i triangoli geometrici, ognuno di grandezza diversa dagli altri, proprio come le cose di questo mondo, ma al contempo essi non variano, hanno tutti le stesse proprietà proprio come le Idee.
Qual è allora la differenza fra la conoscenza matematica e quella filosofica? Platone risponderebbe che sopra gli infiniti triangoli geometrici, vi è l’idea di Triangolo, in virtù della quale tutti i triangoli particolari hanno le proprietà che li distinguono in quanto triangoli.
Secondo un curioso ma incerto aneddoto, all’ingresso dell’Accademia c’era scritto Non entri chi non è geometra. Quando nel XVI secolo Galileo Galilei affermerà che la natura è il grande libro scritto nel linguaggio della matematica, non farà che riproporre un’intuizione già presente nel Timeo, dove il mondo che appare ai nostri sensi mostra la sua profonda struttura matematica.
Centro del mito cosmologico è la figura del demiurgo, una divina intelligenza ordinatrice e non creatrice, che ha messo ordine nel caos originario, avendo di mira la perfezione ideale, l’idea del Bene. Il demiurgo non crea ex nihilo, ma dà ordine e forma a una materia che già esiste e che oppone una necessaria resistenza.
Si racconta che Michelangelo Buonarroti fosse solito recarsi personalmente a Carrara per scegliere il marmo per le sue sculture. L’artista vedeva nel pezzo di marmo la forma, la scultura che sarebbe diventata e si limitava a seguire le linee di questa forma, togliendo la materia in eccesso e facendo emergere la vera natura di quel marmo. Sotto il suo scalpello, districandosi fra la resistenza che la sua stessa natura oppone, la materia prende vita, in quello spazio fra due dita, il creatore e il creato tesi l’uno verso l’altro.
La materia per Platone non è ancora aria, acqua, terra e fuoco ma Chora, lo spazio da cui, per mano del demiurgo, emergeranno gli elementi che originariamente si agitavano mescolandosi in modo confuso. Ma prima ancora del mondo dei corpi, lo scultore universale genera l’anima del mondo, l’unica in grado di vivificare i corpi, infondendo loro il movimento.
Così nasce il tempo, che Platone definisce l’immagine mobile dell’eternità: il cielo muovendosi in circolo cerca di avvicinarsi alla perfezione dell’ordine eterno e immobile delle Idee.
Il demiurgo ha forme geometriche per scalpelli e lo sguardo rivolto a ciò che è eterno, solo così potrà generarsi il mondo dei corpi, di cui esso rappresenta il finalismo, la ragione, a cui la materia sempre si ribellerà limitando la bontà del demiurgo e introducendo un disordine che è pur sempre necessario in un’armonia cosmica, di cui il demiurgo è timoniere, dovendo mediare, proprio come i filosofi-governanti, fra mondo sensibile e mondo delle idee, in vista del massimo ordine e della massima bontà possibili: il migliore dei mondi possibili.