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La lettura è un’attività molto complessa, ricca di aspetti che emergono progressivamente nel corso delle varie fasi dello sviluppo psicologico. Potremmo distinguere tre fasi: quella che precede il momento in cui il bambino viene avviato alla decifrazione di un testo scritto, quella che corrisponde all’apprendimento “strumentale” della lettura, e infine quella, su cui mi soffermerò più a lungo, che dovrebbe avere inizio quando la tecnica del leggere è ormai diventata un automatismo e la lettura diviene per il ragazzo uno strumento da utilizzare agevolmente per soddisfare certi bisogni di crescita tipici della sua età.
La lettura del mondo
Vediamo brevemente le prime due fasi. Già dal secondo anno il bambino compie esperienze di “lettura” nel senso più ampio del termine, nel senso cioè della lettura di oggetti, ambienti, immagini, attivando alcuni processi psicologici simili a quelli che caratterizzeranno la lettura di un testo stampato. Nella lettura di un’immagine, un bambino di quattro o cinque anni parte da un’impressione d’insieme (per esempio, un paesaggio di campagna); sviluppa un’analisi notando via via i diversi elementi che essa contiene (un viaggio, una strada, dei campi, degli alberi, degli animali, un castello su una collina, lungo la strada una carrozza in viaggio, e molto avanti a questa un gatto in corsa con degli stivali ai piedi); infine compie (o meglio, può compiere, se esistono già in lui certe conoscenze) una sintesi, dando al tutto un significato unitario diverso da quello iniziale, riconoscendo cioè nell’illustrazione una scena di una fiaba che ha sentito raccontare.
Un processo psicologico analogo (più altri, naturalmente, che ad esso si aggiungono) resta presente anche nella seconda fase quando, fra i cinque e i sette anni, egli viene introdotto alla lettura di un testo scritto. Anche qui la prima percezione è solo globale: una pagina con tante file di parole; anche in questo caso il bambino segue un’analisi che consiste nell’identificare (questa volta secondo un processo esplorativo fisso) i singoli elementi, nello scoprire cioè il significato delle singole parole. E avviene anche adesso un processo di sintesi, che risulta completo solo alla fine, quando il senso del brano appare del tutto chiaro.
Ci sono, certo, molti altri elementi di novità (i quali, se presentati tutti insieme e senza la necessaria gradualità, possono rendere al bambino la lettura di un testo un’esperienza difficile, ingrata, assai meno piacevole della lettura di un’immagine): la visione di una pagina stampata, all’inizio, gli comunica molto meno di quanto possa fare un’illustrazione; le parole sono, da un punto di vista visivo, assai più omogenee fra loro di quanto lo siano gli elementi di un’immagine. La scoperta del significato delle singole parole, poi, richiede un meccanismo più complesso di quello che riguarda le immagini, nel senso che, mentre queste ultime rimandano direttamente al loro significato, le parole vanno invece “decifrate” (inizialmente almeno, e in ogni caso anche in seguito quando si incontrano per la prima volta, o non siano comunque ancora divenute familiari). Occorre cioè scomporle in lettere, tradurre ciascuna lettera nel suono corrispondente e pronunciare poi in successione i suoni identificati, così che ne risulti la struttura sonora della parola, l’unica che rimanda al significato.
Questa fase dell’apprendimento strumentale della lettura di un testo scritto può durare a lungo: da un lato, l’attività di “decifrazione” (sempre necessaria per ogni parola nuova) richiede tempo per automatizzarsi; dall’altro, solo gradualmente essa si rende superflua per tutte quelle parole che, presentandosi molto di frequente, hanno ormai assunto per il lettore una “fisionomia” tipica, inconfondibile, vengono cioè ormai lette “a prima vista”, proprio come “a prima vista” si riconosce il volto di una persona.
Solo a questo punto (solo, cioè, nel corso della scuola media, se le esperienze di lettura sono state numerose, se il patrimonio delle “forme-parola” riconoscibili d’acchito si è molto esteso, e se si è molto ampliato anche quello dei vocaboli di cui è noto il significato), potremmo parlare di “lettore maturo”.
Modelli di identificazione
Si presentano, allora, altri processi psicologici connessi con l’attività del leggere, che non erano certo assenti nel periodo precedente, ma che assumono in questa fase un rilievo ben maggiore in considerazione delle trasformazioni che si vanno verificando nel preadolescente. Riesaminiamone brevemente due, prendendo in considerazione pure due tipi di lettura: la narrativa e la divulgazione storica e scientifica.
Una delle “novità” dell’adolescenza consiste nel crescente rilievo che assume, per un ragazzo, l’elaborazione del proprio “senso di identità”, ovvero di una “idea di sé” organica e sufficientemente stabile. Un ragazzo comincia a interrogarsi sul significato della propria vita, si confronta assai più di prima con i coetanei o utilizza le reazioni del suo gruppo a ciò che dice o fa come elementi di autoriflessione, fa i conti col proprio passato, immagina di realizzarsi in un certo modo nel futuro. I fattori importanti in gioco, nell’elaborazione dell'”idea di sé”, sono il “giudizio della realtà” “il giudizio degli altri”e infine la presenza di “modelli” con i quali commisurarsi o nei quali identificarsi. E dove incontra i suoi modelli un preadolescente o un adolescente? In certi casi si tratta di persone che conosce direttamente (un insegnante, un coetaneo di particolare prestigio ecc.), in altri di personaggi dello sport, del cinema o della canzone. Ma in non pochi casi si tratta di personaggi incontrati nell’ambito della storia o in quello della letteratura. Opere di narrativa che presentano personaggi i quali, per la loro età, per le loro qualità, per le situazioni che devono affrontare, favoriscono processi di commisurazione e di identificazione possono avere una forte presa su un ragazzo, catturarne l’attenzione, rendere più saldo, se già esiste, il rapporto di amicizia col libro o favorirne lo sviluppo, se ancora tale rapporto non si era costituito.
Un paio di anni fa sono stato membro di una commissione giudicatrice di un concorso bandito dalla rivista “Millelibri” fra i ragazzi delle scuole medie superiori, che vennero invitati a indicare, attraverso un componimento, se c’era stato, e qual era stato, un “libro fatale”, ovvero un libro che aveva avuto su di loro una forte influenza. Ciò che soprattutto mi ha colpito, leggendo quei componimenti, è stato appunto il fatto che la motivazione più frequentemente addotta per giustificare la scelta era la presenza, nel libro, di qualche personaggio che «sembrava avere gli stessi problemi» o per il quale si provava molta «simpatia e ammirazione», insieme al «desiderio di essere come lui». In molti casi i personaggi erano più di uno, e nel lettore era attiva l’abitudine di pensare come loro, cercando di assumere le migliori qualità di ciascuno. In qualche caso la commisurazione e il tentativo di identificazione hanno avuto luogo non nei confronti di un personaggio di un libro, bensì nei confronti dell’autore del libro stesso.
Un’altra prova dell’importanza che ha il libro di narrativa nello sviluppo del senso di identità dei ragazzi è costituita dal tipo di domande che preadolescenti e adolescenti amano fare agli autori che hanno modo di incontrare dopo avere letto qualche loro libro. Ho compiuto più di una volta questa esperienza con i miei libri di narrativa. Una domanda che mi sono spesso sentito rivolgere, in relazione ad alcuni miei romanzi e racconti a sfondo autobiografico, riguardava quanto di vero e quanto di inventato ci fosse nella vicenda narrata.
Il pensiero complesso
Vi è, nella preadolescenza, un’altra “novità” importante che si riflette sulla lettura, e che riguarda questa volta soprattutto i libri di divulgazione storica e scientifica. Essa consiste nello sviluppo di quel tipo di pensiero indicato come “ipotetico-deduttivo” o anche “complesso”(1). Si tratta di un pensiero che utilizza largamente, nell’ambito di un ragionamento o nell’ascolto di una spiegazione, situazioni ipotetiche, giungendo a coordinarle fra loro, e potrebbe dunque anche essere indicato come “pensiero col doppio se”. Un esempio: “Se un bambino è su una giostra che ruota, e se il padre che sta a terra si muove anche lui, padre e figlio si incontreranno più spesso quando il padre si muove nel senso di rotazione della giostra o quanto si muove in senso contrario ad essa?”.
Col pensiero ipotetico-deduttivo si sviluppa anche la capacità di compiere, con un certo rigore, ragionamenti a carattere induttivo o deduttivo, e pertanto, anche un certo gusto della discussione e della dimostrazione. Si può presentare allora da parte dai ragazzi (e può fiorire, o spegnersi presto, a seconda che venga o no soddisfatto dagli insegnanti) anche un “interesse epistemico”. Non tutti i libri di divulgazione soddisfano questi interessi: solo quelli che non forniscono pure e semplici descrizioni ma che procedono ponendo dei quesiti, suggerendo le risposte, ma che soprattutto, tra questi problemi, lasciano largo spazio a quelli di tipo “epistemico” (“come si è fatto a saperlo? Come possiamo esserne sicuri?”). In fondo non è un caso che proprio nella preadolescenza si sviluppi l’interesse anche per un nuovo genere di narrativa, quella poliziesca, ove un detective, servendosi di pochi indizi e collegandoli mediante un ragionamento abile ma rigoroso, giunge a ricostruire le modalità con cui si è svolto un fatto o ad acquisire certezze che poi qualche prova cruciale dimostra essere ben fondate.
Note
(1) Per approfondimenti, si veda il capitolo V di G. Petter, Problemi psicologici della preadolescenza e dell’adolescenza, nuova edizione, La Nuova Italia, Firenze,1990 (n.d.r.).