Gli esordi dei cubismo: Picasso e Braque
«Quando abbiamo fatto del c, – ha detto Picasso, – non avevano la minima intenzione di fare del c, ma solo di esprimere ciò che era in noi». Chi in realtà avrebbe potuto prevedere l’importanza che avrebbe rivestito quel gruppo di cinque nudi femminili, poi noto col nome di Demoiselles d’Avignon (New York, moma), che Picasso decise di dipingere nel 1906, appena uscito dal suo «periodo rosa»? Come nella stesura definitiva, i corpi vennero dipinti in una prima fase a tinte piatte, quasi senza modellato; ma, durante l’inverno del 1906-1907, l’artista si propose bruscamente di suggerire il volume senza ricorrere al chiaroscuro tradizionale. A questo scopo, dopo molte prove, finí per sostituire le zone d’ombra con lunghi tratti paralleli di colore, almeno nel trattamento delle due figure di destra, poiché l’opera è rimasta parzialmente incompiuta. Il giovane pittore fauve Georges Braque, che Apollinaire aveva condotto da Picasso, ne rimase lui stesso di stucco. «Ma, con tutte le tue spiegazioni, – gli avrebbe detto, con la tua pittura è come se volessi farci mangiare stoppa o bere petrolio». Tuttavia non restò insensibile al problema posto e cercò di risolverlo lui stesso, in modo molto simile, nel grande Nudo che dipinse poco dopo, nell’inverno del 1907-1908 (Parigi, coll. priv.).
Molto si è parlato a proposito di queste opere dell’influsso che l’arte negra avrebbe esercitato sui due artisti, ed è certo che, nella scia di Vlaminck, Derain e Matisse – che conoscevano bene –, Picasso e Braque a loro volta si appassionarono per quest’arte, la cui libertà plastica li affascinava. Vi è una certa somiglianza d’aspetto tra alcune maschere negre e alcuni studi per le Demoiselles, Picasso e gli altri cubisti possedevano – come già fauves – opere d’arte negra. Numerosi confronti in questo senso sono stati proposti di recente (esposizione a New York: Primitivism and 2oth century art). È esatto infatti – e par difficile negarlo – che il problema risolto da Picasso era quello appunto di una nuova rappresentazione dei volumi su una superficie piana; ma esso era stato già posto in maniera acuta nelle opere di Cézanne, in particolare quelle dell’ultimo decennio della sua vita; ed è significativo, del resto, il fatto che la retrospettiva dedicata al maestro di Aix nell’ottobre 1907 dal Salon d’automne abbia costituito per i giovani fauves e futuri cubisti una vera e propria rivelazione.
La solidità delle forme di Cézanne, tanto contrastante con le caligini colorate dell’impressionismo, rispondeva infatti in anticipo alle loro stesse problematiche. Quanto Picasso e Braque soprattutto trassero dalla lezione del piú anziano pittore fu la volontà di restituire agli oggetti solidità e densità, che erano andate a poco a poco scomparendo nella ricerca troppo esclusiva di effetti di luce. Il primo nelle sue Nature (Filadelfia, am, coll. A. E. Gallatin) e nei Paesaggi della Rue-des-Bois (già coll. Gertrude Stein), il secondo nelle Vedute di l’Estaque (New York, moma; Berna, coll. Hermann Rupf), cercarono, nel 1908, di ritrovare soprattutto la forma durevole degli oggetti climinando i dettagli casuali e individuando la struttura nei solidi principali: poliedri, cilindri, coni.
Se ne è voluto trovare il motivo nella lettera di Cézanne a Emile Bernard del 15 aprile 1904 («Trattare la natura mediante il cilindro, la sfera, il cono…»), ma ciò significa dimenticare che qui l’autore parla pure di «far sentire l’aria», un’aria che è giustamente assente dalle loro opere, poiché i due artisti alzano la linea d’orizzonte e limitano il cubo scenografico in modo da eliminare ogni espressività atmosferica. L’illuminazione è ridotta a un chiaroscuro piú ideale che realistico, che modella i volumi senza tener conto dei riflessi o delle variazioni d’intensità della fonte luminosa. Quanto al colore, ben lungi dall’essere «nella sua ricchezza», viene provvisoriamente sacrificato all’espressione dei volumi. Quantunque questo procedimento sia già stato impiegato da Cézanne in alcune sue opere, l’introduzione nel 1909 di passaggi, vale a dire di leggere interruzioni della linea di contorno, accentuerà l’originalità del tentativo di Picasso e Braque. Per loro, infatti, non si tratta di «punti di contatto» tra rappresentazione lineare e rappresentazione cromatica, ma di un modo nuovo di attenuare gli effetti troppo continui d’ombra e di luce creati dal chiaroscuro lungo gli spigoli dei volumi. Per la stessa ragione, d’altronde, Picasso rompe i grandi volumi frammentandoli in una serie di volumi piú piccoli che gli consentono di far giocare a suo piacimento l’illuminazione degli oggetti rappresentati (Donna delle pere: Chicago, coll. Sarnuel A. Marx; Donna seduta: Parigi, mnam; Giovane ragazza nuda: Mosca, Museo Pu∫kin).
Lo studio dei volumi cede cosí progressivamente il posto a quello dei piani, che consente insieme di rispettare meglio la verità dell’oggetto e di limitare notevolmente il chiaroscuro, ma il trapasso dall’una all’altra tecnica avviene in modo puramente sperimentale e per approssimazioni successive.
Il cubismo analitico
Nel 1910 Picasso e Braque consumano la rottura con la visione classica in vigore da oltre quattro secoli. Abbandonando definitivamente l’unicità del punto di vista della prospettiva albertiana, moltiplicano gli angoli di visione degli oggetti in modo da darne una rappresentazione nuova, piú completa e piú ragionata. Di fatto appunto il ruolo sempre piú preponderante conferito ai piani mediante l’esplosione del volume diede loro l’idea di liberarsi totalmente dalla prospettiva. Quest’indipendenza dei piani in relazione al volume potenziale da cui venivano astratti sfociava, lo si deve riconoscere, in un ermetismo che difficilmente consentiva allo spettatore di ricomporre mentalmente gli oggetti cosí descritti. Assegnare il giusto posto alle loro linee di contorno rispetto alle linee figuranti entro il limite del piano non era sempre facile, tanto piú che il colore non forniva alcuna indicazione in merito. Applicato sulla tela a piccoli tocchi arrotondati o per sfregamento, esso si limitava a camaïeux di ocra o di grigio che conferivano al quadro grande luminosità, ma non esprimevano piú il colore reale degli oggetti. Gradatamente quest’ermetismo si ridurrà, è vero, a mano a mano che i due pittori diverranno più padroni della loro tecnica e saranno abbastanza sicuri di sé da trascurare ogni modello e da comporre direttamente partendo dalle proprie immagini concettuali. Infatti, da questo momento, non cercheranno piú di staccare i piani dal loro ambiente naturale, ma presenteranno soltanto gli aspetti piú significativi degli oggetti considerati.
Una bottiglia, ad esempio, potrà rappresentarsi mediante la sua sezione verticale e la sua sezione orizzontale allo scopo di esprimerne nel contempo il profilo e la rotondità. Talvolta persino basterà un aspetto solo, come per il ventaglio dell’Indépendant (1911: Filadelfia, coll. Harry Clifford). Alcuni dettagli infine possono servire come stimoli: la presenza delle chiavi, delle orecchie o del manico di un violino «suggeriscono» necessariamente un violino. Un simile sistema di rappresentazione doveva fatalmente comportare conseguenze importanti sul piano spaziale. Il volume infatti esiste ancora allo stato potenziale, poiché le linee di contorno di un bicchiere, ad esempio, ne esprimono la forma cilindrica; ma si tratta di un volume svuotato della sua sostanza, immateriale, trasparente. Nulla vieta piú, dunque, di scorgere attraverso di esso un altro oggetto. I piani, di conseguenza, si scaglioneranno in funzione della posizione che loro assegnerà il pittore in seno ad uno spazio che perde la sua omogeneità e la sua isotropia. Per ragioni consimili, il colore non può piú coincidere con la forma. Si presenta in generale separato, spesso sotto forma di schegge di materiali: di falso legno, ad esempio.
I «papiers collés»
Nel medesimo spirito vennero impiegati i papiers collés. Piuttosto che imitare la materia dell’oggetto, non era meglio incollare direttamente sulla tela carte dipinte che la imitassero, e alle quali i procedimenti meccanici conferivano una finitezza difficilmente uguagliabile? Cosí, carte che riproducevano il legno, il marmo, le impagliature, le tappezzerie vennero incollate o semplicemente spillate sulle opere; e, in seguito, pezzi di giornale, scatole di fiammiferi, francobolli postali o biglietti di visita. Al limite, un titolo di giornale bastava cosí a rappresentare un giornale. Ma queste carte creavano pure rapporti spaziali nuovi, consentendo, col gioco delle tonalità, di far avanzare o arretrare certi piani. Erano infine, per la loro stessa natura, equivalenti di oggetti che né le variazioni atmosferiche, né l’illuminazione potevano alterare, e che restavano perciò identici a se stessi. E quest’identità, questa permanenza erano importantissime, poiché i cubisti non intendevano rappresentare un oggetto specifico qualsiasi, ma un oggetto tipico, i cui attributi potessero trovarsi in ciascuna delle sue individuazioni. Si trattava pertanto, come si vede, di un’arte che non era piú imitativa nel senso tradizionale del termine, ma che restava risolutamente realistica. E, in questo senso, non sembra esagerato affermare che il c si presenta come una vera e propria epistemologia.
I nuovi adepti
Pochissime persone, e persino pochissimi artisti, compresero allora l’interesse e il significato di queste ricerche. Altri pittori però dovevano accettare abbastanza presto il nuovo linguaggio e impegnarsi totalmente, senza problemi di falsa originalità, sulla strada già aperta. Poverissimo, Juan Gris aveva sulle prime dovuto lavorare per giornali illustrati. Quando nel 1911 poté infine dipingere a suo piacimento, cominciò con l’affrontare il problema degli effetti della luce sugli oggetti o i corpi, poi si avviò, nel 1912, nella direzione di un sistema di costruzione nel quale raggi luminosi obliqui e paralleli fanno nascere forme rigide e depurate. Verso la metà del 1912 adottò infine, secondo la sua stessa espressione, il c «analitico», ma adattandolo alle proprie problematiche. Cosí, pur assoggettandosi al principio della moltiplicazione degli angoli visuali, lascia un carattere di plausibilità visiva a ciascuno dei vari aspetti di un oggetto e impiega colori freschi e vivi, indipendenti dal «tono locale», che egli rende sin dalla fine del 1912 mediante l’introduzione di frammenti di materie diverse – legno, marmo, tappezzeria, specchio – sia imitati (le Tre carte, 1913: Berna, coll. Hermann Rupf; Violino e incisione, 1913: New York, moma; Violino e chitarra, 1913: coll. Ralph F. Colin), sia incollati (Lavabo, 1912: Parigi, coll. Noailles). A portare Gris al c era stato l’influsso di Picasso; a portarvi Louis Marcoussis fu quello di Braque. Egli si mostrò tuttavia meno originale di Gris, in ogni caso piú «ortodosso». Presentatosi nel 1912 con una serie di incisioni (Ritratti di M. Grabowski, 1911, e di M. Gazanion, 1911-12; la Bella Martinicana, 1911-12), il suo periodo analitico si conforma interamente alla tecnica di Picasso e di Braque. Bar del porto (1913: Parigi, eredi Marcoussis) è di fattura piú indipendente; ma il punto culminante della sua produzione dell’anteguerra è probabilmente il Musicista (1914: Washington, ng, Coll. Chester Dale), dove già si scorge quel carattere poetico molto piú personale che si svilupperà nella sua opera dopo il 1920.
Il cubismo sintetico
L’anno 1913 segna una svolta importante nella storia del c. Non è la tecnica, questa volta, che viene rimessa in questione, ma il modo di concepire il rapporto tra soggetto e oggetto, in una parola il metodo. Nel 1910 si trattava d’instaurare una visione inedita del mondo forgiando nuovi mezzi espressivi; oggi si tratta di una speculazione piú intellettuale, che riguarda il modo in cui il pittore prende coscienza degli oggetti che rappresenta. Il passaggio si compie d’altra parte senza alcuna rudezza. Il c analitico aveva sacrificato pericolosamente, lo si deve dire, l’unità dell’oggetto alla sua veridicità. In altri termini, ne dava un’immagine piú fedele e completa, ma ne aveva rotto l’omogeneità. Fu ancora una volta Picasso a comprenderlo per primo. Fino a quel momento, infatti, egli effettuava una specie di cernita mentale delle qualità dell’oggetto poggiando sulla costanza delle esperienze effettuate. Ora, nel corso del 1913, si accorse che non era necessario osservare gli oggetti per riprodurli e che poteva ugualmente, e anzi meglio, fissarne gli attributi essenziali in un’immagine a priori, a condizione che essa fosse emersa da una comprensione chiara e logica della loro specificità. Da allora, si eleverà intuitivamente fino all’essenza per determinare i caratteri necessari di un oggetto, quelli che ne condizionano la stessa esistenza e senza i quali esso non sarebbe affatto ciò che è, per riunire tali attributi in un’unica immagine, che ne sia in qualche modo l’essenza plastica. L’immagine cosí ottenuta conterrà dunque in potenza tutte le possibili individuazioni di quell’oggetto. Per dare un solo esempio: il bicchiere (1914: già coll. Gertrude Stein) non è piú la riunione eterogenea di frammenti di linee di contorno, ma l’equivalente plastico dell’essenza di un bicchiere, vale a dire di un bicchiere spogliato di qualsiasi dettaglio accidentale e ridotto all’essenziale. Il colore, essendo soltanto un attributo variabile, si fa di conseguenza indipendente dall’oggetto e viene cosí liberato dalle servitú del «tono locale». Dopo la grisaille dell’epoca analitica, un’opera come la Bouteille de Suze (1913: Saint Louis Mo., Washington University) sembra, con la sua etichetta rossa e i suoi azzurri vivi, una vera e propria festa degli occhi.
Quanto alle carte incollate, non scompaiono, ma divengono sempre piú mezzi di espressione spaziale. L’evoluzione di Braque fu, da questo punto di vista, piú lenta di quella di Picasso. Nel 1913, e persino all’inizio del 1914, anch’egli s’interessa delle possibilità spaziali dei papiers collés (Le Counier, 1913: Filadelfia, am, coll. A. E. Gallatin; Violetta di Parma, 1914: Londra, coll. Edward Hulton), ma generalmente conserva un certo spirito analitico. Tuttavia in alcune opere riduce a sua volta gli oggetti ai loro attributi permanenti, dandone immagini piú eterogenee di quelle di Picasso, ma di notevole purezza plastica e di grande interesse dal punto di vista spaziale (Clarinetto, 1913: New York, coll. priv.; Aria di Bach, 1913-14: Parigi, coll. priv.). Di rigore plastico non meno ammirevole, i papiers collés eseguiti da Gris nel 1914 danno inoltre prova di rare qualità d’armonia e di poesia in seno a un’architettura sempre piú salda e meticolosamente ordinata.
Gli espositori della sala 41 al Salon des indépendants del 1911
Se quella creata da Picasso e Braque, e seguita da Gris e da Marcoussis, può considerarsi, almeno per comodità, una sorta di ortodossia di riferimento e resta la prima manifestazione del c sul piano cronologico, è giusto dire che il c comprende storicamente tutta una serie di altre tendenze, talvolta contigue, talvolta anche, però, molto divergenti. Per un curioso paradosso non furono i suoi primi creatori a rivelare il c al grande pubblico, bensí altri pittori, che del resto ne erano stati per la maggior parte influenzati abbastanza ampiamente. Picasso e Braque infatti, cui premeva lavorare tranquillamente, esponevano le loro opere alla Gall. Kahnweiler, ancora poco nota in quell’epoca, e non partecipavano ai salons, che erano i soli ad attirare la folla degli appassionati. L’evento ebbe luogo al Salon des indépendants del 1911, nella sala 41, ove si trovarono riunite opere di Jean Metzinger, Albert Gleizes, Henri Le Fauconnier, Fernand Léger e Robert Delaunay. Benché tutte ugualmente provocassero scandalo – come quelle che questi stessi artisti (tranne Delaunay) dovevano presentare al Salon d’automne dello stesso anno –, erano frutto di esperienze spesso piuttosto diverse, ed erano ben lontane dal rivestire tutte lo stesso valore.
Dopo essere stato direttamente influenzato dal c analitico di Picasso (Nudo: Salon d’automne del 1910), Jean Metzinger praticò a partire dal 1911 un c piú vicino alle tematiche
affrontate da Cézanne, in cui domina un’analisi molto spinta dei volumi (Due nudi, 1910-11: coll. priv.; Merenda, 1911: Filadelfia, am, coll. Arensberg), prima di passare ad un’analisi del soggetto propriamente detto combinando molteplici angoli visuali all’interno di una sapiente composizione (l’Uccello azzurro, 1913: Parigi, mamv; Danzatrice al caffè, 1912: New York, coll. Sidney Janis; Bagnanti, 1913: Filadelfia, am). Il suo amico Albert Gleizes affrontò il c attraverso una fase cézanniana meno austera e uno stile piú figurativo (Albero, 1910: Parigi, coll. priv.; Caccia, 1911: Parigi, coll. Labouchère; Ritratto di Jacques Nayral, 1911: La Flèche, coll. del comandante G. Houot), ma attraversò una fase analitica piuttosto analoga che egli stesso definiva «un’analisi dell’immagine-soggetto e dello spettacolo-soggetto» (Bagnanti, 1912: Parigi, mamv; Uomo al balcone, 1912: Filadelfia, am, coll. Arensberg; Trebbiatura, 1912: New York, Guggenheim Museum; Ritratto di venditrice di fichi, 1913: Lione, mba; Donne che cuciono, 1913: Otterlo, Kröller-Müller). Spiritualmente vicino ad essi, Le Fauconnier s’interessò anche dello studio dei volumi, ma soprattutto in funzione della luce, creando una specie di impressionismo cubista molto personale (Ritratto di Paul Castiaux, 1910: Les Sables-d’Olonne, coll. Lauberton; l’Abbondanza, 1910-11: L’Aja, gm; Cacciatore, 1912: New York, moma).
Infinitamente piú originali tuttavia si rivelarono i contributi di Léger e di Delaunay. Per l’influsso profondo e decisivo di Cézanne, Léger cominciò col conferire un ruolo preponderante alla forma, e particolarmente ai volumi, come nella Cucitrice (Parigi, coll. priv.), o nei celebri Nudi nella foresta del 1909-10 (Otterlo, Kröller-Müller), di cui egli stesso diceva che «erano solo una battaglia di volumi». L’espressione non sembri esagerata, poiché, sconnettendoli con violenza, egli conferiva già alle sue opere un carattere risolutamente dinamico. Appunto questa volontà di dinamismo lo spinge, all’inizio del 1911, ad introdurre nelle sue tele i primi «contrasti di forme» (Nozze, 1910-11: Parigi, mnam; Fumatori, 1911: New York, Guggenheim Museum; Donna in blu, 1912: Basilea, km), che consistono ora nel contrapporre larghe zone piatte, generalmente senza significato realistico, ai volumi sconnessi dei personaggi o degli oggetti rappresentati.
Il colore, che sino ad allora era stato sacrificato alla forma, nel 1912 ricompare, annunciando l’evoluzione che Léger subirà nel 1913. «Quando ho avuto bene in mano il volume come lo volevo, – spiegava, – ho cominciato a collocare i colori». Ed infatti le sue opere del 1913 e del 1914 presentano tutte colori vivi e brillanti d’intenso dinamismo: Contrasti di forme (1913: Filadelfia, am, coll. Arensberg; e Berna, coll. Hermann Rupf), Lampada (1913; Chicago, coll. Leigh B. Block), Scala (1913: Zurigo, kh), Paesaggio (1914: Roubaix, coll. priv.), Donna in rosso e verde (1914: Parigi, mnam). Ma Léger non abbandona peraltro né i volumi né i puri contrasti tra forme, poiché per lui è l’equilibrio tra le linee, le forme e i colori ciò che crea uno stato d’intensità plastica massima, donde scaturisce il dinamismo indispensabile per qualsiasi rappresentazione del mondo moderno.
Di temperamento molto vicino a quello del suo amico Léger, Delaunay aveva anch’egli subito, sin dall’inizio del 1909, l’influsso di Cézanne (Autoritratto: Parigi, mnam; numerosi
Studi di fiori: Parigi, coll. Sonia Delaunay), ma ciò che ne orienterà l’evoluzione e conferirà al suo c un carattere potentemente originale è lo studio dell’azione della luce sulle forme. Nella serie di Saint-Séverin (1909-10: New York, Guggenheim Museum; Filadelfia, am; Minneapolis, Inst. of Arts) la luce curva le linee dei pilastri e spezza quelle della volta e del pavimento, mentre nella serie della Torre Eiffel (1909-11: New York, Guggenheim Museum; Basilea, km) essa rompe decisamente tutte le linee e separa i volumi in gruppi isolati che obbediscono a prospettive discordanti. Nella serie delle Città (1910-11: Parigi, mnam; New York, Guggenheim Museum), infine, essa produce una vera e propria dissoluzione delle forme. Tutte le ricerche di questo periodo, che Delaunay chiamava piú tardi «distruttivo», si trovano riunite nella sua immensa Città di Parigi (1910-12: Parigi, mnam), vasta sintesi che riassume tutte le esperienze precedenti e annuncia, nella parte centrale, la costruzione mediante il colore, che dall’inizio del 1912 diverrà il perno della sua opera, come piú innanzi vedremo.
Le tendenze moderate
Il c corrispondeva a un’esigenza generale di rinnovamento troppo profonda per non provocare una crisi di coscienza in molti giovani pittori desiderosi di liberarsi dalle antiche costrizioni senza peraltro aderire totalmente ai principi cubisti. È nota la frase di Braque: «Per me il c, o piuttosto il mio c, è un mezzo che ho creato per mio uso e il cui scopo fu soprattutto di mettere la pittura alla portata delle mie doti» (1924). Frase che si potrebbe, sembra, mettere ancor piú giustamente in bocca di Jacques Villon, di Roger de la Fresnaye o di André Lhote, che, non avendo creato il c come Braque, l’adattarono al proprio temperamento. Dopo aver praticato per molto tempo il disegno d’illustrazione, Villon cercava la sua strada quando suo fratello, Marcel Duchamp, gli rivelò il c. Giustamente desideroso di trovare una disciplina costruttiva, dal 1911 s’impegnò nello studio dei volumi; poi, nel 1912, adottò un sistema di costruzione piramidale di cui aveva rinvenuto il principio negli scritti di Leonardo da Vinci (Tavola imbandita: New York, coll. Francis Steegmuller; Strumenti musicali: Chicago, Art. Inst.), sistema che non gl’impediva di usare spessissimo colori vivi (Fanciulla al pianoforte, 1912: New York, coll. Mrs George Acheson; Fanciulla, 1912: Filadelfia, am, coll. Arensberg). Il suo scopo era anzitutto di realizzare un insieme armonioso; cosí il suo c fu volutamente moderato e ponderato. Tale fu pure quello di La Fresnaye, che dopo aver subito fortemente l’influsso di Cézanne (Corazziere, 1910: Parigi, mnam; Paesaggi di Meulan, 1911-12: New York, coll. Ralph Colin) adottò alcuni procedimenti cubisti, come quello dei «passaggi» o quello della sovrapposizione dei piani , senza sempre rompere peraltro con la prospettiva e la figurazione tradizionali. Nel 1913, per influsso di Delaunay, si orientò verso una modalità espressiva che poggiava principalmente sulla potenza costruttiva del colore, il che gli consentí di realizzare le sue opere migliori. Sarebbe forse divenuto un grande artista se la guerra non l’avesse lasciato in una condizione fisica che può almeno in parte spiegare il deplorevole arretramento dei suoi ultimi anni, nei quali cadde in un neoclassicismo che lascia dubitare sulle sue reali possibilità. Tanto piú che i suoi scritti denotano un inquietante rispetto per la tradizione. Adattare lo stile cubista alla composizione tradizionale fu, d’altronde, il progetto piú o meno confessato di molti altri epigoni del movimento, il principale dei quali resta André Lhote. Per lui esistevano infatti «invarianti plastiche» (Parlons peinture, Paris 1933), in base alle quali qualsiasi scoperta, qualsiasi procedimento tecnico nuovo doveva alla fine assoggettarsi alle norme della composizione classica: concezione che, evidentemente, non differiva troppo da quella dell’accademismo scolastico.
Cubismo e movimento
Questi artisti non osarono o non vollero adottare interamente il linguaggio cubista a causa del loro attaccamento alla tradizione; altri invece si accontentarono anch’essi di assumerne solo alcuni aspetti, ma non perché temessero di rompere totalmente col passato, bensí al fine di poter esprimere altri valori plastici loro cari che il c ortodosso aveva trascurati. Benché le cose non siano sempre cosí semplici, si può dire, per chiarire lo studio, che due grandi problemi rimisero parzialmente in questione i dati iniziali ed ampliarono l’orizzonte cubista: quello del movimento e quello dell’astrattismo. Il primo problema venne posto sin dal 1910 dai futuristi italiani, che affermarono sonoramente attraverso le loro opere e i loro diversi manifesti la natura essenzialmente dinamica del mondo attuale. Persuasi di essere gli unici pittori veramente moderni, accusavano i cubisti della tendenza a pietrificare la propria arte nella staticità, «con accanimento passatista», dimenticando peraltro che dovevano loro gran parte dei propri procedimenti tecnici, ciò che Gino Severini doveva finalmente riconoscere piú tardi. Malgrado questa relativa ostilità che fece nascere numerose polemiche, pochi cubisti restarono totalmente indifferenti alle proposte futuriste, e alcuni dovevano persino subirne piú o meno transitoriamente l’influsso. Fu il caso in particolare di La Fresnaye (seconda versione dell’Artiglieria, 1912: Chicago, coll. Sarmiel A. Marx), che per qualche tempo s’interrogò sulla via da seguire, e di Jacques Villon (Soldati in marcia, 1913: Parigi, mnam), che ne serbò un certo senso del ritmo (Equilibrista, 1913-14: Columbus O., Gall. of Fine Arts; Officina meccanica, 1914: New York, coll. E. Stein). Léger e Delaunay, dal canto loro, cercarono di creare una visione francamente dinamica, ma mediante il colore puro. Tuttavia, il cubista piú vicino all’estetica futurista fu certamente Marcel Duchamp. Il c di Duchamp era già fortemente originale. Traendo una conseguenza nuova dalla moltiplicazione degli angoli visuali e dalla dissociazione di forma e colore del c analitico, sin dal 1911 si era interessato soprattutto del problema delle trasparenze e delle loro possibilità plastiche (Ritratto di giocatori di scacchi, 1911: Filadelfia, am, coll. Arensberg). Col Giovane uomo triste in un treno (1911: Venezia, coll. Peggy Guggenheim) e col Nudo che scende le scale (prima versione, 1911: Filadelfia, am, coll. Arensberg), affrontò in pieno il problema dell’espressione del movimento: la seconda versione del Nudo (1912: ivi), piú astratta della precedente, provocò d’altro canto grande scandalo nella famosa Armory Show americana del 1913. Egli non cercava, è vero, di rappresentare il movimento di un corpo, ma, diceva, le varie posizioni statiche di un corpo in movimento. Cosí non materializzava il movimento, ma lo suggeriva mediante la rappresentazione astratta delle sue conseguenze, in ciò superando il futurismo, che di fatto restava assai piú naturalistico.
Cubismo e astrattismo
Il problema dei rapporti tra il c e la non figurazione (o l’astrattismo, per impiegare il termine piú comunemente usato), visto in distanza appare relativamente semplice. Semplice non era in quell’epoca, e i due modi di espressione si confondevano o si contrapponevano senza che nessuno pensasse a tracciare tra i due un limite netto. In quanto isolava certi elementi da un insieme, il c era astratto, ma non per questo era non-figurativo nel senso reale del termine. Risolutamente realistico, ma contrapponendosi alla figurazione tradizionale, proponeva una rappresentazione nuova della natura che, senza obbedire alla visione ottica convenzionale, non per questo rinunciava a render conto oggettivamente del mondo esterno. Tuttavia alcuni artisti, allora collocati sotto l’egida del c o che in seguito riconobbero di dovergli qualche cosa, non esitarono invece a respingere qualsiasi allusione alla realtà esterna. Partito dal c, di cui a lungo subí l’influsso a partire dal 1911, Mondrian doveva infine abbandonarlo nel dopoguerra sviluppando «l’astrattismo verso il suo scopo finale, l’espressione della realtà pura» (Plastic Art and Pure Plastic Art, 1947: Wintenborn, New York); ma prima di lui due altri artisti vicini al c si erano già volti alla non-figurazione: Franti∫ek Kupka, che dal 1912 si dedicò soprattutto a rendere lo spazio mediante piani e armonie di colore (Piani verticali, Amorpha, 1912: Parigi, mnam) o di linee e arabeschi; e Francis Picabia, il quale, persuaso che le apparenze del mondo visibile abbiano valore puramente relativo, preferí ricrearle a propria fantasia. Dopo essersi concentrato sullo studio, già assai astratto, del volume (Processione a Siviglia, 1912: New York, coll. priv.; Danze alla sorgente, 1912: Filadelfia, am, coll. Arensberg), Picabia si volse dal 1913, con opere come Udnie (Parigi, mnam), Edtaonisl (Chicago, Art Inst.) o Catch as catch can (Filadelfia, am, coll. Arensberg), verso un’arte d’invenzione pura, che obbedisca unicamente alle leggi dell’immaginazione.
Ma di tutti i cubisti che figurano tra i pionieri dell’astrattismo, quello che arrecò la soluzione piú notevole e piú feconda fu certamente Robert Delaunay. Sin dalla seconda metà del 1912, con la serie delle Finestre (Parigi, mnam; New York, Guggenheim. Museum), ebbe l’idea di una pittura fatta unicamente di contrasti di colore, e nella quale il colore fosse insieme «forma e soggetto»: nella quale cioè il soggetto non avesse piú alcuna importanza (Squadra del Cardiff, 1912-13: Eindhoven, Van Abbe Museum; Parigi, mamv; Omaggio a Blériot, 1914: Parigi, mnam; Grenoble, Museo), o scomparisse del tutto, come nel Disco (1912: Madison Conn., coll. Tremaine), o nelle Forme circolari (1912-1913: New York, moma; Amsterdam, sm). L’essenziale per lui non era liberare il quadro da qualsiasi riferimento visivo alla natura, bensí adottare una tecnica «antidescrittiva». La potenza dinamica del colore gli consentiva d’altronde di dare al problema del movimento una soluzione originale, creando, attraverso un sagace contrasto cromatico, vibrazioni piú o meno rapide, che poteva controllare a proprio piacimento.
L’esaurimento del cubismo
La prima guerra mondiale doveva porre brutalmente termine alle attività della maggior parte dei cubisti. Braque, Léger, Metzinger, Gleizes, Villon e Lhote vengono richiamati. La Fresnaye, riformato, e Marcoussis, di nazionalità polacca, si arruolano. Molti di loro, certo, verranno piú o meno presto riformati e si rimetteranno al lavoro prima della fine della guerra; nuovi adepti, come Hayden, Valmier o Maria Blanchard, adotteranno piú o meno completamente il linguaggio cubista; ma le cose non torneranno come prima. Picasso, Gris e Delaunay proseguono, è vero, sulle strade precedentemente tracciate, ma sin dal 1917 Picasso stesso dà l’esempio di infedeltà al c (sipario di Parade: Parigi, mnam), seguito qualche anno dopo da Metzinger, Herbin e La Fresnaye, che dal canto loro tornano di colpo a formule risolutamente figurative; mentre Gino Severini, il piú cubista dei futuristi, si autorinnega pubblicamente nel volume Du Cubisme au Classicisme (1921), violenta critica dei procedimenti moderni. Altri, infine, s’impegnano in direzioni diverse: Duchamp e Picabia evolvono verso il dadaismo, Mondrian verso l’astrattismo totale, Uger, Marcoussis, Gleizes, Le Fauconnier e Villon verso modi espressivi assai piú nettamente personalizzati. Il solo Gris, pur evolvendo, resterà assolutamente fedele al c, che in qualche modo condurrà al suo punto di esaurimento. Cosí non sembra esagerato asserire che, se ancora nel dopoguerra si creano opere cubiste, il c è ormai praticamente concluso in quanto movimento storico.