L’arte del mondo occidentale, dalla Russia alle colonie americane, registrò a partire dal 1760 un forte recupero d’interesse per le antichità greche e romane. Questa nuova influenza del classicismo, nella pittura come negli altri campi, si espresse in modo eterogeneo, dando luogo ad una tale fioritura di stili e di forme espressive, da rendere particolarmente complessa una definizione di n. In senso lato, lo si potrebbe comunque definire come un aspetto di quello storicismo che indusse i pittori della fine del XVIII sec. e del XIX sec. a ricostruire lo spirito del mondo antico, i costumi e le decorazioni con precisione archeologica crescente. Tuttavia la maggior parte dei pittori che mostrarono interesse per il mondo greco-romano erano attratti anche da altri stili o periodi storici e illustravano scene riprese non soltanto da Omero, Eschilo, Tito Livio o Plutarco, ma anche dalla storia o dalla letteratura del Medioevo o del rinascimento, e persino dalle biografie di eroi contemporanei, come quelle di James Wolfe, Marat o Napoleone.
Dal 1760 al 1770, la pittura neoclassica tende ad identificarsi con le correnti estetiche riformatrici che avversavano il dominante stile rococò, e con gli studi sull’arte classica, stimolati sia dagli scavi archeologici di Ercolano e Pompei, che dagli scritti di J. J. Winckelmann. Roma fu un centro particolarmente attivo della riforma neoclassica, poiché proprio qui ebbero modo di incontrarsi e studiare artisti e intellettuali provenienti da tutta Europa, convinti della necessità di un soggiorno nella capitale pontificia per comprendere appieno l’antichità e l’arte italiana di ispirazione classica. Lo stile del tedesco Anton Raphael Mengs, pittore e studioso di estetica, è particolarmente significativo, perché rifiuta il rococò, prevalente a Dresda, sua città natale, per adottare, almeno nelle intenzioni, lo stile dei pittori di storia più antichi, che potevano offrirgli lezioni di sobrietà e di solidità. Il suo affresco del Parnaso, che orna un soffitto di Villa Albani (1761), combina fonti d’ispirazione svariate come l’Apollo del Belvedere, una colonna dorica greca, Raffaello e la pittura bolognese del XVII sec. In qualche misura si può riscontrare, nell’arte di Mengs come del suo contemporaneo Batoni, l’ultima affermazione di quella tendenza che privilegiava la chiarezza della struttura e del disegno ancora viva nella pittura del XVIII sec., soprattutto in quella ispirata dalla tradizione bolognese.
Di orientamento più definito appare la produzione neoclassica di pittori giunti a Roma da paesi più remoti, soprattutto dalle regioni anglo-americane: Benjamin West, proveniente dalle colonie d’America; Gavin Hamilton, scozzese; Nathaniel Dance, di Londra.
Formatisi su una tradizione pittorica relativamente poco rigida, questi artisti, che il rococò non aveva troppo influenzato, erano particolarmente disponibili ad assimilare rapidamente i principi realistici di base del n, come la ripresa scrupolosa dei dati archeologici e architettonici necessari per una ricostituzione esatta delle scene romane o greche. Inoltre la loro eredità puritana li conduceva a trascurare i temi erotici cari al XVIII sec. a favore di soggetti tratti dall’antico con finalità edificanti e moraleggianti come la prestazione di giuramenti di fedeltà, la morte dell’eroe o lo stoico sacrificio di sé.
Negli anni Sessanta del Settecento Gavin Hamilton, archeologo egli stesso e mercante di antichità, illustrava non soltanto una serie di scene di battaglia e di lutto tratte dall’Iliade, ma anche da Tito Livio, Lucrezia che si dà la morte e Bruto che giura di vendicarsi (Londra, Drury Lane Theatre), scene che univano alla tragedia patetica un virile patriottismo. In modo molto caratteristico, il suo stile, come quello di Dance, il quale illustrò temi romani eroici come la Morte di Virginia (1761), è incline a combinare motivi compositivi di tendenza classica nella tradizione di Poussin e di Le Brun con la nuova cura del dettaglio archeologico. Quanto a West, egli approfondiva ulteriormente la cura dell’esattezza storica in opere neoclassiche precoci come Agrippina dinanzi alle ceneri di Germanico (1768: New Haven, Conn., Yale University Art Gal.). Qui i temi romani delle prediche in processione e della vedovanza virtuosa si ispirano direttamente alla scultura (decorazione dell’Ara Pacis) e all’architettura dell’epoca (le coeve pubblicazioni di Robert Adam sul palazzo di Diocleziano a Spalato). Impegno storico analogo, ma ricco di implicazioni innovative, quello che guidò West nel 1770 nella ricostituzione di una scena di storia contemporanea, in abiti moderni (la Morte del generale Wolfe a Quebec: Ottawa, ng), che costituisce un precedente importante per David nell’illustrare le gesta e la morte dei martiri della Rivoluzione francese.
Lo stile di queste prime opere neoclassiche anglo-americane è generalmente in armonia con la sobrietà e il rigore della cultura greco-romana; i soggetti venivano inseriti in ampie
composizioni architettoniche per assi ortogonali, secondo lo schema degli antichi bassorilievi. In quest’ottica, i drammi domestici dipinti negli anni Sessanta del Settecento da Greuze, lodato da Diderot, possono anch’essi ricollegarsi al n, almeno per quel loro ispirarsi alla gestualità della statuaria classica mimetizzata in ambientazioni borghesi; ma poi, quando affronta temi antichi come nel Settimio Severo e Caracalla, destinato al Salon del 1769 (Parigi, Louvre), si limita in realtà a ripetere uno dei suoi aneddoti favoriti sull’ingratitudine filiale utilizzando l’apparato classico e il travestimento archeologico opportuno.
Non sempre comunque l’assunzione di tematiche esemplari sulla virtù e sull’eroismo corrisponde al nuovo stile; non è raro infatti trovare dipinti ancora chiaramente inseriti in una cultura rococò, ma dedicati a soggetti moraleggianti tratti dalle storie di Plutarco o di Tito Livio. D’altra parte, paradossalmente, l’adozione di uno stile lineare, austero e statico, ispirato agli affreschi, ai vasi ed alle sculture antiche non significava sempre il rifiuto dell’iconografia rococò. Infatti negli anni Sessanta del Settecento si sviluppa una sorta di «pseudo-classicismo», o «rococò classico», che perpetua i temi erotici ed edonistici dell’inizio del XVIII sec. adattandoli al nuovo gusto.
Tale fusione tra fonti archeologiche classiche e inclinazione rococò per le allegorie e le scene mitologiche erotiche persistette attraverso tutta la storia della pittura neoclassica, come corrente frivola e voluttuosa, contrapposta all’interpretazione grave e stoica dello stile e dei soggetti antichi. Il maestro di David, J. M. Vien, incarna questa tendenza con opere come la celebre Venditrice di amorini (Salon del 1763, Fontainebleau): ispirata direttamente ad una pittura murale romana eseguita nello stile di un bassorilievo e scoperta a Stabia, presso Ercolano, combina la chiarezza delle linee e della composizione neoclassiche con la sensualità di un tema vicino ai repertori di un Boucher o di un Fragonard. Quando Mme du Barry rifiutò la serie dipinta da Fragonard sui Progressi dell’amore per il suo padiglione di Louveciennes, chiedendo a Vien di illustrare il medesimo tema erotico, esprimeva preferenza per un mutamento di stile, non di soggetto. Questo tipo di pannelli decorativi ebbe particolare fortuna intorno agli anni Settanta del XVIII sec. perché si adattava perfettamente sia all’architettura Luigi XVI, di una fragile eleganza, che allo stile introdotto da Adam in Inghilterra.
Fu una donna, la pittrice svizzera Angelika Kauffmann, a dar vita nel modo più felice a questa tendenza artistica. I suoi numerosi pannelli e fregi destinati alle dimore private inglesi, ed in particolare a quelle edificate da Adam, avvolgono in un’aura anticheggiante e soffusa gli ambienti cui erano destinate.
Neoclassicismo e preromanticismo
Benché il n sia stato generalmente considerato l’antitesi del romanticismo, interpretazioni storiche più accorte hanno recentemente scorto in questa rievocazione nostalgica di una civiltà perduta una fase del movimento romantico, più che un’opposizione ad esso. Già dagli anni Settanta del Settecento, decennio dello Sturm und Drang tedesco e di altre precoci manifestazioni del romanticismo, numerosi artisti dell’Europa settentrionale utilizzano l’arte e le fonti letterarie classiche per realizzare pitture o disegni il cui carattere appassionato, terrificante o bizzarro, raggiunge toni parossistici. Questa tendenza è particolarmente ben rappresentata dall’artista svizzero Heinrich Füssli, personalità di grande cultura, traduttore di Winckelmann, attento al mondo «romantico» di Shakespeare e della mitologia nordica. I soggetti classici che Füssli sceglie sono assai lontani dal repertorio eroico o rococò della maggior parte dei pittori neoclassici francesi e italiani; l’artista è particolarmente attratto dai soggetti scaturiti da un’immaginazione visionaria o da una torbida sensualità. La sua interpretazione della scultura e della pittura classica fa emergere qualità di energia sovrumana o di voluttà perversa che non sono prive di rapporti con i manieristi italiani.
La potenza evocativa nella messa in scena di elementi fantastici e torbidi si riscontra in altri artisti della generazione di Füssli, come l’irlandese James Barry, l’inglese John Hamilton Mortimer e il danese Nicolai Abildgaard: questi, come Füssli, ricercano sia nell’antichità che nelle saghe nordiche coinvolgimenti irrazionali e manifestazioni del soprannaturale; pur nelle differenti sigle, lo stile di questi artisti tende ad accentuare le deformazioni grottesche dei personaggi e i macabri effetti di luce, in sintonia con la nuova estetica romantica del sublime. La complessità culturale degli anni in cui viene collocata comunemente l’esperienza neoclassica rende impossibile individuare un linguaggio n più autentico di altri.
Infatti dal punto di vista iconografico la pittura neoclassica presentava varietà non minore, poiché attingeva a un repertorio assai vasto, dai vasi arcaici greci alle sculture della Roma imperiale, da Michelangelo ai manieristi italiani a Salvator Rosa fino a Poussin, Le Brun alla tradizione bolognese. Comunque è possibile riconoscere nel pittore francese Jacques-Louis David un momento di sintesi delle molteplici esperienze intellettuali di questo periodo. La sua produzione figurativa costituisce un momento catalizzatore per l’intero n e un modello per la cultura che matura intorno a lui. Fu attraverso la sua geniale creatività che fu possibile operare una scelta decisa e netta tra le molteplici possibilità offerte dal n. Fu appunto questo il ruolo di Jacques-Louis David, allievo di Vien. Fino al primo soggiorno di David a Roma, come laureato Prix de Rome (1775-80), la sua arte rimase tributaria del rococò e in ritardo in rapporto ai canoni classicisti degli anni Sessanta e Settanta. Ma i suoi studi romani gli consentirono di rinnovare lo stile in ragione non soltanto di un maggiore entusiasmo per l’ideale di bellezza dell’arte classica, ma anche della sua intima conoscenza della pittura italiana del XVII sec. Avendo contemporaneamente assimilato il realismo e l’idealismo della scultura romana, la lezione naturalista di Caravaggio e quella classica dei Carracci, David fu in grado di rinvigorire le tendenze neoclassiche di artisti di livello minore come West e Hamilton, contribuendovi con una conoscenza approfondita dell’anatomia, un saldo senso della costruzione geometrica, e l’aura che si connette a un proposito altamente morale.
Negli anni Ottanta del Settecento, eguagliando per rigore di stile e per il carattere eroico dei temi, maestri come Jean-François-Pierre Peyron e Jean-Germain Drouais, David eseguì una serie di capolavori che fecero di lui, sul piano internazionale, il propagatore di una nuova fede, estetica e morale, nell’antichità. Il Giuramento degli Orazi, eseguito ed esposto in un primo tempo a Roma, poi a Parigi al Salon del 1785 (Parigi, Louvre), divenne così il manifesto del movimento neoclassico in pittura: l’opera combinava con forza l’eroismo di un tema romano (il giuramento di fedeltà alla patria) con uno stile rigorosamente controllato che sottolineava quest’ardente proclamazione di virtù civica. Esaltando i meriti di una forte volontà e il rigore di un ordine visuale, gli Orazi segnarono in Europa la fine dell’Ancien Régime in pittura, preannunciando quell’idealismo fervido che fa da sfondo intellettuale alla Rivoluzione. Così il n di David venne presto associato all’attività politica rivoluzionaria; i suoi drammi classici composti nel corso degli anni Ottanta, con uno spirito di venerazione per il patriottismo greco e romano e per il sacrificio di sé (Ettore, Socrate, Bruto) vennero rapidamente trasposti, negli anni Novanta, in una sacralizzazione degli eroi moderni, come Le Peletier de Saint-Fargeau, Marat e Bara. Il rigore stilistico inaugurato da David portò la ricerca del linguaggio a forme estreme di segno puro.
John Flaxman pubblicò negli anni Novanta originalissime illustrazioni per Omero ed Eschilo; esse si ispiravano alle linee purissime dei pittori di vasi greci che allora si collezionavano e che erano occasione di frequenti pubblicazioni. Riducendo il linguaggio pittorico alla purezza del tratto su un fondo bianco, le incisioni di Flaxman indicavano agli artisti quale dovesse essere il livello di azzeramento formale da cui avviare una ricostruzione del linguaggio moderno. Prendeva l’avvio da qui una sorta di primitivismo dagli esiti molteplici (William Blake, Philipp Otto Runge). Il tedesco Asmus Jakob Carstens, attivo a Roma negli anni Novanta, arriva ad uno stile di tale severità ed astrattezza, che giunge ad abbandonare persino la tecnica della pittura a olio per quella a tempera senza modellato, o per il semplice disegno al tratto.
Questa ricerca di uno stile sempre più arcaico caratterizzava anche l’ambiente erudito ed artistico raccolto attorno a Goethe, a Weimar, intorno al 1800; gli artisti, illustrando temi ripresi da Omero o ricostruendo pitture classiche perdute, usavano un linguaggio pittorico estremamente semplice, che si richiamava alle origini della civiltà classica.
All’inizio del XIX sec., la dottrina neoclassica intesa nel suo aspetto più radicale era egemone, e la maggior parte delle opere di quegli anni, dovute a italiani come Vincenzo Camuccini o a tedeschi come Gottlieb Schick, possono considerarsi il riflesso di stili e temi già ormai consacrati alla fine del XVIII sec. Ma la quantità e la qualità della produzione restarono privilegio di Parigi, il centro più importante e più fecondo del n, grazie a David e alle centinaia di giovani artisti venuti a lavorare nel suo studio da paesi remoti come la Spagna, la Danimarca, gli Stati Uniti o la Russia. Dopo le Sabine, lo stile dello stesso David si orientò verso un’interpretazione dell’antichità più manierata e preziosa, come dimostra l’eleganza leggera di ritratti quale quello di Madame Récamier (1800: Parigi, Louvre). Tale tendenza al preziosismo si accentuò negli allievi di David, che a loro volta abbandonarono il genere bellicoso e virtuoso degli anni della Rivoluzione e tramutarono i principi davidiani in uno stile raffinato e sofisticato donde spesso si sprigionava un’aura romantica.
Già al Salon del 1793 l’Endimione di Anne-Louis Girodet-Trioson (Louvre) forniva una curiosa intepretazione di un tema classico come quello di Endimione, ripreso da un sarcofago, poiché assumeva come unica fonte di luce il riflesso lattiginoso della luna, e costruiva i personaggi con un modellato molle e sinuoso che, combinato con la qualità marmorea dei contorni, produce quell’impressione di gelido erotismo cosi frequente in tante pitture e sculture neoclassiche. Opere come l’Endimione appartengono a quel mondo segreto e lunare che si ritrova nella pittura di un contemporaneo di David che non fu, peraltro, tra i suoi allievi, Pierre-Paul Prud’hon: la sua arte graziosa e malinconica è stata alternativamente associata dal n e dal romanticismo, e il suo esempio dimostra fino a qual punto sia mobile la linea di demarcazione tra i due apparenti antagonisti.
Il crescente fascino esercitato dalle regioni remote e misteriose doveva introdurre nella cerchia davidiana temi di un esotico romanticismo. Ne è testimonianza la Morte di Atala (Salon del 1808: Parigi, Louvre), ispirata a Girodet dal patetico racconto di Chateaubriand che narrava la vita dei cristiani presso gli Indiani d’America; ed anche la Cartagine dall’orientalismo pieno di languore evocata in Didone ed Enea (Salon del 1817: Parigi, Louvre) di Pierre-Narcisse Guérin, allievo di Jean-Baptiste Regnault, principale rivale di David. Gli sforzi di David per depurare lo stile e raggiungere la semplicità greca ebbero un’eco intorno al 1800 e in modo abbastanza stravagante, presso i suoi allievi più ribelli e
più giovani, chiamati «Primitivi» o «Barbus»; guidati da Maurice Quaï, essi portarono alle estreme conseguenze la vocazione al primitivismo accettando, almeno in teoria, le forme più arcaiche attestate dalle arti e dalle lettere greche. La loro concezione radicale si ritrova, a distanza, nell’arte di F. Gérard, il cui Amore e Psiche (Salon del 1798: Parigi, Louvre) presenta stilizzazioni manierate, superfici lisce e smaltate nelle anatomie proprie della pittura neoclassica; e soprattutto nell’opera di J. A. D. Ingres, i cui primi dipinti, Venere ferita da Diomede (1802 ca.: conservato a Basilea) e Giove e Teti (1811: Aix en-Provence, Museo Granet) si ispirano alle immagini piatte e lineari di Flaxman e dei vasi greci, ma a tali fonti aggiungono una mistura di sensualità e di precisione di dettagli che si trasporrà facilmente nel mondo romantico delle sue odalische e delle sue bagnanti orientali. Nell’arte di Ingres, le premesse di David, astrattismo e realismo, vengono ampiamente utilizzate e superate. Erede della dottrina idealista di David fino ad età avanzata, Ingres fu il più saldo difensore dei principi neoclassici nei due primi terzi del XIX sec., contrapponendosi ostinatamente alle emergenti forze del romanticismo, il cui apogeo si colloca dopo il 1820, col giovane Delacroix. Dall’Apoteosi di Omero (Parigi, Louvre), messa al Salon del 1827 a confronto col Sardanapalo di Delacroix (ivi), fino alla pittura murale l’Età dell’oro del castello di Dampierre (1843-47), Ingres si sforzò di combattere la trasformazione intervenuta nell’arte dell’Ottocento e di contrapporvi la propria fede nell’ideale della bellezza classica, perseguita attraverso uno studio minuzioso delle fonti iconografiche antiche, la preminenza del disegno sul colore e l’uso di composizioni chiare e simmetriche. Simili principi si irrigidirono inevitabilmente nelle mani di accademici di talento minore.
La vitalità del n si esaurì dopo il 1840, e le ulteriori interpretazioni del classicismo restarono nelle mani di pittori accademici e conservatori, che più tardi radicalizzeranno lo scontro con il movimento realista e impressionista. Personalità più o meno interessanti popolano comunque questo universo conchiuso nella ricerca di armonie lontane e sfuggenti. Si pensi alla grandezza muta e scultorea degli eroi e delle eroine greche del tedesco Anselm Feuerbach (Ifigenia, 1869: Stuttgart, sg), o alle visioni pallide e fragili dell’Arcadia classica nei gessosi affreschi di Puvis de Chavannes, oppure alle scene quasi pornografiche ove compaiono Veneri e ninfe, numerose nell’opera dei pittori popolari del salon come A. Cabanel e A. W. Bouguereau, o, infine, all’interpretazione aneddotica della vita quotidiana greca o romana, ricostituita con esattezza «cinematografica» da pittori come Gustave Boulanger o Jean-Léon Gérôme in Francia, o L. Alma-Tadema e Frederick Leighton in Inghilterra.