I parametri in base a cui si studia la sociolinguistica sono cinque:
A) La varietà diamesica
La diamesia considera il mezzo fisico con cui la lingua è usata; la dicotomia fondamentale dell’asse diamesico è tra scritto e parlato, ma ricordare che c’è scritto e scritto e parlato e parlato: la differenza fondamentale è la maggiore o minore pianificazione, alle interruzioni e ai ripensamenti del parlato corrisponde nello scritto una più accurata pianificazione precedente; nello scritto gli elementi prosodici del parlato, come pause o innalzamenti di tono, sono resi imperfettamente dalla punteggiatura; inoltre nel parlato sussistono elementi paralinguistici come gesti e distanza dell’interlocutore, che possono solo essere descritti come avviene nei romanzi. Tuttavia la dicotomia è imperfetta, può esservi un parlato che si basa su una traccia scritta, nel caso di lezioni universitarie e notizie lette dai giornalisti in tele, o un testo scritto che imita il parlato, il copione recitato dagli attori.
B) La varietà diastratica
La diastratia è la variazione riguardante lo strato sociale del parlante, condizione difficile da determinare e valutata secondo vari parametri: censo, istruzione, attività lavorativa intellettuale o manuale, ma possono non essere attendibili (Antonio di Pietro li scardina tutti). Esistono vari tipi di italiano parlato distinti dal fattore diastratico: italiano standard o vicino allo standard (il nostro), italiano più lontano dallo standard i cui caratteri sono l’uso del pronome all’accusativo come soggetto e frequenza dell’indicativo dopo i verba putandi, e italiano popolare, usato dalle classi più umili e con caratteristiche censurate socialmente come l’uso del ci come pronome al dativo. Vi sono differenze seppur lievi tra italiano degli uomini e delle donne (maggior controllo dell’uso di termini volgari da parte delle donne), e ora è aperto il problema dell’italiano degli immigrati.
C) La varietà diafasica
La diafasia è la variazione relativa alla situazione comunicativa: distingue registro aulico, colloquiale, dimesso che variano a seconda della situazione o dell’interlocutore o dell’argomento; la differenza dalla diastratia è che la lingua di una persona non può mutare a livello di condizione sociale, ma può mutare il registro linguistico.
D) La varietà diacronica
La diacronia considera l’evoluzione della lingua nel tempo; l’evoluzione di fonetica, morfologia e sintassi avviene nel corso di epoche molto estese, il mutamento del lessico è più frequente, talvolta da una generazione all’altra, in particolare nel linguaggio giovanile; alcuni termini che esso utilizza sono effimeri (torpedone) mentre altri entrano nell’uso in modo duraturo (stare in campana), non sono rari passaggi semantici e nuove accezioni.
E) La varietà diatopica
La diatopia considera la variazione della lingua rispetto al luogo in cui è parlata, macroluogo o microluogo, l’intero Nord Italia o le singole realtà cittadine. In Italia coesistono italiano e dialetto tra i parlanti ad eccezione di Milano ed in parte Roma; secondo statistiche recenti il 50% dei parlanti è in grado di utilizzare il dialetto e l’italiano, e sceglie l’uno o l’altro a seconda della situazione (distinzione diafasica), il 2,5% circa è in grado di parlare solo dialetto, mentre il restante 48% circa utilizza solo l’italiano. Si preannuncia spesso la scomparsa dei dialetti perché alla fine della seconda guerra mondiale i parlanti solo italiano erano il 18%, ma in realtà i dialetti resistono soprattutto nelle situazioni informali. I dialetti non sono varianti dell’italiano ma lingue diverse da esso, molto variamente distribuite nel territorio: si differenzia il lessico, le parole usate nelle varie aree derivano da basi diverse tanto che non risulta trasparente il loro significato né il rapporto con i sinonimi dell’italiano standard a chi non parli quel dialetto; variazioni significative si hanno anche in aree non molto distanti.
– Italiano standard cièco (da caecum): Italia del Sud cecato, siciliano órbu, piemontese órgnu, sardo tòrpu (da orbum).
– Italiano standard culla: romagnolo cùndla, Marche del Nord cùna, Abruzzo del Sud cónnələ, Abruzzo del Nord nanna.
Cambiano anche le strutture sintattiche: ad esempio nel territorio italiano vi sono due usi sintattici degli avverbi sempre, mai, già: in italiano standard e in molti dialetti ricorrono dopo il primo verbo declinato, in dialetto triestino ricorrono prima, così come nel dialetto umbro pur molto simile alla varietà toscana e all’italiano standard. Esistono anche tre tipi di negazione: in italiano standard e nei dialetti del centro-sud, veneto, ligure, sardo e friulano si ha un solo elemento di negazione che precede il verbo; in alcuni dialetti parlati in Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna si ha una negazione preverbale rafforzata obbligatoriamente da una particella; in altri dialetti della stessa area tra cui il milanese la negazione è postverbale.
I dialetti italiani si dividono in tre macroaree: settentrionali, al di sopra della linea La Spezia-Rimini, isolati dal resto d’Italia dagli Appennini che interrompevano le comunicazioni; centro-meridionali, in cui quelli del centro e del Sud sono separati dalla linea, meno marcata, Ancona-Roma.
Sono possibili classificazioni più precise, in ambito settentrionale distinzione tra dialetti veneti e gallo-italici (di Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna); in Toscana vi sono la varietà occidentale (Pisa, Lucca), meridionale (Siena), orientale (Arezzo) e anche i dialetti della Corsica sono di tipo toscano; una fascia centrale comprende Lazio settentrionale, parte dell’Umbria e Marche; più a Sud si parlano dialetti napoletani, Lazio meridionale, Campania, Abruzzi, Puglia settentrionale e parte della Lucania; infine vi sono dialetti di tipo siciliano parlati nel Salento, Calabria meridionale e Sicilia. Si classificano a parte come isole alloglotte Sardegna e Friuli.
Il rapporto tra italiano e dialetto è molto complesso, i parlanti non scelgono o l’italiano o il dialetto ma svariate sono le contaminazioni tra essi, e si parla perciò di italiani regionali: possono esserci espressioni in italiano ma con alcuni tratti dialettali, e tra i due estremi i passaggi intermedi sono numerosi. Anche in questo caso la motivazione è diafasica, o giocata all’interno della diatopia (ad esempio tra un napoletano e un campano di altra zona, con cui il primo usa un dialetto edulcorato). Poiché i dialetti sono lingue a tutti gli effetti, si applicano ad essi le stesse variabili dell’italiano e non possono essere considerati come unità immobili: esistono al loro interno diversi livelli di formalità (variazione diafasica) e sono soggetti ad evoluzione. I dialetti, anche se non sempre si distinguono dall’italiano, interagiscono in modo produttivo con esso, tanto che molte parole dialettali sono entrate a pieno titolo nell’italiano, cioè sono comprese da qualunque parlante: per dire ragazzo si usano toso dal veneto, guaglione dal napoletano, picciotto dal siciliano; abbiamo poi pennichella dal romanesco ecc.
Le differenziazioni nell’uso dell’italiano sul territorio riguardano oltre al lessico la fonetica, la morfologia e la sintassi.
– In fonetica una distinzione importante è tra uso di E ed O aperte e chiuse, nell’italiano standard vi sono coppie minime distinte da questi fonemi, non trasparenti in alcune parlate. In Sicilia le vocali sono tutte pronunciate aperte, in alcune regioni della Sardegna soltanto chiuse; a Torino la O si pronuncia solo aperta, in Lombardia O aperta e chiusa si distinguono quasi come nell’italiano standard, E chiusa ed E aperta in base ad altri criteri: davanti a nasale E è solitamente chiusa, in sillaba chiusa con consonante non nasale e in fine di parola è solitamente aperta. Si riscontrano differenze in queste vocali anche tra la parlata fiorentina e quella romana, nonostante entrambe siano vicine all’italiano standard.
– L’apocope vocalica è più frequente al Nord che al Sud.
– In morfosintassi nell’italiano settentrionale si usa solo il passato prossimo e mai il passato remoto.
– Nell’italiano settentrionale e toscano si può sentire in alcune situazioni informali il pronome personale all’accusativo come soggetto.
– Nell’italiano meridionale è diffuso l’accusativo preposizionale.
– Nel toscano si usa il SI per la quarta persona.
Quella più consistente è la variazione lessicale, che si è ridotta negli ultimi anni ma resiste specialmente negli oggetti di uso quotidiano e nelle nozioni comuni.
Questo rapporto tra italiano e dialetti nella nostra penisola è stato variamente sfruttato, specialmente nel cinema: in particolare i registi del neorealismo, interessati a ritrarre la realtà sociale dell’epoca, ricorrevano all’uso del dialetto allora diffusissimo; tra gli altri Rossellini in Paisà scandisce l’ascesa degli americani dalla Sicilia verso il Nord Italia attraverso i dialetti delle persone che incontrano. Ma anche in seguito i dialetti vennero usati nel cinema con una funzione connotativa, ad esempio in Fellini: Amarcord in romagnolo significa Mi ricordo, e il regista gioca sui sensi che la parola evoca ai non nativi del luogo.