Si chiama shishosetsu, il romanzo dell’io o romanzo-confessione. E’ il genere tipico della narrativa giapponese del Novecento, una tradizione letteraria diffusasi all’inizio del secolo nel solco del naturalismo di estrazione europea che modernizza la lunga consuetudine diaristica inaugurata dalle dame di corte dell’anno Mille (la stessa, per intendersi, che porta la misteriosa Sei Shonagon a comporre gli splendidi e sensuali Racconti del cuscino). Lo shishosetsu è un testo d’ispirazione autobiografica: un breve schizzo contemplativo, un saggio, un poema in prosa, un racconto dettagliato o un romanzo di più lungo respiro. E’ narrato in rigorosa prima persona, fa sempre riferimento ad un segmento temporale limitato (un viaggio, una stagione, un anno nella vita dell’autore) e il suo nucleo drammatico si palesa con un avvenimento che conduce ad una presa di coscienza (malattia, convalescenza, una crisi personale…).
Nelle pagine di Murakami ogni parola è stravolta con leggerezza e leggibilità estrema nel segno della parodia. Fondali magniloquenti di politica, costume e storia contro storie di quotidiana urbanità; lo zeitgeist di un’epoca raccontato attraverso una banalità voluta e dettagliata di particolari maniacali (marche di liquori, tipi di auto, griffe, riferimenti costanti a musiche e pellicole esplicitati in elenchi minuziosi). Si ride, si ride davvero, e si partecipa irresistibilmente a questo tratto minimalista che travolge di sana autoironia (e salva dallo strazio della geremiade intellettuale) il passaggio verso le definizioni e le inevitabili costrizioni dell’identità adulta.
Haruki Murakami, classe 1949, è nato a Kobe da un monaco buddista (lui stesso, da adulto, lo è stato brevemente nel tempio di famiglia) e da una commerciante di Osaka. All’università Waseda di Tokyo s’innamora della letteratura anglofona (non ha mai fatto mistero del suo culto per la temeraria mescolanza di stili e generi osata da Vonnegut, Pynchon e De Lillo), e partecipa alle rivolte studentesche contro la guerra in Vietnam: “Anche se il Giappone non partecipò alla guerra, noi eravamo convinti che dovevamo assolutamente porvi fine. Questo era il nostro sogno per un nuovo e pacifico mondo”, ha spiegato a riguardo. Si sposa poco più tardi, comincia a lavorare per una stazione tv, si stufa, apre con la moglie un jazz club a Kokubunji, si laurea nel 1975 con una tesi sul viaggio nella cinematografia americana. “Un bel giorno di primavera, nell’aprile del Settantaquattro, stavo sdraiato su un prato, bevendo una birra e guardando una partita di baseball. E improvvisamente decisi di scrivere il mio primo romanzo”. Ascolta la canzone del vento viene pubblicato nel 1979 e gli fa vincere il premio Gunzo come migliore scrittore emergente. Mentre viaggia velocemente tra l’Europa e l’America, crescono i successi letterari e i riconoscimenti. Nel 1985 a La fine del mondo e il paese delle meraviglie viene assegnato il prestigioso Premio Tanizaki. Ma è l’anno successivo quello della consacrazione: Tokyo Blues, scritto sorprendentemente tra una villa greca di Mykonos un appartamento alla periferia di Roma e ispirato agli anni “musicali” come commesso in un negozio di dischi, diventa il caso dell’anno con oltre quattro milioni di copie vendute in pochi mesi. Un altro piccolo culto scritto interamente a Roma, Dance Dance Dance, conduce un trionfante Murakami all’imbocco degli anni Novanta. Nel gennaio del Novantuno si trasferisce in America, dove lavora come ricercatore associato all’università di Princeton; il gennaio dell’anno seguente è nominato professore associato della stessa università. Col nuovo millennio ritorna in Giappone e si dà alle traduzioni: Fitzgerald, Irving e Carver, soprattutto. In questi ultimi anni si è dedicato all’attività di maratoneta.
Nel post-scriptum a Tokyo blues Murakami afferma di aver voluto scrivere un romanzo d’amore da dedicare agli amici. E in effetti questo è un romanzo d’amore, orientato – narra la leggenda – dal mood di Lennon e McCarthy, il cui ascolto in cuffia avrebbe ispirato il nucleo principale della narrazione. Corrono dunque le note di Norwegian Wood mentre Toru, giovane professionista in vena di bilanci, viaggia e precipita nel ricordo nostalgico degli anni universitari e del tormentato sentimento per Naoko. All’epoca il suicidio del comune compagno Kizuki costò a lei, già debole emotivamente, il ricovero coatto in una clinica psichiatrica; a lui il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere.
Un ritratto evocativo e accattivante, mitologico per certi versi, nel suo indulgere sul bagliore dell’adolescenza e l’eroismo della contestazione giovanile (siamo nel cuore degli anni Settanta). E Murakami è bravo a mettere in scena questa educazione sentimentale ai tempi delle barricate: rinvii e flashback, descrizioni impressioniste, lunghe sequenze dialogate, confessioni senza remore, sesso esplicito (intraprendenti e disinibite le figure femminili, sempre pronte a prendere l’iniziativa e predominare). Su tutto la musica, implicito alfabeto emozionale e richiamo complice al lettore.
Thriller, mystery, antropologia, fantascienza. Mukami “scrittore adulto” cerca un ordine maggiore delle cose da raccontare con metafore controverse e complesse. Dance Dance Dance riprende personaggi e situazioni del precedente Sotto il segno della pecora, in cui veniva immaginata l’esistenza dell’innocuo animale capace però di insinuarsi nelle persone e di dominarle su incarico di un’organizzazione di estrema destra alloggiata in un oscuro Albergo del Delfino (il potere? un mondo parallelo?). Un giornalista free lance che “ha perso molte cose nella vita, e ogni volta una parte di sé” torna sui luoghi del mistero scoprendo insoliti personaggi: una taciturna tredicenne capace di percepire il passato e il futuro, una receptionist troppo nervosa, un attore dal fascino irresistibile, un poeta con un braccio solo, sei scheletri che guardano la televisione in un salotto a Honolulu… Sullo sfondo un Giappone opulento e ultramoderno in cui lo sperpero di denaro dà nuovo impulso all’economia e “un gruppo musicale può scegliersi un nome assurdo come Adam and the Ants”. Nell’antro tenebroso dell’antico albergo, l’uomo-pecora gestisce questo surplus di ricchezza effimera e pacchiana e si erge a sinistro residuo del nulla ancestrale a cui tutti, forse, siamo destinati a tornare – lato oscuro, spogliato degli orpelli del consumo, di una società arricchitasi troppo in fretta…
Corsi, ricorsi e qualche conto da saldare. Nella trama sognate de L’uccello che girava le viti del mondo, sorta di quest affabulatoria in cui Toru ricerca la moglie scomparsa Kumiko lungo un percorso fantastico di labirinti fisici e mentali e dimensioni parallele, c’è un furioso mescolare di generi: analisi del profondo, favola, narrazione storica, racconto d’investigazione… E un generoso guardare ai meriti di chi ha tracciato la strada. Mishima, specialmente, nel ricordare gli anni Trenta e delineare l’ossessione per un passato non ancora pacificato (Murakami spende pagine dure per ricordare l’occupazione della Manciuria e i massacri compiuti dalle truppe giapponesi). Ma non tutto è così truce. Verso la fine la giovane May, personificazione della spontaneità e della speranza nel futuro, scrive a Toru che, durante i fine settimana, si diverte ad andare allo stagno dove vivono le anatre. D’inverno lo stagno è ghiacciato e quando le anatre atterrano fanno capitomboli irresistibili. Nella chiusa i due contemplano lo specchio d’acqua gelato, Le signore anatre sono migrate da un’altra parte.